di Daniela Bandini
Sabina Marchesi, I processi del secolo. Enigmi, retroscena, orrori e verità in trenta casi giudiziari italiani da Gino Girolimoni a Marta Russo, Editoriale Olimpia, 2008, pp. 304, € 16,50.
La storia è fatta anche di processi. Processi che a loro volta hanno segnato la storia, condizionandola o indirizzandola verso mete precise di rottura o di consolidamento strutturale. La società non si “serve” della giustizia per garantirsi un’etica, ma è semmai il contrario: i rappresentanti della giustizia generalmente interpretano i bisogni di un’etica per indirizzarla verso la mediocrità interpretativa delle leggi. Non ci saranno mai due sentenze uguali per i medesimi delitti, dipende dal momento storico, dall’opportunità del farlo, dal bisogno di sedare o aizzare gli umori di particolari categorie, anche ideologicamente, intendo, anche in maniera di rottura. La verità, questa dea tanto cara al nostro immaginario alla quale taluni sacrificano il loro idealismo, altro non è che una mera interpretazione: la verità è l’opportunità di rivelare una determinata cosa in un determinato momento a un determinato pubblico. Visione troppo cinica? E’ un fatto che ogni giorno muoiono molte persone in incidenti stradali. Sì, è la verità, ma lo era anche 20 anni fa, solo che non era in prima pagina.
Passiamo al bellissimo libro della Marchesi. Un lavoro che deve essere stato lunghissimo, vista l’accuratezza delle ricerche e la ricca bibliografia. Leggere I processi del secolo è necessario per approfondire non solo il periodo storico e quindi processuale dei fatti narrati, ma per calarsi nella quotidianità di un’epoca, e questa è, secondo me, la caratteristica più notevole del libro. Le vicende vanno dal 1900 al 1998, praticamente 100 anni. La sensazione che se ne trae? Molti cambiamenti, ma soprattutto tante, forse troppe, analogie. Nel senso che a ben vedere sono le stesse motivazioni, le stesse frustrazioni, le stesse ambizioni, le stesse passioni che ci fanno delinquere. Il libro ci immerge nelle atmosfere degli anni ’50 o ’60 senza però lasciarsi andare al paragone con il presente. La Marchesi sembra un’archeologa da questo punto di vista, assolutamente rigorosa: analizza il caso anche sociologicamente ma non si cala in nessun ruolo.
Vediamo alcuni di questi casi, partendo dal primo: 16 gennaio 1900. Isolina Canuti. Parte di un corpo mutilato viene ritrovato da due lavandaie nel fiume Adige. Ci vorrà tempo per ricostruire l’identità della vittima, ma è quello che gira intorno al processo che interessa particolarmente. Insinuazioni di dubbia moralità, di comportamenti lascivi, la povera ragazza appare se non la colpevole almeno la corresponsabile del proprio destino. A essere accusato è allora una figura di rilievo dell’esercito italiano, e su questo si scatenerà la diatriba tutta politica tra chi pensa che il personaggio non verrà mai incriminato per ovvie motivazioni di convenienza e chi, per motivi altrettanto ideologici, ne prevede l’assoluzione. A voi leggere la sentenza.
Cesare Servitatti, novembre 1932. Sono passati 30 anni dall’episodio precedente. Cambiano radicalmente le persone e i luoghi dei ritrovamenti. In questo caso al centro sono una valigia apparentemente abbandonata in una stazione ferroviaria e una serratura che scatta da sé. L’esame dell’impiegato, un’occhiata distratta, giusto per vedere cosa c’è nel bagaglio e magari provare a richiuderlo, rivela uno spettacolo traumatico: si tratta di sezioni di corpo femminile, avvolti in un giornale. Ma purtroppo di valigie ce sono più d’una, e anche nella seconda appaiono membra sezionate e avvolte nel giornale. In seguito si saprà che disgraziatamente non è il primo e neppure l’ultimo cadavere che tale Cesare Servitatti ha massacrato. Il movente è economico: attirava le vittime, accuratamente selezionate, con promesse di un futuro felice e, ottenutone il denaro, le eliminava per passare a un’altra vittima. Verrà fucilato, dopo tentativi e richieste di grazia: una folla di 5000 persone attende che i colpi implacabili del plotone d’esecuzione raggiungano il bersaglio. Vicenda strana, nella sua macabra ritualità, dovuta soprattutto al substrato sociale nel quale si svolgono i fatti. Connivenze inimmaginabili, povere illusioni calpestate, e la constatazione amara che ci si può abituare a tutto, purché questo tutto non cancelli, non modifichi una sorta di equilibrio faticosamente raggiunto.
Ermanno Lavorini, 31 gennaio 1969, Viareggio. Questo delitto è forse il più “politico” tra quelli analizzati nell’opera della Marchesi. Si tratta del primo rapimento a scopo di lucro mai verificatosi in Italia. Ermanno è un ragazzino, figlio di una famiglia del nuovo “boom economico”, una famiglia di lavoratori, comunque, che ha cominciato con una piccola attività e poi l’ha ingrandita. Lo sfondo, una Viareggio in piena espansione economica come tutta l’Italia, l’estate, i villeggianti, i primi festini, le prime trasgressioni “pubbliche”, le prime discoteche. L’Italia scopre una nuova generazione: l’adolescenza. Prima non esisteva: c’era l’infanzia e il mondo del lavoro lì dietro l’angolo. Di questo omicidio verrà incriminato un intero mondo che timidamente sta emergendo: quello omosessuale.
Anche Pier Paolo Pasolini prenderà posizione, in maniera indignata, contro il massacro giornalistico che l’ambiente subisce. Epoca, che si caratterizzava per la sua “pacatezza” (per immergersi in quegli anni è necessario conoscerne il linguaggio), scriveva: “Non si tratta, dunque, di perseguitare gli omosessuali, ma di impedire che il loro vizio, tollerato quando è circoscritto, diventi oggetto di imitazione e quindi di ammirazione… dalle piazze, dai viali, dai caffé, dai giornali immorali, dai film indecenti, non deve più venire, a ogni momento, lo stimolo del vizio”.
I veri colpevoli, tre ragazzi giovanissimi, di cui uno minorenne, figli di noti personaggi locali, verranno incastrati e condannati per “rapimento a scopo di estorsione, concepito con l’idea di raccogliere i fondi per le attività eversive del gruppo”.
Quando Il Giornale, qualche settimana fa, scrive a proposito di Cesare Battisti che ha gli “occhi luciferini”, penso che sono sempre gli stessi stereotipi che inevitabilmente riemergono, e che il buonsenso è qualcosa di relegato alla magra consolazione della coerenza, nient’altro.