Paolo Roversi, Taccuino di una sbronza, Kowalski, 192 pagine, 11 euro
In principio fu il coma etilico. Anzi no. In principio fu l’inquadrata, prefissata, tragica, disperata vita di Carlo Boschi. Poi arrivò il coma etilico. E niente fu più lo stesso.
Carlo e il suo amico Romeo — che guarda caso è anche il narratore — se ne stavano in un pub a Dublino a festeggiare l’addio al celibato. Il celibato era quello di Carlo, ma la sbronza era la stessa per tutti e due. Fatto sta che Carlo ingolla una pinta di troppo e va giù come un sasso. È il 9 marzo 1994. Dall’altra parte del globo, a San Pedro California, Henry Charles Bukowski Junior, mr. Barfly, l’ultimo poeta del Novecento (o più semplicemente Hank) tira le cuoia. Leucemia fulminante.
Il vecchio Buk chiude gli occhi per sempre, il sciur Boschi di Milano (temporaneamente in trasferta nell’isola dei folletti e della Guinness) li riapre e dice di essere Buk.
Non solo lo dice, ma si comporta di conseguenza: risse, baldracche e whisky a fiumi. Sbronzarsi fino a notte fonda, svegliarsi solo per battere i tasti sulla Lettera 22, dormire qualche altra ora e ricominciare col pieno di Jim Beam. Un giorno dopo l’altro.
La promessa sposa — classica fighetta milanese di buona famiglia — viene abbandonata sull’altare (a dire il vero il rinnovato Boschi nemmeno ci arriva all’altare, la scarica quattro a zero molto prima), il buon lavoro in banca sparito dalla sera al mattino, l’intera vita composta e ordinata buttata giù per il cesso.
Carlo Boschi è Charles Bukowski.
E in culo a tutti quelli che non gli credono.
Romanzo degli equivoci e della assurda, divertentissima tragicità della vita, narrato con gli occhi del compagno di sbronze, dell’amico timido, sfigato e secchione.
Del numero due.
Romanzo da ammazzarsi dalle risate ma anche primo romanzo sull’Italia dei Novanta.
Ok, primo forse no (Scirocco di De Michele è un monumento ai Novanta, Nelle mani giuste di De Cataldo è una staffilata al cuore del decennio), ma primo a definire l’impatto di ciò che accadeva al Paese sulla gente comune.
Come Carlo e il suo amico Romeo.
Sì perché, mentre Carlo s’impunta di essere Buk redivivo e Romeo s’impiglia nella vita che fu del Boschi (affetti antichi, antiche inclinazioni professionali), l’Italia trema per la discesa in campo di tale “Berloni”, si succhia (due anni dopo) un governo di sinistra, assiste all’elezione della prima Miss Italia nera, alla morte di Lady D., alla crisi di governo del ’98, agli incontri tra il papa e Fidel, al Lewinsky affaire, alla liberazione della Baraldini.
Giù giù fino alla nuova era Berloni.
Il mondo cambia, l’Italia marcisce.
Boschi/Buk non fa una piega. Chi si piega, muta, si trasforma nel prototipo del quarantenne borghese, con la casa e la macchina “a posto” e la moglie forzaitaliota è proprio Romeo.
L’impatto della metamorfosi di Carlo sulla vita di Romeo è nulla in confronto alla metamorfosi del paese.
Le loro strade s’incroceranno e si separeranno spesso nel romanzo, e finiranno per descrivere un quadro memorabile dello Stivale a cavallo tra le due repubbliche.
Libro spigliato, divertente e mai retorico, scritto da un appassionato vero del vecchio Hank, che qualche anno fa ne firmò pure una biografia non autorizzata ( Bukowski. Scrivo racconti poi ci metto il sesso per vendere).
Libro importante, per ricordare il peso delle scelte e l’importanza dei colpi di testa.
Libro scritto davvero da dio. Che non guasta mai.
Libro di fine millennio. Per non scordarci da dove veniamo (non sono passati quindici anni, sembra una vita).