di Valerio Evangelisti
1. Le rovine di Buffalo
L’anno scorso, 2007, mi trovai a viaggiare per il nord degli Stati Uniti, proveniente dal Canada, in compagnia di un amico, docente universitario a Toronto. Rimanemmo molto colpiti da ciò che vedevamo. Villaggi in rovina, quasi disabitati. Accampamenti di roulottes. Una città famosa, Buffalo, ridotta a un fantasma. Alle 18 del pomeriggio le vie erano quasi completamente deserte, a parte qualche barbone di colore, dal ventre prominente e con la bottiglia in mano. Donne obese che trascinavano la loro borsa fino alla fermata dell’autobus. Attorno, grattacieli di tipo newyorkese con una metà dei vetri rotti. La stessa Camera di Commercio, concepita a mo’ di monumento, necessitava di riparazioni. Quello che la guida proponeva come “quartiere dei divertimenti” era una sfilza di immobili cadenti e di porte sbarrate. Unica presunta attrattiva un caffè Starbuck con due tavolini all’aperto. Non c’era altro.
Questo per dire che la crisi finanziaria, cominciata negli Stati Uniti e ora estesa all’Europa e al mondo intero, non mi ha colto di sorpresa. Prima che la finanza, stava soffrendo l’economia reale, in buona parte del cosiddetto Occidente. Buffalo era stata a suo tempo città industriale, finché le sue fabbriche non furono condannate a morte, per via della “globalizzazione”, della “delocalizzazione” e dell’incapacità di reggere una concorrenza fattasi mondiale. Per i padroni una soluzione semplice: investire altrove. Per la forza-lavoro nessuna soluzione, salvo ridurre progressivamente i propri consumi. Fino a trovarsi in miseria nera, e non consumare affatto. A parte i periodi di scarse occasioni lavorative a breve termine, senza garanzie di un reddito duraturo. Il cosiddetto precariato — o, per dirla in termini moderni, la “flessibilità”. Si badi alla valenza delle parole. Quanti elogino, o abbiano elogiato in passato, la “flessibilità”, sono dall’altro lato della barricata (cioè dalla parte del padronato), quale che sia la loro bandiera.
Chi aveva appartenuto alla classe media aveva spesso stipulato mutui con le banche per comperarsi una casa, nella certezza di poterli rimborsare nel tempo. Non si era atteso che l’ammontare delle rate mensili d’improvviso crescesse, fino a triplicarsi o a quadruplicarsi. Quando non ce la fece più, smise di pagare. Lasciando, giustamente, le banche stesse in mutande, e intente a vendere pacchetti di clienti morosi alle loro consorelle. Si scambiavano sacchetti di spazzatura attraverso il mondo intero, fingendo che valessero qualcosa. Mentre la loro vittima sfruttava la sua carta di credito fino all’esaurimento.
Fin qui arrivano le analisi correnti, leggibili ovunque. Occorre spingersi un poco più in là. Altrimenti sembra che la causa di tutto sia stata l’eccessiva fiducia del sistema bancario nei confronti della solvibilità di poveri cristi. Colpevoli reali, per lo meno di imprudenza, a rigor di logica.
2. L’orologio del capitalismo
Perché le rate dei mutui erano aumentate? Perché la Federal Reserve aveva, tra il 2003 e il 2007, quintuplicato il tasso di interesse, dopo averlo ridotto nel triennio precedente a un semplice 1%. Con l’abbassamento aveva sollecitato compere e investimenti, con l’innalzamento tentava di reagire al rialzo mondiale del prezzo del petrolio e di altre materie prime. In pratica, cercava di scoraggiare l’acquisto di prodotti petroliferi, rendendoli più costosi; ma così facendo, oltre a frenare gli investimenti (e a generare precariato e disoccupazione), colpiva gravemente chi fosse in posizione debitoria, come un gran numero di americani.
Va spiegato, semplificando all’estremo, che un imprenditore che voglia investire deve per forza ricorrere al prestito bancario. Se il tasso d’interesse praticato dalla banca (legato per varie vie al tasso ufficiale deciso dagli organi centrali) è alto, vi rinuncia. La sua rinuncia produrrà disoccupazione e minor consumo. Se invece è basso, vi sarà espansione. Con la conseguenza negativa che un maggior numero di occupati, elevando la domanda di merci, genererà inflazione. La piaga più temuta dal liberalismo oggi dominante. La teoria economica che ai giorni nostri, vinto il nemico “socialista” (ma anche il nemico semplicemente keynesiano), esercita la propria dittatura, ha fatto dell’inflazione uno spauracchio.
Si tratta di scegliere chi favorire. In Italia, quando l’inflazione era al 27% e vigeva la scala mobile, la classe operaia stava benissimo e pareva chiamata ad alti destini. Non appena chi diceva di rappresentarla si è adeguato alla “compatibilità”, alla “concertazione”, al “patto tra produttori”, l’inflazione è scesa, però a prezzo di un indebolimento economico e politico della classe operaia che preludeva al suo disfacimento. Gli autori del crimine hanno un nome: CGIL-CISL-UIL. La prima è caduta nel ridicolo. Snobbata dalle altre due confederazioni, oggi non è nemmeno ammessa ai tavoli di trattativa. Si è formata una nuova “triplice”, CISL-UIL-UGL (la ex Cisnal). Dal centro”sinistra” alla destra tout court. Restino sacrosanti i fischi che, nel 1977, accolsero Luciano Lama all’università La Sapienza di Roma. Osava presentarsi a proporre la fine della rivolta, o la sua canalizzazione istituzionale, contro un ordine che, prima che ingiusto, è un condensato di follia.
Il capitalismo è questo: una specie di pendolo demenziale, che deve mantenere un precario equilibrio tra grandezze contraddittorie e dotate di dinamica contrastante. Investimenti / inflazione / occupazione contro Recessione / deflazione / disoccupazione. Nei momenti estremi la scelta è puramente politica e di classe. La destra liberista (oggi dominante) pensa che il maggior nemico sia l’inflazione, e lo si vede dall’ostinazione della BCE nel non abbassare i tassi, salvo esservi costretta — in questi giorni – dalla crisi galoppante. La sinistra che si accontenta del sistema crede invece che ciò che va combattuto sia in primo luogo la disoccupazione, ma, non osando e non volendo affrontare il problema nel suo assieme, propone di detassare salari e pensioni, senza toccare i profitti, sacri e intangibili.
Inutile chiederle un’analisi più profonda. Inutile farle notare che, se c’è una questione di salari bassi, essa è legata a profitti troppo elevati, e che non ci sono espedienti per aumentare i primi (detassazioni in busta paga e simili) slegati dalla necessità di diminuire i secondi. Riconoscerlo, sarebbe fare rientrare in campo l’odiata lotta di classe.
Non sia mai. Dogma della “sinistra moderna” è che il mercato è la regola, l’inflazione è il nemico comune, il passaggio dal pubblico al privato la sola via per abbattere lo spauracchio inflazionistico, la concertazione l’unico modo per unire lavoro e capitale contro un avversario fantasmatico: il debito pubblico, lo spettro incombente.
3. Goldfinger
Ciò dovrebbe fare sorridere, invece fa sogghignare, bene che vada. Non stiamo parlando di grandezze reali, ma di grandezze virtuali. Parliamo di denaro, all’origine avatar di una qualche merce, mentre oggi non ne rappresenta alcuna, tradotto com’è in astratti ghirigori matematici. Ci fu un tempo in cui la moneta simboleggiava l’oro, ma era un’epoca remota. A parte il fatto che le riserve auree oggi esistenti non hanno alcun corrispettivo nelle monete, meno che mai nel dollaro (lo 007 di Operazione Goldfinger troverebbe ai giorni nostri, nel violare Fort Knox, pochi lingotti e molte ragnatele), se si gratta sotto i simboli monetari non si trova nulla. Né ricchezze, né produzione, né esportazione di merci. Solo scartafacci di operazioni matematiche, numeri e curve sullo schermo di un computer. I paesi più indebitati sono in realtà quelli più ricchi di beni reali. Tutta l’Africa, una parte dell’Asia, l’America Latina. Da là vengono petrolio e gas, carbone e legno, e grano e uranio e diamanti.
Quei paesi dovrebbero dominare, vista la loro supremazia in termini spendibili, reali. Invece sono i più asserviti e indebitati. Asserviti all’astrazione della moneta, prigionieri di un debito stabilito per convenzione. Mentre gli Stati Uniti non producono quasi un cazzo (fortuna che hanno un’America Latina pronta a importare orridi televisori NTSC, in cui la visione ha la qualità di una videocassetta avariata; e macchinoni ridicoli per dimensioni, nelle strade messicane o peruviane), salvo un software che in India o in Cina sono capaci di imitare in un giorno.
La sola merce esportabile dagli Usa è il dollaro, valuta universale di scambio (come lo è la lingua inglese, propagata in mille declinazioni, e sempre più lontana dall’originale). Solo che esportare moneta e importare merci, che non si è capaci di produrre da soli, può condurre a una impasse. Per motivi materiali? In parte sì, come vedremo, ma principalmente per motivi immateriali, psicologici — come è naturale, dato che stiamo parlando di astrazioni.
4. La guerra, ancora “igiene del mondo”
Può venire meno, per esempio, la fiducia nel dollaro. L’amministrazione Bush accende due o tre focolai di guerra nel mondo, confidando, come aveva fatto Bush Sr per Grenada, Panama, l’Iraq, o Clinton per i Balcani, in una rapida soluzione dei conflitti. Se va bene, è una pacchia per tutto il sistema economico occidentale. Bacini interi di materie prime sotto controllo, possibilità di investire nella ricostruzione dei paesi devastati, l’industria militare che fa da volano all’intera economia. La guerra incide anche su settori non direttamente coinvolti, da quello dell’intrattenimento (il cinema di Hollywood ha campato per un ventennio sul secondo conflitto mondiale) a quello dell’alimentazione per eserciti d’occupazione e popoli “liberati”. Più naturalmente l’onnipresente finanza, pronta a radicarsi con filiali bancarie e assicurative nei territori sottomessi.
Questo, però, in caso di vittoria. E se invece si profila una sconfitta? Se gli iracheni non si rassegnano a essere colonia, se gli afghani non si lasciano piegare (buone o cattive che siano le loro ragioni)? Se, insomma, una guerra si impantana e non procura né materie prime, né prospettive di investimenti nell’edilizia, né altri stimoli per i settori economici che vi si sono gettati? Se moltiplica i suoi costi?
La risposta era più sopra. Il prezzo del petrolio e di altre materie prime, fuori controllo, sbanda paurosamente verso l’alto. Quale reazione si alzano i tassi d’interesse, con effetti disastrosi anche sui mutui (tra molte altre variabili). Una popolazione già deprivata del salario indiretto costituito dai servizi sociali, viste le risorse illimitate destinate a guerre perse, si trova senza casa o soggetta a mutui assurdi di punto in bianco. Le banche, che per un decennio avevano giocato sui debiti dei poveri, confezionandoli in pacchetti utili allo scambio, non riescono più a continuare il gioco di prestigio. I sacchetti di spazzatura adesso sono vuoti, e ogni potenziale compratore se ne accorge con facilità. Gli istituti di credito, che di sacchetti ne avevano accumulati troppi, si ritrovano i magazzini pieni di fuffa, impossibili da far circolare.
Ma non è tutto. L’ultima frontiera della finanza è l’economia reale (come prediceva Rudolf Hilferding), a partire dal settore di base, quello alimentare. Ai primi sintomi di sisma industriale, i fondi di investimento americani, seguiti da quelli di tutto il mondo, si gettano sui cereali e su altre coltivazioni di generi commestibili, facendone aumentare il prezzo a dismisura. E’ un mercato poco controllabile, viste le miriadi di produttori individuali. Il solo mezzo per disciplinarlo sono gli OGM, che costringono chi semina a stare alle condizioni di chi vende le sementi. L’esito è chiaro agli occhi di chi acquista pasta, pane e altri generi di prima necessità. Il loro prezzo aumenta all’inverosimile. Aveva problemi irresolubili con i mutui per la casa, adesso ne avrà anche con l’alimentazione quotidiana. Beato lui se vive nel Primo o Secondo mondo, dove fa ancora, teoricamente, parte della “classe media”. Guai a lui se abita nel Terzo o nel Quarto. I mutui subprime sono al di là della sua portata. Invece vi rientra il prezzo dei cereali di cui si nutre. Impossibilitato a comperarli, cercherà di immigrare nel “ricco” Occidente. Ignaro del fatto che, se il cibo costa troppo per lui, ciò dipende da scelte operate dal fondo pensione degli insegnanti elementari statunitensi (il più forte di tutti). E che, se il suo paese è soffocato dal debito, quest’ultimo è infinitamente inferiore al debito Usa. Nascosto dall’impiego del dollaro quale valuta di scambio.
5. Viva Hilferding!
Bisognerebbe riscoprire Rudolf Hilferding, da cui Lenin attinse a piene mani, pur coprendolo di insulti per le prese di posizione contingenti dell’economista. Cosa sosteneva Hilferding, ne Il capitale monopolistico? Che il capitale astratto avrebbe progressivamente preso le redini dell’economia produttiva, fino ad assumerne il pieno controllo. Non con un atto di forza, bensì per reciproca complicità. I profitti reinvestiti nel settore finanziario, a scapito degli investimenti nella produzione di merci. Il monopolista e il banchiere che finiscono per essere una persona sola. Anzi, una non-persona: Monsieur Le Capital l’aveva chiamata Marx (e così l’avrebbe chiamata uno studioso lucidissimo, Marco Melotti, scomparso di recente).
Hilferding è stato tra i pochi, seri, continuatori di Marx, al di là di scelte politiche oggettivamente discutibili, e di soluzioni controverse (secondo lui, nazionalizzando le banche, un governo socialista avrebbe automaticamente assunto il controllo delle grandi imprese). Ciò che resta valido, nel suo ragionamento, è la denuncia della tendenza del capitalismo a farsi progressivamente più evanescente, a fondarsi su un sistema simbolico sempre più distante da ciò che crea ricchezza, e cioè il lavoro.
Perduto il referente concreto, si avrà un assetto instabile, soggetto a periodiche crisi (qui non è più Hilferding che parla, ma Marx in persona). Fino alle paradossali inversioni cui il capitalismo moderno ci ha abituati. Un’azienda è tanto più sana quanti più lavoratori espelle (sì, ma quanto consumeranno dopo gli espulsi? Quale domanda solleciterà gli investimenti?). Un’economia è tanto più solida quanto più comprime la spesa (meno servizi gratuiti, minore accesso a ciò che spetterebbe di diritto: salute, casa, scuola e altri capisaldi del vivere civile. Privatizzare il privatizzabile). Un paese è tanto più povero quanto più è ricco di risorse naturali.
Su tutto, lo spettro sempiterno di minacce diaboliche e impalpabili: il debito incombente, la stramaledetta inflazione, l’eccesso di moneta sui mercati, ecc. A suo tempo, da Keynes si passò a Milton Friedman, e a lui si ispirarono Ronald Reagan e Margaret Thatcher, più i loro devoti successori. Peccato che Friedman, e con lui gli economisti supply siders, mai abbiano messo assieme una dottrina organica dell’economia. Andavano a casaccio. I loro seguaci hanno messo (temporaneamente) in ginocchio il Cile e l’Argentina. Frutto dei loro esperimenti sono anche i polacchi che si offrono di pulirci i parabrezza ai semafori.
Per inciso, la non-dottrina di Friedman oggi è adottata dalla Banca Centrale Europea (l’ha inclusa anche nel progetto di Costituzione e nel patto di Lisbona) e dall’Occidente nel suo assieme. Se come teoria fa acqua, i suoi risvolti politico-sociali sono netti: smontare la classe operaia — o più in generale il proletariato — quale soggetto compatto, portatore di istanze collettive. Scinderla in individui costretti a contrattare individualmente, o a piccoli gruppi, la propria sopravvivenza. Abolire i contratti di lavoro nazionali, in modo da lasciare i soggetti deboli in balia di se stessi. Illuderli con lo specchietto di una falsa autonomia, in modo che l’azienda possa, all’occorrenza, liberarsene come facevano le antiche mongolfiere, quando staccavano e gettavano nel vuoto i sacchetti di sabbia per prendere il volo.
Un precario riesce con difficoltà a essere un soggetto antagonista: teme per il suo posto di lavoro. Idem per un falso “lavoratore autonomo”: difenderà la propria posizione individuale. Idem per un operaio o per un impiegato, circondato da un mare di precari e di disoccupati: nel timore di finire in quelle acque, accetterà ogni sorta di disciplina e di prepotenza. Peggiore di tutte è però la posizione del lavoratore subalterno che ha accettato di convertire in fondi azionari i propri risparmi o la propria pensione. Diventa oggettivamente parte marginale dell’economia astratta. Trepida per i soprassalti dei listini di borsa, che legge con fatica. Diversamente da un azionista vero, non può agire: deve solo subire. Voterà Berlusconi, l’unico che lo può salvare.
Ignora infatti cosa sia la politica dell’open mouth, della “bocca aperta”, teorizzata dai supply siders e adottata da Ronald Reagan. Lanciare sorrisi e messaggi ottimistici, dire bugie per rassicurare. Convincere tutti che la povertà del presente è ricchezza futura. Chiamare a una corsa in cui i cavalli migliori potranno vincere (traggo il paragone da Martin Eden, del compagno Jack London). I cavalli in corsa non si parlano tra loro. Alcuni cadono, altri si azzoppano. Uno solo vince, ma la vittoria vera è di chi lo cavalca. Attenzione a quanti vi parlano di “merito”: hanno in mente l’ippodromo. Sono i fantini.
Chi tiene assieme un proletariato sparso e incitato alla competizione reciproca dovrebbero essere i sindacati. Peccato che questi — a eccezione dei sindacati di base, e di qualche punta confederale — abbiano fatto propria l’ideologia dominante.
Si tratta di comprendere meglio la composizione attuale di classe, nel contesto dell’economia astratta. Da lì si deve ripartire, e da un quadro internazionale che offre sorprese sgradite ai monetaristi.
(1 — CONTINUA)