di Valerio Evangelisti
Una premessa alla seconda parte
La prima parte di questo intervento ha suscitato varie reazioni, per lo più positive. Non è però mancato qualche commentatore che ha approfittato del pezzo per attaccarmi, in genere aggrappandosi a cose che con l’articolo non avevano nulla a che vedere. Il caso più clamoroso, per poca intelligenza, è quello di un tizio che si è valso del sottotitolo — “Il crack finanziario spiegato al popolo” — per accusarmi di volermi atteggiare a intellettualino che parla ai classici “poveri ignoranti”. Non ha colto l’intenzione ironica, né l’avvertimento che la trattazione dell’argomento sarebbe stata di stile colloquiale.
A parte i casi palesi di imbecillità, c’è stato anche chi, prendendo a pretesto una mia frase volutamente paradossale — sugli Stati Uniti che “non producono un cazzo” — ha voluto elencarmi tutta una serie di beni che gli Usa invece producono, dalle sigarette Marlboro, agli aerei, alle biotecnologie.
Per lo meno, in questo caso una base di ragionamento c’era, solo che l’interlocutore sottovalutava le mie conoscenze. Un paese in cui l’industria manifatturiera produce appena il 15% del PIL (nel 2002: oggi è molto meno) e le importazioni superano enormemente le esportazioni, è un paese che “non produce un cazzo”. Non lo dico io. Lo dice Emmanuel Todd in Dopo l’impero (Tropea, 2003; si vedano le pagine 75-96 dell’edizione francese, Gallimard, 2002, che è quella che ho io). Lo aveva già detto Immanuel Wallerstein in Il declino dell’America (Feltrinelli, 2004; di lui si legga anche questa recentissima intervista, in francese e in spagnolo, nonché questo intervento. Insomma, io sto cercando di far conoscere tesi altrui, non mie. Se ometto una bibliografia è solo per gli intenti divulgativi che perseguo.
Per i pignoli, considerazioni molto simili alle mie si trovano negli ultimi numeri di Proteo, la rivista quadrimestrale del Centro Studi sulle Trasformazioni Economico-Sociali, e soprattutto in questo saggio di Giorgio Gattei, da cui ho largamente attinto.
E se scrivo che oggi Goldfinger, violato Fort Knox, vi troverebbe solo ragnatele, sto esponendo in linguaggio magari pittoresco una verità nota a tutti: l’attuale insufficienza delle riserve auree americane, in rapporto alla quantità di dollari in circolazione. Chi non lo sa veda di informarsi. Come veda di leggersi la semplice voce “Federal Reserve” su Wikipedia, per capire come la Fed possa modificare, attraverso il tasso ufficiale di sconto, un tasso di interesse in teoria di competenza del mercato.
Ma ora lascio le quisquilie e torno al discorso che stavo facendo.
6. La classe “smaterializzata”
Un certo Harry Braverman, operaio americano e redattore della Monthly Review, scrisse nel 1974 un libro eccellente: Lavoro e capitale monopolistico (Einaudi, 1975). In esso sosteneva che Monsieur Le Capital rimodella di continuo le classi subalterne, secondo le sue convenienze. A volte sono il classico proletariato di fabbrica. Altre volte si tratta di soggetti apparentemente autonomi (dagli impiegati, ai precari con partita IVA, ai “collaboratori esterni” così diffusi ai nostri tempi). Comunque è sempre la classe operaia ribattezzata in vari modi, senza che la sua subalternità venga meno. Gente coinvolta nella valorizzazione del capitale, in maniera diretta o indiretta, a seconda delle fasi storiche. Lungo filiere di produzione che si propagano territorialmente, nel paese d’origine o altrove.
Il “decentramento produttivo” degli anni Settanta ha avuto il suo corollario nella “delocalizzazione” degli anni Duemila. Grazie alla cosiddetta “globalizzazione”, cioè alla vittoria del capitalismo soprattutto americano sul socialismo “reale”, ogni padrone ha potuto cercare altrove manodopera a minor costo. La ha trovata in Asia, in America Latina, nei paesi dell’Europa orientale. Operai che si accontentano di un salario da due soldi, tanto per non patire la fame (sono oltre 18.000 le imprese italiane impiantate in Romania). Salari ridicoli, da filiali georgiane, moldave, polacche, persino ceche (la Cecoslovacchia, quando era unita, fu un po’ il fiore all’occhiello, sul piano della produzione industriale, del sistema sovietico). E’ ritornello insistente quello che la classe operaia sia in via di sparizione, che il lavoro “immateriale” abbia preso il suo posto, che non rimangano altro che declinazioni della classe media. In realtà, su scala mondiale, gli operai si sono moltiplicati, con una distribuzione geografica dipendente dal luogo in cui si insediano le attività produttive. Il falso lavoro autonomo, invece, prospera in tutto l’Occidente (Usa+Europa+Giappone, oltre a Canada e Australia).
Monsieur le Capital, a questi primi risultati, stappa bottiglie di champagne. Trova manodopera in condizioni quasi schiavistiche qui e là per il mondo, può dissolvere lentamente la forza-lavoro interna, “esternalizzare” rami produttivi in sovrappeso, frullare in pezzettini la classe a lui antagonista, in modo che non abbia nemmeno più la percezione di essere una classe. Soggetti sparsi, isolati, privi di identità e di connessioni, dediti alla concorrenza reciproca. Producono senza corrispettivi adeguati, e dunque consumano sempre meno. A ciò rimedia l’economia astratta, puramente monetaria. Lì finiscono i profitti. La produzione di merci a mezzo di nulla. Vuoti indici bancari o borsistici, totalmente slegati dall’economia reale. La quale resta la fucina del proletariato. Ciò che si è fatto immateriale è il capitale, non le classi subalterne!
Chi si domanda dove siano oggi “gli operai di un tempo”, in realtà si sta domandando dove sia finita la forza che questi avevano per un secolo e passa accumulato. Perché dove siano gli operai è facile scoprirlo, se si guarda al di là dei confini nazionali, oppure se, nell’ambito della stessa nazione, si getta un’occhiata nelle sedi delle infinite agenzie per il reclutamento di lavoratori interinali, sorte a ogni angolo di strada. Per non parlare del lavoro nero, o anche di larghi settori del lavoro impiegatizio, di quello detto “autonomo”, di quello terziario, del comparto dei servizi. E’ lì la classe operaia, in una fase in cui non è più conveniente radunarla in grandi complessi industriali. Oppure vive nelle mansioni semi-servili degli immigrati, variabile moderna dell’antico bracciantato senza averne la storica compattezza.
7. Povere classi medie
E’ stato ripetuto fino all’ossessione che asse centrale dell’odierno assetto produttivo sarebbero le “classi medie”. Operose, diligenti, risparmiatrici. Oggetto di libidine per tutte le forze politiche: di destra, ovviamente, ma anche di centrosinistra, di post-sinistra, persino di “sinistra radicale”. Poi basta una scommessa sbagliata dell’economia finanziaria, ed ecco che quelle classi medie si trovano con il culo per terra. Pronte a cadere, con il loro pugno di azioni che non valgono più nulla, con fondi di investimento diventati inaffidabili, con i loro mutui ormai impagabili, con generi di prima necessità dai prezzi impazziti, nel baratro sottostante.
Attenzione: non in una “classe” sottostante. Le classi esistono oggettivamente, però, soggettivamente, per esistere, bisogna che abbiano che abbiano consapevolezza di se stesse. Per un lungo periodo, dal 1980 a oggi, la piccola e media borghesia ne ha avuta, certo più forte di quella degli operai e dei proletari in genere, che andava declinando. Le trombe suonate da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher chiamavano a raccolta, echeggiate dal triccheballacche di Bettino Craxi, dubbio socialista, e più tardi dall’ancor peggiore Tony Blair. Si apriva l’era storica della middle class, riluttante alla solidarietà con chi le stava sotto i piedi. Il suo valore supremo, a parte il denaro, era l’egoismo considerato virtù. La non-solidarietà. In Italia fu epocale, nel 1980, la marcia dei 40.000 quadri e impiegati della Fiat di Torino contro l’occupazione della “loro” fabbrica da parte dei lavoratori di rango inferiore, nell’ambito di una vertenza sindacale. Noi siamo “classe media”, che cazzo volete da noi? Perché mai dovremmo sentirci partecipi dei vostri problemi?
Da qui partirono il craxismo e il suo figlio deforme e cattivissimo, il berlusconismo (nella sua prima versione neoliberista, non in quella attuale, populo-fascista). Mi chiedo quanti dei 40.000, se sono ancora al mondo, non debba oggi alimentare figli maggiorenni che passano da un lavoro all’altro e vivono presso i genitori, oppure non temano per le proprie pensioni o per i propri risparmi. Quanti di essi siano più simili a chi sta loro sopra e diversi da chi sta loro sotto. Gente del genere non mi ispira la minima simpatia umana. Si sono tuffati nella piscina del padrone, solo che per loro mancava l’acqua. Hanno battuto la testa. Mi guarderò dal chiamare il Pronto Soccorso.
8. L’orologio impazzito
Torno al filone serio del discorso, e cioè al baratro improvviso che si può spalancare, e si spalanca in questi giorni, sotto i piedi della classe media, non solo negli Usa. La turbolenza è forse solo transitoria, ma i suoi effetti si protrarranno. Un’economia astratta, fattasi troppo astratta (cioè troppo lontana da là dove il lavoro dà valore alle merci), per tenersi in piedi sottrae liquidità all’economia reale. Richieste imprenditoriali di crediti per l’investimento resteranno deluse. Conseguenza, per quell’orologio impazzito che è di norma il capitalismo, rallentamento dell’innovazione e dei profitti, rivalsa sul costo del lavoro, licenziamenti, calo dei consumi (chi ha perso il suo posto di certo consuma meno), domanda bassa, discesa dei prezzi produttivi (a cominciare da quelli delle materie prime), ascesa dei generi di prima necessità (le esigenze di una forza-lavoro in crisi si spostano su beni necessari alla sopravvivenza: pane, riso, pasta, fagioli ecc., a seconda dei quadranti geografici).
Proiettiamo la cosa su scala intercontinentale. E’ una tragedia umana. Lo scemo di turno continuerà a ripetere che il capitalismo ha arricchito il mondo intero, in pochi anni di dominio assoluto. In realtà lo ha solo esposto alla capricciosità di un sistema fatto di simboli, e in cui ogni uomo è un avatar, separato dalle sue esigenze di vita. Finché il tutto non si blocca, e la finanza, in crisi debitoria, si rivale bloccando il credito alla produzione.
E’ quella che viene detta “recessione”. Portato per vocazione di classe a colpire i soggetti subalterni, Monsieur Le Capital insisterà perché gli operai siano pagati meno, perché possano rivalersi solo attraverso gli straordinari (e cioè amplificando all’estremo la loro giornata lavorativa), perché rinuncino a tutto ciò che prima avevano di garantito: casa (con molti dubbi sul grado di garanzia), scuola, posto fisso di lavoro, pensione in età ancora attiva, assistenza medica e sociale. Si accuserà di fannullaggine chi godeva di qualche salvaguardia dal licenziamento immotivato. Tutto ciò che era gratis, perché ritenuto socialmente utile, per non dire spettante di diritto, dopo sarà messo in vendita. Servono liquidi da immettere sul mercato finanziario. La scuola, dalle elementari all’università, il pubblico impiego, l’elevazione dell’età pensionabile, il passaggio dal lavoro sicuro al precariato (accompagnato da opportuni slogan che esaltino la “flessibilità”) diventano oggetti di risparmio monetario, perché la finanza possa ripartire. Perché possa risanare, con i suoi tuffi e le sue giravolte, con la sua inconsistenza di fatto, le incongruenze di un dominio di classe. Unico fattore concreto in tutta questa vicenda.
9. Chi fabbrica le classi
Dunque, si dirà con scandalo, le classi esistono ancora. Certo che esistono. Cambiano forma e localizzazione perché così vuole il vero “fabbricante di classi”. Il capitale? Sì, ma non direttamente. Il capitale ha una sua estensione pratica. Il proprio “gabinetto d’affari”: lo Stato. Più i vari conglomerati statuali transnazionali che hanno preso vita nel corso dei decenni, su scala continentale e intercontinentale, a spese della democrazia. Tipo una Banca Europea che non è eletta da nessuno, e tuttavia regge attualmente il “sistema Europa”, decidendo direttamente, senza censure possibili, cosa sia meglio per i suoi cittadini. Una funzione ribadita dal recente progetto di Costituzione Europea, che santificava il libero mercato. Progetto respinto dalle cittadinanze di vari paesi (Francia, Danimarca, Irlanda), tra le poche chiamate a un voto diretto; e, poiché quel voto non era quello auspicato dalle classi dominanti, rimandate a votare come scolaretti colti in fallo, oppure aggirate a colpi di decreto e di maggioranze parlamentari. In nome della democrazia.
Si dirà: ma lo Stato è democrazia. I cittadini votano i loro rappresentanti, e costoro operano scelte in nome della pubblica utilità, per il bene di tutti. Non è affatto così. Lo Stato è anzitutto economia. Può scegliere di intervenire o non intervenire, sono scelte sue. A seconda delle decisioni, attraverso i propri organi interni o collaterali, rimodella o rinomina le classi sociali, amplia o contrae i servizi, indirizza l’imposizione fiscale e, attraverso il monopolio dell’uso della forza, reprime o neutralizza i segmenti riluttanti alla sua disciplina. Lo Stato è come un lombrico: contrae o prolunga il proprio corpo. Si proclamerà in ritirata nei periodi di prosperità del capitale, si allungherà nei momenti in cui il capitale va protetto dall’ennesima turbolenza. Se la crisi è grave per davvero, si spingerà fino a nazionalizzare i settori da proteggere e salvaguardare. Fase nella quale i commentatori meno avveduti parleranno di uno Stato neoliberista che si fa keynesiano, o addirittura “socialista”.
Stronzate. Marxisti e post-marxisti, o anche marxisti “eretici”, non hanno mai parlato di “nazionalizzazione”, bensì di “socializzazione” dei mezzi di produzione. La nazionalizzazione è un mezzo fra i tanti in mano al capitale. Per fare un esempio, la Corea del Sud, durante la crisi delle “tigri asiatiche”, nazionalizzò temporaneamente il sistema bancario, che poi cedette (con lucro) ad acquirenti privati. La “socializzazione” è qualcosa di molto diverso, e implica una capacità decisionale dal basso, dagli operai che partecipano alle scelte strategiche di una direzione eletta dalla base, e dunque revocabile.
Attualmente nessuna delle due alternative, nazionalizzazione o socializzazione, appare praticabile; salvo la prima, applicata occasionalmente in circostanze d’emergenza dallo stesso Stato-capitale. Ma perché insisto nel rendere indissolubile questo binomio, Stato e Capitale? Perché ritengo che entrambi diano corpo, congiuntamente, al “fabbricante di classi”? Non è lo Stato la proiezione diretta della volontà degli elettori, che, scegliendo i propri parlamentari, avvia, nei sistemi democratici, la sustanziazione di un potere decisionale che interpreta la volontà collettiva?
10. Dove sta la democrazia
No, non lo è. Intanto, l’autonomia degli eletti dagli elettori è postulata da quasi tutta la scienza politica contemporanea (Ralf Dahrendorf, Anthony Giddens e molti altri). Si rimproverano spesso gli eletti quando questi si adeguano alla volontà di chi li ha mandati in parlamento (a volte ciò è chiamato “populismo”), dando per scontata e auspicabile l’autonomia del ceto dirigente dai votanti che lo esprimono. Inoltre, sottili meccanismi di selezione, capacità diseguali di modellare l’opinione pubblica, influenze collettive di stampo culturale e/o mediatico, pure e semplici menzogne (si veda il recente studio di Vladimiro Giacchè, La fabbrica del falso, Derive / Approdi, 2008), conducono a una “rappresentazione” della democrazia ben diversa da come essa stessa ama definirsi, cioè proiezione di una volontà comune. Lo dimostrano molti studi sul perpetuarsi delle élites parlamentari: condivisione dinastica di un seggio, in cui ci si trasmette il potere secondo linee di sangue (Filippo Burzio è stato tra i migliori analisti di questa degenerazione); prevalere delle imposizioni di partito sull’espressione delle preferenze; accessibilità differenziata ai media e alla visibilità da parte delle masse. Aveva ragione Marx quando, ne La questione ebraica, poneva in rilievo la fondamentale ipocrisia del sistema detto impropriamente “rappresentativo”: fingere che, con l’introduzione del suffragio universale, tutti i soggetti titolari di voto abbiano eguali diritti, mentre non è affatto così. Chi è in posizione subalterna non ha modo di condizionare o di alterare il processo elettorale, mentre chi gode di uno status sovraordinato lo ha, naturalmente. Il Diritto con la D maiuscola, nel sancire che tutti i cittadini sono eguali davanti alla Legge, sancisce la “menzogna democratica”: l’uguaglianza che afferma di fatto non esiste, la comunicazione è in mano ai privilegiati che possono comprarsela e dominarla. Non esiste oggi nessuna democrazia reale, né in Oriente né in Occidente. Nella seconda fetta del mondo c’è ancora libertà di parola, però non tocca alcun serio processo decisionale. Si può dire di tutto (lo sto facendo), ma le parole liberamente espresse non smuovono più vento di un battito d’ali di farfalla. Sono lasciate volare perché innocue.
Lo Stato non è la democrazia all’opera. E’ invece la sede di pianificazione del capitale, dove, da una prospettiva più ampia di quella aziendale, si disegnano i progetti di sfruttamento di grande portata. Si potrà decidere se stringere o allentare le redini, se è il caso di nazionalizzare o di privatizzare. Il “fabbricante di classi” non è neutrale, sa lui come gestire la subalternità e far guadagnare i fantini. Ogni tanto cade di sella, è vero. Ma nessuno si illuda che in quel momento —le crisi — batta davvero la testa, e si converta alla causa dei ronzini.
Esiste un solo evento che fonda democrazia diretta e la fa duratura. E’ quello della lotta, quando la classe operaia, pur scomposta nelle svariate denominazioni in cui il capitale l’ha frammentata (operai veri e propri, precari, impiegati “fannulloni”, ceto medio alla fame, nugoli di senza casa, lavoratori autonomi che autonomi non sono per niente, studenti riluttanti a entrare in questo bel mondo, fornitori di servizi “esternalizzati”, migranti vittime di un nuovo schiavismo, ecc.), scendono nella piazza e se la tengono. La fase acuta durerà poco, ma sedimenterà. Possono nascerne organi di decisione dal basso capaci di innescare future conflittualità.
E’ minoranza? Può darsi, ma è maggioranza tra chi è attivo, e non schiavo del voto e degli equilibri parlamentari. Contrapposto a chi è passivo e, contento di votare ogni cinque anni, per eleggere rappresentanti incontrollabili, vive solo in sondaggi regolarmente consensuali. Di peso politico e democratico analogo a chi, col televoto, decide chi resterà nell’Isola dei Famosi.