[Il nuovo romanzo di Tommaso Pincio, Cinacittà, edito da Einaudi Stile Libero, mi sembra un’acquisizione importante per la narrativa contemporanea italiana. In attesa di scriverne dovutamente, pubblico qui un video “impressionista”: sono immagini che emblematizzano alcuni aspetti della mia lettura di Cinacittà. Spero che possa incuriosire. Il ragionamento sul libro merita una forma strutturata, non una semplice recensione, poiché bisogna effettuare una ricognizione sulle modalità in cui Pincio evita il postmoderno, nonostante qualcuno possa cadere in un fraintendimento – fraintendimento che anche il video rende possibile. Chi, comunque, volesse leggere qualcosa di denso e a mio avviso molto profondo, può superare il video e cliccare per visualizzare la recensione che Daniele Giglioli ha scritto su Cinacittà nelle pagine di “Alias”, supplemento letterario de il manifesto. Oggi, 22 ottobre, alle 18.30, Tommaso Pincio presenta Cinacittà a Milano, alla Libreria Feltrinelli di piazza Piemonte 2. gg]
PINCIO: STRUGGENTE DELITTO DI MARCA CINESE
Da tre anni a Roma l’inverno non c è più, il Tevere è una discarica melmosa, si vive di notte perché di giorno si schiatta, per le strade non circolano macchine ma risciò. E il protagonista di Cinacittà, l’ultimo romanzo di Tommaso Pincio da ieri in libreria, racconta la sua storia dal carcere
di DANIELE GIGLIOLI
Un libro struggente. Non mi sarebbe mai venuto in mente, pur ammirandoli, di usare un’espressione come questa per gli altri romanzi di Tommaso Pincio. Anche se ora, forse, dopo Cinacittà (Einaudi Stile Libero, pp. 335, euro 17), quell’aggettivo assume una sua pertinenza retrospettiva, come se il ciclo apertosi con M e proseguito con Lo spazio sfinito , Un amore dell’altro mondo, La ragazza che non era lei, si fosse finalmente chiuso e potesse essere guardato come un tutto, un insieme, una costellazione, una mitologia non più solo personale – un tempo si sarebbe detto un’opera. Se nei romanzi precedenti qualcosa tratteneva il lettore, questo lettore almeno, da quell’adesione sentimentale che da smagata e consapevole si fa via via più ingenua e remissiva (un paradosso, certo, ma anche una delle massime soddisfazioni che la letteratura, e temo solo lei, può dare), era a causa di una sorta di cortocircuito sempre avvertibile e mai del tutto risolto tra idiosincrasia e sociologia, tra le ossessioni dell’autore e la sua invidiabile capacità di scandagliare tutti i fondali alti e bassi dell’immaginario contemporaneo. Ora invece le due parti della moneta combaciano: Pincio non parla più di sé e degli altri, parla per tutti, e forse lo faceva anche prima, o comincerà a farlo da adesso. A chi lo legge per la prima volta, consiglierei senz’altro di cominciare da quest’ultimo libro. Chi invece lo ha già letto non faticherà a ritrovare temi e toni che gli sono familiari.
L’azione si svolge a Roma, una Roma futuribile ma neanche tanto. Da tre anni non c’è più l’inverno, il Tevere è ridotto a una discarica melmosa, si vive di notte perché di giorno la temperatura tocca i cinquanta gradi, per le strade non circolano più macchine ma risciò perché la città è stata invasa dai cinesi, che prosperano dopo che gli abitanti si sono trasferiti in massa al Nord. Almeno quelli che avevano qualcosa da perdere, un lavoro, una famiglia, un passato decente, un futuro qualsiasi: sono rimasti solo gli spostati, i derelitti, quelli che non hanno più nulla da aspettarsi e da temere, come il protagonista. Che a levare le tende non ci pensa nemmeno, e se la passa bene come non se l’è mai passata in vita sua: non lavora, ha ridotto al minimo le spese, le pretese, i desideri, e campa centellinando con scrupolo da ragioniere la liquidazione del suo ultimo (e unico) lavoro. Gli basta poco: ravioli cinesi a un chiosco e una birra al gogo-bar vicino a Piazza Vittorio, dove non va per portarsi a letto le ragazze ma per star solo e contemplare il vuoto con la paziente dedizione al nulla liberatore di un Buddha di ultima generazione. Tutto è disposto, dentro e fuori di lui, perché non gli accada più niente: sempre meglio di quel poco che gli è accaduto prima, quando ha tradito se stesso, come scrive un po’ melodrammaticamente, rinunciando alla sua aspirazione a diventare artista per impiegarsi in una grossa galleria d’arte e vendere quadri che manco gli piacciono e i cui compratori paragona ai clienti che si innamorano delle puttane. Da bambino amava la fantascienza perché prometteva la fine del mondo, ora è arrivata e lui si trova benissimo. Non è da tutti diventare Buddha, però. Basta poco, pochissimo e la ruota del desiderio ti riafferra. L’uomo è un animale socievole. È sufficiente che un cinese più gentile degli altri ti abbordi, inizi a chiacchierare, dimostri magari di conoscere la storia di Roma meglio di te, che pure ti ritenevi un romano a cinquecento carati, ed ecco che ti ritrovi invischiato, irretito, intrappolato in una rete di aspirazioni sordide e senza illusioni, ma stranamente fascinose, assolute, irrefutabili, senza intervento alcuno del principio di realtà. Poca cosa: per esempio una stanza all’Hotel Excelsior di via Veneto, che peraltro da tempo non è più un albergo ma un equivoco condominio cinese: una parolina del tuo nuovo amico ed ecco che ti puoi permettere qualcosa di impensabile, prima, quando il mondo non era ancora fuori sesto. Pochi euro, ed eccoti alloggiato come un principe russo in esilio, quello che in fondo hai sempre meritato, e non importa se dintorno non ci sono gran dame e miliardari ma cinesi che sputano per terra in corridoio. E poi le donne; anche lì niente gran dame, ma spogliarelliste e entraineuses, anche se il destino o colui che lo manipola ti ha concesso l’illusione che a te sia riservata la più bella di tutte, quella che non va con gli altri clienti, enigmatica e passiva, docile e indistruttibile come l’eroina di un manga, anche se la picchi o se te ne innamori. Il protagonista accetta, non riflette, non resiste, non si spaventa e non si esalta nemmeno, anche se sa perfettamente che non può finire bene, come gli dice inutilmente il suo amico Giulio in procinto di trasferirsi a Cristiania, in Danimarca, la città dei fricchettoni: non ti mettere con i cinesi, non te ne verrà nulla di buono. Infatti: quella che leggiamo è la sua autobiografia scritta dal carcere, dove sconta l’ergastolo con l’accusa di aver ucciso la sua amante. È innocente, non è stato lui, lo hanno incastrato? Non importa, difendersi non serve, e poi chi gli crederebbe dopo che lo hanno trovato rinchiuso nella sua stanza accanto al cadavere di Yin morta da una settimana? Il suo avvocato, un altro outsider che passa il tempo a rimbambirsi di oppio e gli offre gratuito patrocinio perché lo sente affine (ma per il protagonista non vale in contrario: che ha a spartire lui con quel relitto? tra relitti non si solidarizza, che si crede) insiste per ottenere la revisione del processo: faccia pure, a lui non interessa. Dove potrebbe andare? A quale passato o a quale futuro potrebbe far ritorno? Servirebbe a far tornare in vita Yin? E poi, se anche la verità è stata violata, la giustizia forse non lo è; manipolato o meno che sia dal suo amico cinese, il protagonista si sente responsabile della propria ignavia. Questo vuol dire essere romano: non è il mondo o la storia, sei tu che sei finito, se accanto a te accadono cose enormi – migrazioni, catastrofi economiche, sconvolgimenti climatici – e tu non riesci a controllare nemmeno quelle che riguardano il tuo portafoglio o il tuo eros (per usare un eufemismo, ma altro sarebbe il termine più esatto). Eppure. Eppure da queste pagine disincantate, stese con una lingua che non sale mai di tono, e nemmeno si abbassa, a dire il vero, parche di immagini e del tutto prive di metafore, sospinte da un ductus che sciorina quasi senza parere un sapientissimo gioco di flashback e anticipazioni (al contrario di quanto farebbe un qualunque promettentissimo e frastornante allievo di una scuola di scrittura, e l’autore non sa quanto gliene siamo grati), eppure da queste pagine spira uno stranissimo senso di pace, di compimento, di debito pagato, di conto finalmente saldato. Dell’autore con se stesso, data la massa di palesi riferimenti autobiografici? Dell’autore in quanto rappresentante (come si dice per comodità corriva) della sua generazione? Certo è che a chi ne fa parte basta un minimo sforzo di astrazione per identificarsi, riconoscersi, sentire il «tu sei questo» che è forse l’incombenza più primordiale e insopprimibile di qualunque finzione narrativa: non provarci nemmeno, assentire senza riserve al proprio fallimento, puntare a perdere con la cieca tenacia testarda di una tenia. Con la sola attenuante, se non è piuttosto un aggravio, di saperlo e di saperlo dire.
Pincio protagonista è un incapace in tutto tranne che come scrittore: l’ha scritta lui, in fondo, questa bellissima storia. Pincio scrittore è forse giunto al proprio fondo, al proprio mito, e lì ha sentito – e non soltanto preteso, come prima; ma ora non è più detto – che non era solo suo, ma di tutti, un po’ come nessun artista giovane può più prescindere, li ami o meno, dagli attoniti pupazzi di Cattelan. Resta da chiedersi cosa augurarsi, per lui e per i lettori. Forse la fine della ripetizione, ovvero che ciò che è stato detto infinite volte sia stato pronunciato ora una volta per sempre e poi più. Forse che la straniante serenità di questo libro sia la promessa di una liberazione per l’autore e per chi legge. Per l’autore dall’enorme armamentario di materiali, costumi e attrezzi di scena che si trascina dietro eroicamente di libro in libro: barboni, extraterrestri, rockstar e adesso anche cinesi. Per il lettore dalla maledizione di poter considerare perfetto – e bello – solo un fallimento che è comunque e sempre il suo.