di Danilo Arona
Grande Mystfest quello del 1989. Tra fine giugno e inizio luglio a Cattolica si concessero a un pubblico famelico personaggi come James Ellroy, Mary Higgins Clark e Derek Raymond (che allora si faceva chiamare, imbarazzante omonimia, Robin Cook). E poi: Roland Topor, Terence Young, Alan D. Altieri. A disposizione dei mattinieri si tenevano convegni straordinari con Eddie Constantine, Samuel Fuller, Didier Daeninckx e Stuart Kaminski. Per nottambuli e cinefili la retrospettiva su David Goodis e doppio programma di film in competizione, fuori concorso ed eventi speciali di “Paura a mezzanotte”. Insomma, piatto dei più ricchi, e la sera del 28 giugno guadagnai a fatica un posto tra le prime file per la proiezione, molto attesa, di Dead Calm (Ore 10: calma piatta).
Il titolo agli addetti ai lavori diceva molto, forse troppo, perché tratto da un breve romanzo di Charles Williams (ancor oggi scrittore in attesa di miglior giustizia) e per la presenza-assenza di un leggendario film incompiuto firmato da Orson Welles, The Deep o Dead Reckoning, da lui stesso interpretato con due “gregari” di super-lusso quali Jeanne Moreau e Laurence Harvey. Per chi aveva letto il libro (uscito in Italia con i titoli Donna da morire e Punto morto) e conosceva le vicende del film fantasma di Welles, la curiosità era tanta: il mare aperto come set, pochissimi personaggi che si sbranano su uno yacht, fantasmi del passato, seduzione, violenza… Appunto, Welles più Williams passando per Conrad.
Mi sedetti. E, come capita quasi a tutti al cinema nei momenti di “intervallo”, sbirciai sulla sinistra per idenficare chi mi affiancava. Fobie da fanatico che al cinema amerebbe per vicino un sordomuto: il tipo, uno spilungone baffuto di quasi due metri, pareva un clone perfetto di Dennis Weaver (il perseguitato autista di Duel) e il suo atteggiamento febbricitante m’inquietava non poco. Il film iniziò e, dalle immediate reazioni scomposte dell’individuo, capii che mi attendeva un calvario.
Dead Calm, nei primi venti minuti, esibiva due colpi di scena quanto mai “cinematici” (un tremendo incidente stradale e un acrobatico balzo “mancato” di Sam Neil in direzione del proprio panfilo che si allontana dalla sua vista…) e l’uomo accanto a me reagì saltando letteralmente sulla sedia come un ossesso e sibilando parolacce in inglese. Nessuno lo zittì: il pubblico dei festival è per tradizione complice ad alto grado di partecipazione emotiva. Ma la storia andò avanti così, in un’assonanza quasi perfetta con quel che capitava sullo schermo: il presunto naufrago Billy Zane che si svelava essere un maniaco omicida, la sconosciuta Nicole Kidman così bella da distogliere l’attenzione dalla trama, Sam Neil che tentava a più riprese di salvare la moglie in grado francamente di difendersi da sola, e il gigante al mio fianco che soffriva, si alzava, sbuffava, imprecava e forse piangeva.
Novantasette minuti di suspense, lassù nella cornice e sul mio fianco sinistro. Poi si accesero le luci e qualcuno davanti a me si alzò in piedi con lo sguardo puntato verso l’uomo scalpitante. Pensai che volessero redarguirlo per avere disturbato. Invece no, iniziarono ad applaudire… Santi numi, quello era Phillip Noyce, il regista australiano del film. Noyce che s’inchinò agli applausi, mettendosi una mano sul cuore, e che ringraziò a destra e a sinistra. Che potevo fare? Lo applaudii anch’io. Ringraziandolo in silenzio per la serata concitata. E il film? Ha i suoi estimatori e qualche detrattore, ma resta un più che dignitoso esempio di thriller in pieno sole. Ce ne fossero.