di Giuseppe Pensabene Perez
Giuseppe Pensabene Perez è un giovane universitario romano che ha studiato arabo nello Yemen. Seguirà un più ampio reportage.]
8 aprile 2008 — Arriva questo messaggio sul mio telefonino:
“Alla luce dei recenti eventi occorsi nel Paese si invitano i destinatari della presente comunicazione a prestare massima cautela nella frequentazione di luoghi pubblici nella città di Sana’a e nei trasferimenti nel predetto centro urbano e nel resto del territorio. Con riguardo a questi ultimi si prega di comunicare preventivamente all’Ambasciata gli itinerari previsti. L’Ambasciata rimane a disposizione per ulteriori informazioni.”
“Ma perché ambasciata si scrive maiuscola?” Questo fu il primo pensiero che mi passò per la testa leggendo questo messaggio. (perché si intende l’ambasciata italiana e quindi diventa nome proprio, deficiente)
Gli eventi occorsi nel predetto centro urbano erano stati un colpo di mortaio diretto contro l’ambasciata americana che aveva centrato la scuola accanto uccidendo una guardia giurata e alcuni studenti e una bomba contro un “compound” in via Hadda, dove abitavano alcuni americani impiegati presso ditte petrolifere senza fare vittime.
Il messaggio, mandato a tutti gli italiani presenti in Yemen registrati presso l’ambasciata, risultava comico per lo stile da rapporto dei carabinieri con cui era stato redatto, ma anche lievemente preoccupante per il contenuto. Lievemente. Sembrava che questi fantomatici terroristi yemeniti ce l’avessero proprio con gli americani o al massimo con i britannici. L’unica cosa che mi poteva dare un poco di ansia era la mia faccia, facilmente passabile per anglosassone. Biondo con gli occhi chiari ero poco assimilabile alla popolazione araba. Per fortuna spesso venivo valutato come russo e pare che con i russi non avessero nessun problema. Fui tentato di appendere fuori casa un enorme cartello con scritto “Italia” con un disegno di un bel piatto di spaghetti al pomodoro, per evitare che gli amici terroristi si confondessero. Ad ogni modo a casa avevamo già appeso la brava bandiera della Palestina nonché quella di Hamas, comprate a una fiera degli studenti islamici. Se proprio mi dovevano ammazzare, allo scoprire, vedendo le bandiere, che ero un fratello, si sarebbero pentiti e magari mi avrebbero reso martire. Non mi dispiaceva affatto l’idea di diventare Shahìd e, circondato da verginelle nude, vedere dall’alto della gennah (il paradiso islamico) la mia faccia su quei poster caratteristici, magari accanto alle due famosissime bambine che pregano con la moschea della Mecca come sfondo.
Quando poi in Italia la gloriosa casa delle libertà vinse le elezioni e si paventava la possibilità che il buon Calderoli tornasse ministro, cominciai a preoccuparmi un pochino anche io. L’università di Sana’a era tappezzata di manifesti che invitavano a boicottare i prodotti danesi. La vicenda delle vignette che ritraevano il profeta era ancora attuale e profondamente sentita. Sapere che in Italia si apprestava a ricoprire una delle principale cariche istituzionali una persona (?) che era stata capace di causare undici morti in Libia, proprio per essersi messa una maglietta con quelle vignette, con il puro scopo di creare disordini, non mi rassicurava affatto.
Una decina di giorni dopo, mentre nel nostro paese il presidente era in procinto di annunciare il nuovo governo, esplose un altro colpo di mortaio diretto, pare, contro l’ambasciata italiana. L’attentato era avvenuto alle sei di mattina e aveva centrato il parcheggio dell’ufficio delle dogane situato a circa 300 metri dalla nostra sede diplomatica. l’opinione preponderante presso gli yemeniti sosteneva che il colpo fosse diretto proprio contro tale parcheggio, per questioni personali e che niente avesse a che vedere con l’ambasciata. Gli yemeniti amano risolvere le loro discrepanze di opinioni in modo spettacolare ed esplosivo. Qualche mese prima fuori dall’università un signore aveva lanciato una granata contro il negozio del marito di sua figlia per affari familiari che evidentemente le parole non erano bastate a risolvere. Erano morte tre persone. Mi spiegarono che il mortaio è molto sensibile e basta sbagliare a puntarlo di pochi centimetri che il colpo esplode a centinaia di metri lontano dall’obiettivo. Personalmente avevo deciso di credere alla versione yemenita anche se in effetti il precedente dell’errore di mira contro l’ambasciata americana faceva pensare a un gruppo di combattenti magari inesperto che ancora doveva prendere confidenza con l’uso del mortaio. Facevano, quasi, tenerezza.
Il binomio attentato, forse, contro gli italiani e la probabile designazione del ministro della lega nord mi inquietava leggermente.
Per fortuna a Sana’a Calderoli e la vicenda della maglietta erano sconosciuti. Provai a raccontarla ad alcuni amici i quali ne rimasero alquanto sbigottiti. Alla fine gli diedero il ministero della facilitazione o qualcosa del genere senza che vi fosse troppo scalpore, il buon Saif al Islam Gheddafi non protestò.
La questione era che, fondamentalmente, se mi uccidevano per vendicare l’offesa del nostro ministro e i morti in Libia, a mio avviso, non avevano neanche tutti i torti. Certo, se proprio dovevano ammazzare un italiano avrei preferito se la prendessero con uno di quelli che lavoravano in ambasciata (quasi tutti di destra), o con qualche affarista petroliere invece che con lo studente di arabo da sempre schierato dalla loro parte. Comunque era il caso di staccare la foto degli spaghetti sulla porta di casa e sostituirle, magari, con una bandiera spagnola, di quelle con il toro da corrida disegnato. Spagnolo andava bene. Avevano già pagato il conto del servilismo di Aznar verso gli americani con l’attentato di Madrid e Zapatero sembrava non innervosire più di tanto i combattenti islamici.
Noi studenti italiani in Yemen fummo convocati dal nostro previdente ambasciatore che ci mise in guardia dai pericolosi terroristi, gentilmente invitandoci a non frequentare certi ristoranti particolarmente occidentalizzati, a non uscire da Sana’a e a far ritorno in Italia non appena conclusi i nostri studi invece di prolungare la permanenza nel paese a scopi turistici. Che palle. Sti cazzi dei ristoranti che tanto non c’andavo comunque ma che du cojoni non poter uscire da Sana’a. Lo Yemen è un paese splendido pieno di posti da visitare di tutti i tipi: montagne, deserto, mare, antichità, monumenti islamici, limitarmi alla capitale era frustrante e contrastava con i miei progetti avventurieri. Decisi di prendere con le molle le parole del diplomatico, anche se poi, purtroppo, ci pensò la malaria, costringendomi al letto dieci giorni senza poter frequentare le lezioni, a far svaporare le mie velleità esploratrici.
Il risultato di queste raccomandazioni fu che cominciai a guardare con un minimo di sospetto i barbuti (gli uomini che portano la barba lunga sono solitamente integerrimi musulmani) che incontravo o che gli sconosciuti che, casualmente, mi guardavano senza rispondere al mio sorriso o al mio salamalècum, mi innervosivano.
Attentato all’ambasciata, Calderoli ministro e convocazione dell’ambasciatore coincisero con l’assenza del mio coinquilino Aldo che era tornato una settimana in Italia. Mi costa ammetterlo ma, a volte, quando stavo a casa la sera avevo un po’ paura, soprattutto dopo aver fumato mezzo spinello. A casa mia di sera si sentivano continuamente rumori di tutti i tipi: gatti che si azzuffavano, miagolii di gatti in amore, bambini che piangevano, padri che urlavano, drogati di qat che ridevano, oggetti che cadevano. Io, solo sul mio divano, rincoglionito dall’hashish, mi spaventavo e mi autoconvincevo che i terroristi stavano sotto casa intenti a scassinare la porta, decisi di venire a punire il porco infedele italiano colonizzatore. Tenevo la giambiyya (il pugnale tipico yemenita) sempre a portata di mano.
Durante questa settimana di solitudine, una sera, mi passarono a trovare il sindaco e Muad il farmacista, nettamente ubriachi. Confidai loro le mie paure e spiegai la vicenda di Calderoli nuovamente ministro. Il sindaco, spergiurandomi che Sana’a era sicurissima, che non sarebbe successo niente, perorando l’opinione che il colpo di mortaio era diretto certamente contro l’ufficio delle dogane e non contro l’ambasciata, decise, per tranquillizzarmi, di prestarmi la sua pistola finché non sarebbe tornato Aldo. La pistola era una Norinco, belga, argentata, bellissima. Per me avere a che fare con le armi era una cosa nuova ed eccitante. Per loro era assolutamente normale. Yemen: venti milioni di abitanti, sessanta milioni di armi da fuoco.
Per darmela la passò a Muad che stava seduto accanto a me. Costui la carica e se la punta sulla parte laterale del polpaccio, dicendo al sindaco che, per dimostrargli quanto l’amava, si sarebbe sparato in quella parte della gamba dove c’è solo pelle. Il sindaco scoppia a ridere rispondendogli “prego, dai, sparati”. Li guardo allibiti convinto che avrebbe davvero premuto il grilletto. Loro avevano bevuto, io avevo fumato: esisteva un sostanziale problema di comunicazione reciproca e di comprensione dell’altrui umorismo.
Dopo poco se ne andarono lasciandomi la pistola. Mi sentii molto più sereno e tranquillo. Durante quella settimana dormii tutte le notti con l’arma accanto al letto, solo guardarla mi dava sollievo. Mi ritrovavo quasi a sperare che qualche terrorista mi facesse visita per potergli sparare. Sognavo a occhi aperti e mi vedevo stringere la mano al presidente yemenita mentre mi veniva assegnata una medaglia al valore per aver sgominato una cellula di Al-Qaeda da solo, io e la mia fedele Norinco.
Ogni volta che bussavano alla porta andavo a vedere chi era con la pistola in mano. Passavo le serata caricandola e scaricandola, desiderando di poter sparare a qualcuno che se lo meritasse davvero, magari proprio a Calderoli. Mi venivano in mente strani pensieri: “Non puoi sprecare questo dono celeste, il Signore Onnipotente ti ha voluto fornire la possibilità di essere braccio armato della sua poderosa vendetta, esci per strada e giustizia il malvagio e il turpe”. C’erano un paio di negozianti ladri e blasfemi nonché qualche italiano dell’ambasciata particolarmente stronzo che in effetti una certa vendettuccia divina se la meritavano ampiamente.
Tornò Aldo e, con mio sommo dispiacere, il sindaco si riprese la pistola.
Passarono un’altra decina di giorni relativamente calmi, cioè senza bombe o minacce. Noi continuavamo sereni vivendo da studenti di arabo e masticatori di qat del finesettimana. La sera spesso bevevamo whisky gibutino in giro per la città vecchia sulla macchina del sindaco. Anche sforzandoci non avevamo mai incontrato ostilità nei nostri confronti solo perché occidentali, anzi. Addirittura, una volta che, verso le quattro del mattino, tornando completamente ubriaco dal club russo, ruppi a calci un povero alberello di una delle pochissime aiuole di Sana’a e fui portato in commissariato, ricevetti dai poliziotti un trattamento gentile ed educato solo a causa della mia nazionalità. Se fosse stato uno yemenita a fare quel che avevo fatto io, avrebbe dovuto passare la notte in carcere e pagare una multa altissima per danneggiamento di patrimonio pubblico.
È anche vero che in quell’occasione sfoderai un arabo perfetto, dovuto sicuramente all’alcol, e seppi trattare con i poliziotti in modo esemplare. Li apostrofai con “ya Ikhwani” (o fratelli miei) chiedendo perdono e indulgenza verso un peccatore che, stravolto dal vino versatogli da Iblìs (il diavolo) in persona, aveva sbagliato ed era pronto a pagare. Mi offrii spontaneamente di dormire in prigione o di pagare la multa dichiarandomi pentito e desolato. Me ne andai dal commissariato mentre il muezzin richiamava alla preghiera dell’alba, salutandomi con i poliziotti con calorose strette di mano e la consueta frase di commiato yemenita “ay khadamàt” (qualsiasi cosa, qualsiasi servizio). (porco occidentale, ubriacone schifoso, sei fiero di te adesso eh?? Ebbro di munkar ti lasci andare alla devastazione di questa città magica, solo il tuo essere straniero occidentale ti ha evitato si pagare le conseguenze delle tue azioni criminali, colonizzatrici, poi pensi pure che è grazie a come hai “saputo trattare con i poliziotti”… presuntuoso.)
Fummo riconvocati dall’ambasciata, questa volta non solo gli studenti, ma tutta la comunità italiana presente a San’a. La nostra (un brivido, nell’usare la prima persona plurale riferendomi agli italiani) sede diplomatica si trovava nel popolare quartiere di Safiya, non lontano da Tahrir dove abitavamo. Eravamo circa una quarantina di persone: studenti, gente che lavorava presso le organizzazioni umanitarie, affaristi e operatori turistici. Dopo un lunga attesa durante la quale non ci fu neanche offerto un caffè ci fecero entrare nella stanza dell’ufficio dell’ambasciatore, dove campeggiava trionfalmente una foto incorniciata del nostro presidente della repubblica. Giorgio Napolitano. Già la prima volta l’avevo notata e un po’ interdetto avevo pensato a una assunzione da parte italiani degli stili di ossequio al potere tipicamente mediorientale. Quella volta, però, la faccia seria di quel vecchietto rugoso, accanto alla bandiere italiana ed europea, davanti a tutte quelle persone mi sembrò grottesca.
In mezzo alla stanza c’erano tre personaggi benvestiti e sconosciuti e il buon ambasciatore, noi fummo ammassati sulla parete di fondo, prospicienti al presidente della repubblica, in piedi. Prese la parola uno di quei personaggi presentandosi come capo dell’unità di crisi italiana. Un sermone micidiale. In piedi, soffrendo, cambiando continuamente posizione, ascoltai questo cretino impettito che ci spiegava come agiva l’unità di crisi italiana in generale senza mai accennare alla situazione dello Yemen. Parlò circa un’ora. Poi prese la parola l’ambasciatore affermando che la situazione era di attenzione ma assolutamente non di allarme, e nemmeno preallarme. (e allora che cazzo ce fai venì qua a senti’ sto cojone, a famme venì’r’mardeschiena). A ognuno di noi italiani fu poi consegnato un invito per partecipare alla festa della Repubblica del 2 giugno nell’hotel Sheraton.
Il finesettimana dopo andammo a cena dall’unico ragazzo simpatico che lavorava presso l’ambasciata italiana. Abitava con la moglie gentile e simpatica in una bella villa vicina a via Zubeiri. Erano una coppia piacevole e ospitale, con la naturalezza di cui solo le persone del sud sono capaci.
Le cene da loro erano sempre una gioia per la compagnia, per il buon cibo e per la possibilità di bere vino e superalcolici veri invece di quelle schifezze straziafegato di Gibuti che bevevamo con gli yemeniti.
Quella sera, mentre bevevamo allegramente un digestivo, dopo aver mangiato un ottima pasta col sugo alla salsiccia, il nostro ospite ci raccontò che, su internet, era apparso un nuovo comunicato della cellula di Al Qaeda yemenita in cui dichiaravano di voler espellere tutti gli infedeli dalla santa penisola arabica. Ci avvertì inoltre che presto sarebbe giunto un nuovo sms allerta dell’ambasciata.
A me ‘sti comunicati parevano tutti delle gran cazzate. Vedevo la questione in percentuale: Yemen- pochissimi stranieri occidentali -> qualche esaltato ignorante che pretendeva la loro morte o la loro espulsione; Italia- moltissimi stranieri, fra cui musulmani ->tantissimi stronzi ignoranti che si auguravano la loro morte o pretendevano la loro espulsione. Saggissimo detto dice che la madre dei cretini è sempre incinta, in Italia come in Yemen o in Nepal. Forse, giusto negli Stati Uniti, per qualche condizione atmosferica particolare, rimane incinta più spesso.
La mattina dopo, diciotto Maggio, sul mio telefonino appare puntuale il preannunciato messaggio:
La reiterata minaccia terroristica genericamente rivolta agli occidentali presenti nello Yemen impone l’adozione di ulteriori misure cautelari. Si raccomanda di evitare la frequentazione di alberghi internazionali ed altri luoghi conosciuti per la presenza di occidentali (ripetizione); limitare allo stretto necessario i movimenti sul territorio variando orari e percorsi; segnalare tempestivamente all’Ambasciata elementi che possano indurre a rivelare specifici pericoli.
Evitare la frequentazione di alberghi internazionali? E il festeggiamento del 2 giugno allo Sheraton? Che tipi questi diplomatici. Massima cautela? raggruppare tutti gli occidentali ricconi e i diplomatici presenti a Sana’a nell’albergo simbolo della globalizzazione del lusso è massima cautela? Per quanto riguardava i movimenti sul territorio, andando a lezione tutti i giorni alla stessa ora, variare i miei orari e percorsi risultava alquanto difficile.
Le uniche ulteriori misure cautelari che adottai furono comprarmi un coltellino a serramanico che portai sempre appresso appeso alla cintura e guardare in strada prima di aprire completamente la porta di casa. Nonostante quasi sperassi di trovare qualcuno pronto a mitragliarmi col kalashnikov, tutte le volte che sbirciai dall’uscio, prima di spalancare la porta non vidi mai altro che i soliti bambini o le vicine di casa super velatissime. Un po’ di timore, sti stronzi , (non i terroristi, quelli dell’ambasciata) erano riuscito a farmelo sentire, tanto che quando giravo per Sana’a mi guardavo sempre le spalle per assicurarmi di non essere seguito da qualche balordo o quando passavo in mezzo a tanti yemeniti la mia manina andava involontariamente a lambire il fodero del coltellino. (che poi cazzo ce fai co sto temperino cinese contro un kalashnikov o contro la lama di una jambiyya??).
Avrei voluto poter segnalare tempestivamente all’Ambasciata qualche elemento rivelatore di specifici pericoli, soprattutto perché l’avverbio tempestivamente mi piaceva e desideravo praticarlo. Purtroppo, anche impuntandomi, non riuscii a raccattare niente, neanche un pestone sul piede dato per sbaglio. Nell’isolato dove abitavamo ci conoscevano tutti ed erano tutti gentilissimi sia i vicini sia i negozietti sotto casa: la bagàla (il bazar tipico sananita che vende tutto), la màghsala( la lavanderia), il khayyat ( il sarto), il ragazzetto che gestiva l’internet point. Vero anche che con ognuno di questi intrattenevamo rapporti commerciali stabili e quindi era ovvio che fossero cortesi e simpatici, comunque sentivamo nei nostri confronti un benvolere diffuso e sincero. Arabi e italiani del centro sud si assomigliano per la facilità di instaurare rapporti superficiali basati sulla frequentazione quotidiana (e in questo caso non mi vergogno affatto della mia nazionalità).
Per me era del tutto naturale, un piacere, quando uscivo di casa, fermarmi a scambiare due battute con il sarto o sedermi un pochino con i fratelli della lavanderia a commentare le qualità di qat o i video sconci delle ragazze irachene. Avevamo persino una specie di portiere sempre presente che, oltre a un perenne odore di urina sotto la porta, ci garantiva anche un certo controllo costante: Abdelbàsit. Questi era un ragazzo un po’ fuori di testa, sulla trentina, che dormiva sotto casa nostra, per strada. Ci avevano raccontato che era nato nel quartiere e lavorava presso il sarto ma circa cinque anni prima era semi impazzito e aveva deciso di vivere senza un tetto.
Pare che a farlo impazzire fosse stato l’abuso di qat, non dormiva mai, lavorava fino a notte inoltrata, masticava o e beveva tè. Improvvisamente aveva dato di matto. Noi lo aiutavamo comprandogli sigarette e regalandogli qat o portandogli un piatto di pasta quando cucinavamo. Non ultimo, la nostra amicizia col sindaco di Sana’a vecchia, comprovata dalla frequente presenza della sua macchina nella via, ci conferiva una speciale aura di protezione: “gli stranieri sono amici del sindaco…”
Dopo una settimana da quel messaggio, come se non bastasse Al Qaeda, fu annunciato il nuovo terribile pericolo yemenita della stagione: “gli Huthiyyn alle porte di Sana’a”.
Era noto già da tempo che nella parte settentrionale dello Yemen nella regione di Saada c’era la guerra: Il governo contro le tribù ribelli sciite ithnatashari (duodecimale) capeggiate dai fratelli Huthiyyin, finanziati dall’Iran. Della guerra non arrivano molte notizie ma a volte spuntava sui giornali l’annuncio di sanguinari attentati fuori le moschee di quella zona.
Avevamo invitato a cena la coppia simpatica dell’ambasciata, quando scesi ad aprire la porta trovai lei che indossava il velo. Strano. Dopo che furono saliti ci spiegarono che quella del velo era una misura precauzionale dettata dalle circostanze particolarmente preoccupanti. Luti (al Huthi nella pronuncia italianizzata del nostro amico diplomatico) era arrivato vicino a Sana’a e si combatteva a venti kilometri dall’aeroporto, la notte si sentivano le bombe. Ci dissero anche che era pronto un piano di evacuazione se fosse stato colpito l’aeroporto. Queste notizie non ci tolsero assolutamente la fame e mangiammo felici gli spaghetti con i gamberi preparati da Andrea, bevendo il vino bianco portato dagli ospiti.
Il giorno dopo mi informai meglio presso il sindaco e altri amici yemeniti. I Banu Khsceish, una ricca tribù che possedeva piantagioni di qat e di vite (producevano il vino!), stanziata sulle montagne vicino all’aeroporto di Sana’a, era insorta assieme agli Huthiyyin. Il presidente aveva mandato l’aviazione per distruggerli e pareva che stesse vincendo. Il mio professore di arabo usando il maf’ùl mùtlaq (accusativo ritornante) mi aveva detto che finalmente al raiss darabahum darban shadidan (li aveva colpiti con colpo violento), dopo anni di misure troppo leggere nei loro confronti. Indignato del fatto che avessero osato spingersi fino a Sana’a aveva incaricato il figlio, generale della quwwa khassa (forza speciale) di annientarli. Il monte Aswad (nero) dove si erano nascosti i ribelli era diventato il monte Abyad (bianco) per la potenza con cui erano stati affrontati. Quella sera feci una delle mie consuete passeggiate notturne per il centro di Sana’a al qadima (antica) incantato come sempre dalla magia di quella splendida città.
Camminarci di notte era bellissimo. C’era un silenzio irreale interrotto a sprazzi da urla di neonati o musiche a tutto volume provenienti dalle finestre. Durante quelle passeggiate cercavo di perdermi per i vicoli scoprendo nuovi angoli meravigliosi. Un labirinto di stradine incastrate una dentro l’altra che si infilavano in mezzo a le bellissime case, storte e armoniosamente disordinate. Incontrare gruppetti di masticatori notturni o passeggiatori come noi dispensando sorrisi e masalkheir (buona sera).
Quella notte nel silenzio della città vecchia sentii finalmente anch’io le bombe di cui tutti parlavano.
Ero tranquillissimo. Confidavo pienamente nella piena vittoria del Raiss. L’idea che l’aeroporto poteva essere bombardato non mi spaventava… mica era l’unico aeroporto dello Yemen. Al massimo ci avrebbero riportato in Italia con un aereo militare o alle brutte saremmo rimasti bloccati a Sana’a, cosa che non mi dispiaceva affatto (già pregustavi fama e gloria: stoico italiano sotto le bombe scrive portentoso libro sullo Yemen, egocentrico!). La città era piena di polizia e militari, taftishat (perquisizioni) continue di macchine e passanti. Il sindaco durante i nostri consueti alcolici giri notturni in macchina (l’alcol in Yemen è proibito) definì me e Aldo il miglior taslih (lasciapassare) possibile per evitare i controlli che avrebbero potuto far scoprire le bottiglie di whisky rovinandogli la reputazione. Con noi stranieri a bordo nessun soldato si sarebbe mai permesso di perquisire l’auto.
Ovviamente, dopo poco, arrivò la terza convocazione del nostro paterno ambasciatore, proprio pochi giorni prima della festa della nostra gloriosa repubblica.
Eravamo solamente i pochi studenti di arabo presenti in Yemen, in tutto sette. Questa volta l’ambasciatore fu categorico e, studi finiti o meno, ci invitò a tornarcene immediatamente in Italia. L’aereo più prossimo sarebbe partito martedì, il giorno dopo dell’imminente festeggiamento del 2 giugno. La motivazione che addusse fu la concomitanza della persistente minaccia terroristica genericamente rivolta contro gli occidentali con il momento di instabilità del potere del presidente dovuto all’insurrezione sciiti.
Timidamente provai ad argomentare che, non avendo mai ricevuto alcuna dimostrazione di inimicizia nei nostri confronti dall’inizio della nostra permanenza, il suo invito a lasciare di corsa il paese ci lasciava un po’ interdetti. Premettendo che lui, oltre che diplomatico, era anche scrittore e che perciò amava esprimersi attraverso metafore, mi rispose descrivendo la situazione con queste parole: “Immaginatevi un castello medievale nel mezzo di una vallata circondata da monti. Nella valle lavorano sereni nei campi i contadini, ignari dell’esercito del nemico che avanza dietro le montagne. I vassalli del castello, dall’alto delle torrette di avvistamento, scorgono il nemico e dunque avvertono i contadini dell’incombente pericolo”.
Rimasi piuttosto allibito. Sicuramente involontario e dovuto più alle velleità artistiche del nostro ambasciatore, che a un effettivo parere personale, il paragone che aveva adoperato era emblematico: rappresentava perfettamente il sentire comune di buona parte dell’occidente nei confronti dei popoli musulmani: il nemico che avanza.
Era chiaro che il nemico inteso erano al Qaeda e i terroristi ma, stante che, in Italia e nel resto del mondo “civilizzato”, l’identificazione religione islamica — terrorismo era consolidata presso buona parte della gente e diffusa e patrocinata dalla stessa classe dirigente (i vassalli del castello che mettono in guardia i contadini?), la metafora usata dall’ambasciatore mi agghiacciò. Coloro i quali avevano fatto esplodere le stazioni di Londra e Madrid sono, per me, nemici quanto i governi che con fantasiose giustificazioni diffondono morte e devastazione attraverso avide guerre sanguinarie. E l’ambasciatore italiano in Yemen, in quel momento, non rappresentava altro che uno di quei governi, qualunque fossero state le sue convinzioni politiche. (Non fare il politically correct che lo sai benissimo che a te Bin Laden, se esiste davvero, ti piace, che quando sono esplose le torri gemelle hai esultato nel cuore, felice che finalmente qualcuno era riuscito a portare il terrore nel cuore della nazione che da anni impunita lo disseminava per il mondo).
Concluso il discorso, l’ambasciatore ci congedò informandoci su quando avessimo intenzione di partire. (Ma perché noi studenti dobbiamo andarcene di corsa per non rischiare, mentregli affaristi e i petrolieri possono rimanere e correre il rischio? Siamo meno importanti? Meno necessari? Sicuramente). Andandomene lo informai dell’intenzione dei miei genitori di venirmi a trovare a Sana’a. Mi rispose che assolutamente non dovevano partire ma anzi avrebbero fatto meglio a organizzare le vacanze a Rimini. A Rimini, mio padre a Rimini…
Nonostante fosse ovvio che né io né Aldo né Andrea – che era arrivato da poco, partito dall’Italia malgrado fosse ben conscio della situazione – avremmo assolutamente anticipato la data del rientro, per quanto riguardava i miei un pochino di paura me l’avevano messa. Ero ben libero io di non voler valutare il rischio per me stesso, di non dar peso a quelle parole, ma far venire mia madre e mio padre in un luogo dove, a quanto pareva, c’era gente che li voleva ammazzare solo perché italiani era un altro discorso. Per quanto volessi vedere la situazione in modo critico e razionale un po’ di timore ce l’avevo, ce l’avevamo tutti, era inevitabile.
D’altra parte mi straziava l’idea che non mi sarebbero più venuti a trovare. Da quando ero arrivato sognavo di portare mia madre, amante delle interiora, a mangiare il kebda (fegato) nei ristorantini popolari. Volevo condividere l’esperienza del mondo arabo con lei che non c’era mai stata e sapevo se ne sarebbe innamorata. Già pregustavo accese discussioni sulla condizione della donna in Yemen e negli altri paesi musulmani, che mia madre, da vecchia femminista, avrebbe ferocemente criticato.
Desideravo portare mio padre in quegli hammam luridi ma bellissimi, accompagnarlo per la città vecchia, fargli conoscere i miei amici yemeniti dimostrandogli, finalmente, che davvero ero in grado di parlare arabo. Da una parte ero tentato di fregarmene e dirgli di comprare il biglietto d’aereo, come rischiavo io potevano rischiare loro, dall’altra però non mi sentivo di prendermi la responsabilità di un’eventuale disgrazia. Per se stesso i rischi si prendono a cuor leggero, quando però si tratta di persone amate ci si pensa sempre due volte.
Non sapevo bene come dirglielo, se spiegavo la situazione riferendole le parole dell’ambasciatore mia madre sarebbe impazzita di ansia se non fossi tornato subito. Se dicevo di non venire e basta mi avrebbero bombardato di domande o forse si sarebbero offesi pensando che non li volevo in mezzo alle mie cose, alla mia vita yemenita. A Rimini…
In effetti la situazione a Sana’a non era assolutamente tranquilla, ma a intimorire non erano i “qaedisti” bensì gli efferati sciiti Huthiyyin che, girava voce, si erano infiltrati in città, decisi a indebolire il potere del presidente, di cui la capitale era la roccaforte, eseguendo azioni disparate incluso colpire i turisti o gli occidentali in generale. E infatti ogni incrocio o strada importante erano controllati da posti di blocco militari che perquisivano macchine e passanti, e la polizia in borghese, i servizi segreti, pattugliavano in incognito tutti i quartieri. Il sindaco, una sera, dopo che avevamo bevuto il velenoso Teacher, si accomiatò da noi più presto del solito motivando che doveva lavorare. Il lavoro consisteva nel girare per la città vecchia per verificare, controllando i registri, se negli alberghi e nelle locandaat (locande) vi fossero Huthiyyin.
Gli yemeniti, nonostante quando venisse introdotto il discorso affermavano immancabilmente la loro piena fiducia nel presidente, erano indubbiamente un po’ innervositi dalla situazione. I ribelli Huthiyyin sono sciiti duodecimani e pare siano finanziati dall’Iran. La maggior parte degli abitanti dello Yemen è invece sunnita o zaidita che è la corrente “mu’tàdila” (moderata) dello sciismo molto e molto poco differisce dal sunnismo.
Il mio professore di arabo (della famiglia degli hashemiti, discendenti del profeta), quando affrontammo la questione mi spiegò che, al pari di Israele che voleva ingrandire il suo stato dal Nilo all’Eufrate, gli sciiti, in questo momento storico forti più che mai, programmavano di dominare tutto il medioriente, dall’Iran al costa mediterranea libanese. Presenti in Iran, Iraq, Bahrein, Arabia Saudita e Libano, una loro eventuale vittoria nello Yemen avrebbe spianato la strada al temibile progetto.
Sinceramente mi sembrava un po’ esagerato, ma era indubbia una situazione nel mondo arabo in cui la contrapposizione fra shia’ e sunna si era inasprita. Gran parte della colpa l’avevano sempre gli americani con la loro astuta politica irachena del divide et impera, aizzando gli sciiti, perseguitati da Saddam, contro i sunniti.
Una conferma di un reale sentimento di timore diffuso ce la diede il nostro buon amico Mohammed, tassista e occasionale spacciatore. Una di quelle sere venne a casa nostra completamente ubriaco e fumato per portarci l’hashish. Era tanto che non lo vedevamo e gli chiedemmo sue notizie, anche perché avevamo sentito dire che si era arruolato. Ci raccontò che era rientrato nell’esercito come autista e che proprio in quei giorni aveva avuto l’incarico di portare le armi ai soldati che combatteva gli Huthiyyin a Bani Khseisc, vicino all’aeroporto. Nonostante fossero di numero largamente inferiore, i ribelli avevano ucciso quarantacinque soldati governativi, centrandoli perfettamente in testa dall’alto delle montagne. Ce lo disse unendo indice e pollice della mano destra, formando un cerchietto a mo’ di mirino sulla fronte e strabuzzando gli occhi per enfatizzare la loro pericolosità.
Spiegò che fra i ribelli c’erano qanaas iraniani, infallibili cecchini addestratissimi in grado di colpire il bersaglio da qualsiasi distanza. (Conoscevo la parola qanaas — cecchino- grazie al famoso filmato di internet “Qanaas Baghdad”, che mostrava una serie di soldati americani colpiti in testa da proiettili con un sottofondo di musiche entusiaste e inni alla resistenza). Aggiunse poi che a Sana’a erano morti 25 soldati uccisi da una bomba lanciata precisamente dentro il finestrino aperto dell’automezzo in cui viaggiavano. Di questo non si era saputo niente.
Secondo la sua versione la battaglia era praticamente finita e i pochi insorti rimasti vivi si erano nascosti nelle montagne senza viveri né munizioni. Dopo questo racconto prese a lamentarsi della vita grama che si faceva nell’esercito, dove non poteva né bere né masticare (qualche canna di nascosto se la riusciva a fare, ci confidò fiero) e neanche scegliere cosa mangiare ai pasti Per questo motivo stava passando i giorni della sua licenza a Sana’a, dove beveva e fumava tutto il giorno, approfittando della momentanea libertà. Quella sera aveva gli occhi rossissimi e barcollava.
I giornali avevano annunciato trionfalmente la morte in quella battaglia di uno dei quattro fratelli Huthiyyin, capi della fazione sciita, dei quali rimaneva vivo soltanto uno, arroccato nel territorio di Sadaa
Altre notizie dirette sugli Huthiyyin ci giunsero dal poeta amico del sindaco e nostro compare di masticata, Taha Yemeni. Oltre a comporre qaside (componimento poetico arabo) durante l’assunzione del qat era anche militare e acceso patriota. Ricordo che, già durante accese discussioni a bocca piena, Taha aveva più volte inveito contro l’Iran, per lui nemico degli arabi al pari di Israele e l’America. Una volta parlando di Saddam avevo affermato che la guerra di otto anni contro Komeini era stata un inutile tragedia facendolo infervorare. lui mi aveva con passione spiegato la questione del territorio dell’Ahwaz, da sempre arabo ma colonizzato dai persiani. Il giorno appresso mi aveva portato un articolo di giornale sull’argomento in cui erano descritte le condizione degli arabi iraniani che lì risiedevano: l’ottanta per cento degli uomini erano rinchiusi nelle carceri della rivoluzione islamica. Durante i giorni della guerra contro gli sciiti, Taha era improvvisamente scomparso dalle masticate pomeridiane nel mafrash del sindaco. Quando domandammo dove fosse andato ci informarono che era tornato nell’esercito ed era stato mandato a Sadaa, sede degli sciiti insorti, per cercare di far rinsavire al Huthi, declamandogli poesie. Non credemmo a questa versione ritenendo che ci stessero prendendo in giro. Magari era fuori Sana’a per altri motivi che non ci volevano spiegare. Pochi giorni prima del mio ritorno in Italia, un pomeriggio, il poeta ricomparve. Era venuto pieno di foto che lo ritraevano vestito da militare in piedi, con le mani alzate, come se stesse gesticolando, davanti a un esercito schierato . Che fosse andato da al Huthi per convincerlo ad arrendersi era effettivamente uno scherzo ma il suo viaggio a Sadaa era reale. Militare, poeta e senza soldi aveva deciso di arruolarsi nuovamente per aiutare la patria e il suo portafoglio. L’avevano mandato a Sadaa dove la sua mansione principale era incoraggiare i soldati prima della battaglia con la sua arte poetica. Poesia per la guerra. Sembravano i tempi della jahiliyya. Non me lo sarei mai immaginato. Un poeta combattente con il compito di infiammare i cuori dei soldati evocava un esercito di beduini sui cammelli, armati di sciabole ricurve mentre poco si accordava con una schiera di ascari con tute mimetiche, baschi rossi in testa e kalashnikov a tracolla. Amai ancora di più lo Yemen e gli yemeniti. Cinture ricamate con la fodera per il pugnale e il porta telefonino, poesia e armi da fuoco.
Oltre a spronare gli animi dei giovani soldati il nostro poeta aveva anche combattuto. Ci raccontò che gli Huthiyyin prendevano hubub (pasticche) di droga per combattere per vere più coraggio. Diceva che erano pazzi, che solo un pazzo esaltato dalla droga poteva avere il coraggio di affrontare da solo un carro armato tirando bombe a mano. Chissà se è vero. E soprattutto chissà dove si trovano un poco di queste pasticche da guerra sciite che non mi dispiacerebbe affatto provare. Dopo che finì il racconto ammiccò verso di me: “te l’avevo detto che l’Iran era mush tamàm (non buono).”.
Noialtri continuammo a passeggiare per la città vecchia anche di notte, la leggera ansia, che comunque erano riusciti a infonderci , non ci poteva fermare dal godere di quel posto meraviglioso.
Arrivò il giorno della festa del 2 giugno allo Sheraton. Avevamo conseguito di far avere un invito al Sindaco che, avido di alcolici di buona qualità, aveva insistito per venire. Sebbene avesse appena sostenuto un operazione di ernia ed era ricoverato, decise di presenziare alla festa comunque, uscendo dall’ospedale per poi farvi ritorno a fine serata.
Avevo tentennato a lungo sulla mia presenza alla festa. Per me non c’era niente da festeggiare il due giugno. Che significava spendere un enormità di denaro affittando un super albergo per esaltare quel paese del cazzo che è l’italia, l’Italia fascista e razzista di Berlusconi, l’Italia codarda e ipocrita del partito democratico. Le persone poi che avrebbero partecipato mi davano abbastanza fastidio, anzi mi facevano schifo: ricconi imbellettati, casta di diplomatici privilegiati, viscidi yemeniti leccaculo del potere, affaristi e militari di alto grado. I giorni prima dicevo per scherzo che se ci fossi andato sarebbe stato solo per farmi esplodere o per mettere il veleno nei piatti degli invitati. L’ unica ragione che facilmente mise a tacere i miei tormenti politici e mi spingeva ad andarci era la gola. Il cibo e Il vino. La possibilità di mangiare cose lussuose (era lo Sheraton!) e di bere a volontà e magari pure di vedere qualche bella femmina senza velo vinse su tutti i miei tentennamenti.
I controlli all’entrata mi sembrarono piuttosto vaghi, non fummo assolutamente perquisiti, se avessi voluto davvero mi sarei potuto facilmente imbottire di esplosivo per punire i malvagi e colpevoli festeggiatori della repubblica italiana (e sarebbe stato meglio visto quello che hai combinato).
Una volta dentro, la mia coscienza politica decise di ubriacarmi scientificamente per punirmi di averla azzittita e messa in un angolo. Dopo aver finito di mangiare, (e il cibo non era assolutamente lussuoso come me l’ero immaginato) mi bevvi tutto quello che c’era: dopo il vino e lo champagne passai al whisky (Johnny Walker, altro che Teacher gibutino a cui ero abituato), una volta che fu finito mi volsi alla wodka e quando anche essa terminò, con estremo disgusto del barista kazako, ormai mio amico, mi feci versare un gin con campari che sancì la mia definitiva dipartita dal mondo cosciente. Quel che successe dopo è molto imbarazzante da raccontare. Ne conservo un ricordo molto vago ricostruito in parte dai racconti dei presenti.
Quella battuta pronunciata dall’ambasciatore, durante il precedente incontro, sui miei genitori e le vacanze a Rimini mi aveva alquanto infastidito. Il fastidio, evidentemente, fu riportato a galla dall’alcol e, quando ormai nella festa rimaneva poca gente, decisi di andare a spiegare al diplomatico consigliere turistico che la sua uscita su Rimini non era stata gradita, assolutamente fuori luogo e anzi offensiva nei confronti della mia famiglia intellettuale. Quel cretino non sa assolutamente chiccazzo è mio padre e che certo non passa le sue vacanze sulla riviera romagnola in mezzo a pallidi svedesi ciccioni.
Avevo passato la vita a vergognarmi del fatto che mio padre fosse professore universitario, non lo volevo mai dire e sviavo sempre il discorso temendo di venir pregiudicato in base alla sua professione. All’università poi, avendo scelto una facoltà vicina a quella dove insegnava, vivevo la sua posizione come un estremo peso, sempre temendo di passare per privilegiato o raccomandato. Forse è anche per questo che mi impegnai in tutti i modi a ritardare la mia laurea triennale, per dimostrare che non ero un secchione ma anzi un vero giovane matto e sballone..
Quella volta invece, la somma dei fattori: vino, un poco di nostalgia, un lungo soggiorno in un paese arabo dove vantarsi del proprio padre e della propria famiglia è considerato un obbligo e quell’odiosa battuta dell’ambasciatore mi aveva reso piuttosto orgoglioso e determinato a dimostrare a sti cretini incravattati chiccazzo era mio padre: celebre professore e archeologo di fama internazionale. E che se lui voleva venire in Yemen non sarebbero certo state quattro minacce di quattro stronzi e le loro stupide paranoie a fermarlo, lui, che aveva visitato tutti paesi arabi, che era stato in Algeria, quando era pericoloso, in giro nel deserto per rovine e cave di marmo.
Mi avvicinai all’ambasciatore e presi posto su una sedia vicina aspettando il momento propizio per parlargli. Questi conversava con altri signori su Carlo Quinto e Francesco Primo raccontando un aneddoto che conoscevo anch’io. Borbottai qualcosa nei loro riguardi, intenzionato a partecipare anch’io a quel dibattito storico che, da figlio di archeologo professore, potevo sostenere brillantemente. Ricevetti un rapido sguardo interdetto per poi non essere più calcolato.
Dovevo ben essere una figura poco consona all’occasione, con la mia faccia piuttosto alterata dall’ebbrezza e camicia e pantaloni assolutamente non stirati. Il mio amico Andrea capendo la situazione provò ad allontanarmi per evitare brutte figure. Da qui comincia il delirio e la mia follia violenta, io non ricordo ma me ne vergogno. A quanto pare, ho sfogato la mia ira per il contesto in cui mi trovavo contrario ai miei principi politici, per la frase dell’ambasciatore su Rimini e per il dispiacere del viaggio mancato dei miei genitori contro il povero Andrea che aveva soltanto tentato di aiutarmi. (Ira? chiamalo pure dissidio interno perché, per quanto contrario ai tuoi principi, bere calici di champagne offerti su vassoi e spegnere sigarette in portaceneri che ti seguivano portati da servili camerieri, ti piaceva, tanto e te ne saresti dovuto sentire in colpa).
Mi sono alzato e platealmente ho sputato per terra sul tappeto dello Sheraton per poi andarmene offeso. Al mio amico che mi inseguiva ho sferrato un pugno traditore e sono salito sul primo taxi per tornare a casa. Quando poi Andrea è arrivato anche lui l’ho minacciato costringendolo ad andare a dormire fuori blaterando che quella era una casa per uomini veri e non per servi dei signori ambasciatori. Ero completamento fuori di testa, non mi rendevo conto delle mie azioni. (Non ti basta? Persisti nell’errore? Quand’è che finalmente ti convincerai a ossequiare la Vera Religione che tanto ti glori di difendere? Il diavolo ti bisbiglia sconcezze nell’orecchio. Abbandona queste azioni devianti e maligne che ti sviliscono e umiliano!) Per fortuna il giorno dopo rinsavii e chiesi perdono.
Il mio soggiorno infedele e colonizzatore nella penisola arabica proseguì per circa un altro mese, durante il quale non successe più nulla. Nessun messaggio terroristico al telefonino, nessuna detonazione di bombe, niente.
Ho passato quattro mesi in Yemen, nessun occidentale cristiano è morto, neanche per un incidente stradale. Nello stesso periodo di tempo in Italia sono morte almeno venti persone sul lavoro, una quarantina sono affogate tentando di raggiungere il nostro paese, è stato rieletto un presidente del consiglio corrotto e ladro e a Roma un sindaco fascista.