di Valerio Evangelisti (da il manifesto, 21 agosto 2008)
[Questo articolo è ormai vecchiotto, ed è stato riprodotto in una quantità di siti. Forse è il caso di riproporlo, mentre le strade di Bologna sono percorse da cortei quotidiani, come molti anni fa. I fortilizi costruiti su basi solide resistono al tempo e alle fasi contingenti, garantendo ai movimenti una continuità negli anni.]
Il numero 5/B (ma oggi 5/A) di via Avesella, una stradina nel centro di Bologna, è un luogo storico della sinistra non istituzionale bolognese. Lo è da quasi quarant’anni, tanto che meriterebbe una lapide commemorativa. L’intera via, del resto, vanta analogo passato, visto che ha ospitato di volta in volta case occupate, locali alternativi, gruppi femministi e altro ancora.
Nei primi anni ’70 il 5/B fu la sede de il manifesto, che allora, oltre che un giornale, era un gruppo politico. Passò poi a Lotta Continua, quando questa abbandonò i locali periferici che occupava in via Rimesse. Seguì, tra il 1978 e il 1981, una fase confusa: LC si era sciolta, e al 5/B rimase per un poco la redazione locale del quotidiano; poi vi si insediarono una serie di collettivi sopravvissuti all’estinzione del gruppo extraparlamentare. Vicini agli autonomi, ma ancora non disposti a rinunciare del tutto alle vecchie simbologie.
Finalmente, nei primi anni ’80, fu l’autonomia di tendenza “romano-padovana” che prese definitivamente possesso della sede. Oggi occupata dal Centro di documentazione Francesco Lorusso, collegato al centro sociale Crash!
In realtà la storia è più complicata di così. Per darne un’idea, conviene partire da cosa troverebbe, ai giorni nostri, un improbabile turista che volesse visitare via Avesella 5/A, alla ricerca di una Bologna che più underground non si può.
Varcata una grande porta metallica, tipica di un garage o di un’officina, si troverebbe in un cortile acciottolato. Sulla sinistra i gabinetti, e subito dopo un ampio parallelepipedo. Ospita attualmente un circolo-osteria molto frequentato da studenti, che si chiama La Paresse (in passato L’Onagro, e tanti lo chiamano ancora così; per un breve tempo, Il diritto all’ozio). In fondo al cortile, sotto una veranda, la sede politica vera e propria, con varie salette e un piano elevato in legno. Una scala che scende, all’esterno, conduce alle cantine, suddivise in due ambienti.
Tutto ciò ha una storia. Per esempio la presenza di un’osteria. Accadde che, subito dopo il ’77, la polizia si accanì contro la libreria anarchica Il Picchio, diretta da Mario Barbani (militante glorioso della FAI, delfino di Armando Borghi) e situata nella vicina via de’ Preti. Barbani chiese ospitalità al 5/B, e gli fu accordata in via provvisoria. La “provvisorietà” della sistemazione fu però smentita dal fatto che, invece di un centro di documentazione, l’anarchico installò una sorta di birreria, dove erano in vendita giornali e libri “antagonisti”, ma in cui prevaleva il servizio di bar.
In quel periodo (1978-1979) mi trovavo a essere, di malavoglia, il gestore di via Avesella 5/B. Nel senso che ne avevo le chiavi e dovevo portare mensilmente l’affitto al proprietario: un uomo anziano e simpatico dai grandi baffoni, che abitava a Borgo Panigale, ai limiti della città. Lui e la moglie appartenevano al PCI, ma non avevano preclusioni nei riguardi degli extraparlamentari. Quando si approssimava la scadenza dell’affitto, dovevo questuare per Piazza Verdi, tra gli appartenenti ai collettivi che si riunivano in via Avesella, per raccogliere la somma. Quasi mai ciò che raccattavo corrispondeva a quanto c’era da pagare. Il resto dovevo metterlo io.
Da un certo punto di vista ne valeva la pena. L’attività del 5/B, a tre anni dal decesso di Lotta Continua, era ricchissima, le riunioni quotidiane. A parte i collettivi strettamente politici, vi si ritrovavano il comitato di base dei tranvieri (quattro in tutto, però promotori di uno sciopero selvaggio che aveva paralizzato la città); vi operava la mattina un ambulatorio autogestito per eroinomani, curati con somministrazioni di morfina (nacque un problema quando ci si accorse che i medici lasciavano le fiale di morfina in un cassetto di via Avesella: abbastanza per farci finire tutti dentro, alla prima perquisizione); si incontravano gruppi musicali di quartiere; si radunava talora l’Unione Studenti Africani; confluiva occasionalmente la redazione de Il fondo del barile, un giornaletto scritto in larga misura da operai della Ducati (uno dei loro leader, Valerio Monteventi detto Ciano, è oggi tra gli animatori del centro sociale Vag 61, e consigliere comunale indipendente nelle liste di Rifondazione).
Insomma, non c’era da annoiarsi. Quando però Barbani cominciò a esigere che il parallelepipedo interno al cortile di via Avesella gli fosse concesso per sempre, alla riunione degli eredi storici dei locali eravamo solo in due: io e un altro (credo, ma non ne sono certo, Tiziano Loreti: allora leader del Collettivo Alter, oggi segretario bolognese del PRC). Fummo sommersi da una quantità di comitati di quartiere inventati per l’occasione, di cui nessuno aveva mai sentito parlare. Dovemmo cedere, e così nacque l’osteria tuttora esistente.
La storia ci vendicò. Quando gli autonomi presero possesso delle stanze sotto la veranda, la tensione tra loro e i gestori de L’Onagro non fece che aumentare. C’era chi rubava corrente elettrica, chi si dimostrava intollerante verso quanti gli erano antipatici e non li voleva nel proprio locale. Tutto ciò sfociò in una rissa memorabile, con bicchieri di birra che volavano e tavoli rovesciati. La FAI prese posizione, furono distribuiti volantini. Con gli occhi del poi, l’episodio appare secondario. Gli autonomi non ce l’avevano con la FAI in generale, Barbani scontava le conseguenze di un carattere troppo spigoloso.
Per altri versi era molto aperto: durante alcuni anni le cantine de L’Onagro ospitarono, per concessione di Barbani, il Circolo Carlos Fonseca, un gruppo di solidarietà col Nicaragua sandinista, cui appartenevo. Nell’osteria si svolgevano le riunioni. Molto meglio tenerle lì che nell’umidità del sottosuolo. Mario Barbani, morto alcuni anni fa, aveva i suoi difetti ma anche i suoi pregi E’ stato parte essenziale nella creazione del mito di via Avesella 5/B.
Ma torno all’epoca della transizione, e in particolare al periodo 1979-1980. Svanita Lotta Continua, nella sua antica sede erano rimasti gli archivi. La collezione completa, fino al 1976, sia del quotidiano che del settimanale che lo aveva preceduto, mucchi di volantini, verbali scritti a mano di innumerevoli riunioni. Era documentata tutta l’evoluzione del gruppo, dalla metà degli anni ’70 fino allo scioglimento. Tra le carte più curiose c’erano dei resoconti successivi alla “rivoluzione dei garofani” portoghese del 1974, che su LC aveva influito molto. Riferivano di incontri in via Avesella con soldati e persino con qualche sottufficiale, per discutere di quanto avvenuto a Lisbona. Non si trattava, penso, di una volontà di emulare il Portogallo, quanto di una evoluzione del movimento che LC aveva creato nelle caserme, i Proletari in Divisa: uno degli aspetti meno ricordati di Lotta Continua. Le carte testimoniavano di una penetrazione non trascurabile.
Purtroppo gli storici non avranno mai più a disposizione quei documenti, per causa di Cirano. Questi era uno straccivendolo che abitava in via Avesella, e che quasi ogni pomeriggio capitava al 5/B in vista del progetto che coltivava: elevare a proprie spese, in mezzo al cortile, una statua alta un paio di metri di Francesco Lorusso, che aveva conosciuto.
Cirano, sempre intento a spingere un carrettino carico di robaccia, era un personaggio singolare: relativamente istruito, malgrado la vita da barbone, frequentava il Circolo Lirico ed era appassionato di musica operistica. L’altra sua fissazione era appunto la benedetta statua. Quasi ogni giorno veniva per scegliere la posizione giusta, e allargava le braccia per deciderne le misure. Quando gli chiedevo dove avrebbe trovato i soldi per costruire simile monumento, mi faceva l’occhiolino. «Li trovo, li trovo.»
Tenevo aperto il 5/B, praticamente da solo, ogni pomeriggio, nell’eventualità improbabile che venisse qualche visitatore. L’unico aficionado, a parte Cirano, era un tizio di una cinquantina d’anni, che arrivava accompagnato dalla madre molto anziana. Aveva scritto un opuscolo intitolato Il socialismo come analisi sperimentale, stampato a sue spese, e con aria stralunata me ne portava decine di copie ogni volta. «Lo legga, lo legga» mi incoraggiava la madre, «contiene grandi verità.»
Alla fine il tavolo della stanza d’ingresso del 5/B fu coperto di copie de Il socialismo come analisi sperimentale (il cui contenuto è così riassumibile: Gesù Cristo è stato il primo socialista). Lodai molto l’autore per le sue acute riflessioni, nella speranza che si togliesse dai piedi. Lo fece, ma in vista di nuove mete. Vidi l’angolo di un banco della libreria Feltrinelli reggere una pila di copie del saggio. L’autore, con mamma al seguito, si presentò anche ad alcune assemblee sul Cile e sulla Palestina. I suoi interventi coincidevano con un fuggi fuggi degli spettatori, mentre la madre ammoniva: «Silenzio! Aspettate! Sta dicendo grandi verità!»
Un pomeriggio, andando ad aprire il 5/B dopo alcuni giorni di assenza, incontrai per strada Cirano con il suo carretto. «Ieri ho portato via alcune carte inutili» mi annunciò.
Un po’ inquieto, entrai nella sede. Tirai un sospiro di sollievo: tutte le copie de Il socialismo come analisi sperimentale erano sparite. Quando però misi piede nella stanza accanto, al sollievo subentrò l’angoscia. Gli armadi che avevano contenuto l’archivio di Lotta Continua erano spalancati, giornali e documenti, poster e manoscritti erano scomparsi.
Mi misi alla ricerca di Cirano, nella speranza di potere ancora impedire lo scempio. Per una settimana non ci fu verso di trovarlo, segno che sapeva di averla fatta grossa. Quando infine lo scovai, di fronte alle mie proteste allargò le braccia. «L’ho fatto per pagare la statua a Francesco Lorusso, no?»
E’ chiaro che, di fronte a una simile motivazione, non c’era nulla da replicare.
Per fortuna, pochi mesi dopo, potei passare le chiavi del 5/B ad altri, che ancora reggono la postazione con molta dignità. Del mio periodo di interregno, a parte gli episodi divertenti, ne ricordo solo uno un po’ drammatico.
Si era nel 1979. Una manifestazione, non ricordo su quale tema, fu dispersa dai fumogeni e dalle cariche. Io corsi fino a via Avesella 5/B e mi chiusi dentro. Poco dopo la porta metallica rimbombò di colpi di manganello. Ma il 5/B era un bunker, non c’era verso di entrare (e nemmeno di uscire). Appena i colpi tacquero, schizzai fuori. Corsi verso via Indipendenza, dove mi imbattei nell’ennesima carica di quel pomeriggio. I lacrimogeni mozzavano il respiro. Il corteo dei compagni era chissà dove. Allora mi infilai nel cinema Arena del Sole, dove si proiettava un film assurdo: L’umanoide, di Aldo Lado. Lo vidi due volte (e fu una sofferenza), in attesa che gli scontri finissero. Nel frattempo, era tutto un andirivieni di gruppi di spettatori diretti ai bagni. Ancora non sapevo — mi fu spiegato dopo — che l’Arena del Sole, oggi teatro rispettabile, era allora un luogo d’appuntamento per gay.
Sta di fatto che, quando sento nominare via Avesella 5/B, nelle orecchie mi risuona ancora il leit motiv composto da Morricone per L’Umanoide, tutto ritmi incalzanti e campanellini. Il che non vuole essere una mancanza di rispetto nei confronti dei valorosi — un nome per tutti: “Pinuccio”, un mostro di sincerità e coerenza — che hanno saputo traghettare quella sede da una generazione all’altra.
Forse mi illudo, ma ho la sensazione che il futuro della sinistra antagonista bolognese dovrà fare i conti con l’indirizzo di sempre. 5/A invece che 5/B. Poco importa, purché i campanellini suonino con foga.