di Girolamo De Michele
[Nella foto, Martin Heidegger è il primo seduto in basso a destra]
Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!» Questo aneddoto (del quale sono debitore a Michel Cioran) dà la cifra morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata con la moglie, fervente nazista.
Negli stessi anni, per restare nel campo dell’esistenzialismo, Sartre teneva all’Università corsi il cui contenuto avrebbe potuto costargli la vita (come accadde per Marc Bloch), Camus scriveva sulla rivista partigiana “Combat”, Lévinas e Primo Levi erano in campo di concentramento, Pareyson partecipava alle riunioni clandestine di Giustizia e Libertà, Pietro Chiodi evadeva dalla prigionia, tornava in Italia e riprendeva la via della montagna partigiana, Beckett, che pure era irlandese, si arruolava nella resistenza francese.
Mi è sempre rimasto il dubbio di come il vile Martin abbia annunciato alla consorte teutonica la capitolazione di Berlino e la morte di Hitler: posso immaginarlo uscire di casa in punta di piedi lasciando la radio accesa, e rifugiarsi in quell’angolo dove un contadino dagli occhi (ci mancherebbe!) azzurri, riposandosi con la pipa in bocca, se lo vedeva arrivare ogni giorno, anch’esso armato di pipa e tabacco. Heidegger riteneva che in quei frangenti si raggiungesse la più autentica comunicazione fumando silenziosamente in compagnia: avrà il contadino, sfinito dal lavoro dei campi, pensato lo stesso di quel buffo omino tanto simile a quello della birra Moretti, vestito con assurdi calzoni alla zuava e giacche di taglio settecentesco? Eppure Martin Heidegger è considerato un gigante della filosofia. Intendiamoci: Essere e tempo è un grande libro, soprattutto là dove compie una ricca analisi della condizione umana (nel suo complicato linguaggio: del Dasein, dell’esser-ci) gettata nell’inautenticità, nell’alienazione, nella perdita di senso. Ma quando Jean-Paul Sartre dichiarò, nella conferenza L’esistenzialismo è un umanesimo, di considerarsi allievo dell’Heidegger di quelle pagine, Heidegger stesso gli rispose sprezzantemente rinfacciandogli l’interesse per l’uomo invece che per l’essere in quanto Essere. Il fatto è che ad Heidegger dell’uomo, delle sue sofferenze, del suo corpo, della fatica del lavoro, della differenza tra uomo e donna, in una parola della “condizione umana” per un verso non importava alcunché — come non gli importava nulla del destino degli ebrei e delle altre vittime dei Lager nazisti (l’unico suo accenno alla guerra è in favore dei prigionieri di guerra tedeschi). E per altro verso, il suo pensiero non s’è mai arrischiato in un vero confronto con la realtà. Il suo mondo iniziava e finiva nella sua baita nella Foresta Nera, immersa nel silenzio della tormenta di neve che «tutto nasconde»: è solo in queste condizioni che «l’interrogarsi del filosofo può farsi essenziale».
Cinico e pavido, Heidegger ha trovato la quadra in una forma di scrittura ed elocuzione filosofica che sempre Cioran, col dono della battuta che gli era proprio, definì «un’escroquerie philosophique»: ogni volta che il suo pensiero tocca qualche punto essenziale, Heidegger se ne esce ingarbugliando il linguaggio. Con Heidegger l’insincerità truffaldina del linguaggio raggiunge livelli che solo Shakespeare aveva saputo toccare col suo Jago (personaggio che peraltro condivide con Heidegger il disprezzo per i “negri”). Facendo strame della sintassi e della filologia, Heidegger mette insieme espressioni la cui apparente profondità è l’effetto prodotto (per parafrasare il suo stesso linguaggio) dal «non-capirci-un’acca come la sua dimensione più propria»: Heidegger non si rivolge a interlocutori, ma ad ascoltatori che davanti al grado zero della significazione (cosa vorrà mai dire che «il niente nientifica»?) sgranano gli occhi, spalancano la bocca e, dopo aver cercato di cavare inutilmente il ragno dal buco, annuiscono gravemente per timore di passare per scemi. Il linguaggio di Heidegger è assertivo, oracolare, mistico: non potrebbe interessargli meno il linguaggio dell’operaio (ricordate il contadino che stava zitto e fumava la pipa?), l’analisi degli atti linguistici quotidiani, gli effetti che si producono nel mondo dando ordini o stipulando convenzioni. Wittgenstein si interrogò sul perché lui, che era architetto, non riusciva a comunicare con gli operai che gli costruivano la casa: si interrogò sui diversi giochi linguistici che denotano diverse condizioni sociali; Heidegger liquida il linguaggio quotidiano come «chiacchiera insignificante». Ma quando Carnap gli svela il giochino, sottoponendo ad analisi logica le sue affermazioni e chiedendogli perché mai «il niente nientifica» dovrebbe avere un senso filosofico e «la pioggia piove» no, Heidegger risponde accusando i neo-positivisti e i logici tutti di «stretta ed intima connessione col comunismo russo», roba che neanche Gasparri!
Il linguaggio è «la casa dell’Essere», diceva ad ogni piè sospinto: ma a condizione di accettare il fatto che per parlare dell’Essere ci manca il linguaggio, e dunque possiamo parlarne solo a condizione di non parlarne. La prova? Il fatto che lui stesso non ha terminato di scrivere Essere e tempo per la mancanza di un linguaggio adeguato all’Essere. E se il linguaggio viene meno a lui, non ci sono che due possibilità: o è l’Essere stesso che «si nasconde» (dove? Ma dietro se stesso, che diamine! Che sia il-giocare-a-nascondino la dimensione più autentica dell’Essere?), o è Heidegger che ha mal impostato l’analisi e non ha i mezzi per arrivarci. E allora perché larga parte della filosofia non ha, semplicemente, relegato ai banchi del rigattiere più vicino i libri di Heidegger? Perché l’heideggerismo è un ottimo pretesto per continuare a fare quello che i filosofi, tranne che per una breve parentesi e in modo minoritario, hanno sempre cercato di fare: studiare il mondo invece di impegnarsi a cambiarlo. Heidegger pone problemi seri: l’uomo è sopraffatto dal dominio della tecnica, disorientato dalla crisi della ragione, alienato. Possiamo uscirne? No: la crisi dell’uomo del Novecento è l’esito di qualcosa che è in marcia almeno da tre secoli. La questione della tecnica è in relazione con lo sviluppo della rivoluzione industriale, con quella che un marxista chiamerebbe sussunzione della società sotto il capitale? Per carità!, è tutta colpa di Socrate e Platone, che hanno dato avvio all’oblio della distinzione tra l’Essere e l’essere dell’ente come caratteristica del modo tecnico di pensare. E così, davanti alla crisi degli alloggi che affliggeva la Germania nel dopoguerra, Heidegger si poneva forse il problema della ricostruzione, dell’edilizia popolare, degli sfollati, delle politiche sociali? No: la crisi degli alloggi è solo una manifestazione di una più radicale crisi, quella del «non-sentirsi-a-casa-propria» come la dimensione più autentica dell’esser-ci. L’alienazione non ha una causa storica, sociale (come pensa un marxista), o individuale (come pensa la psicoanalisi): è una dimensione quasi eterna, contro la quale non c’è che da sperare che «dove massimo è il pericolo, là dimora ciò che salva». Cosa vuol dire questa frase? Heidegger non lo sa, ma l’ha detta Friedrich Hölderlin, che è un poeta, e quindi dev’essere sicuramente vera (e chissà cosa avrebbe pensato Hölderlin dei suoi versi usati come bigliettini dei Baci Perugina: non è anche questo un modo tecnico di pensare?). Una volta l’ha ripetuta in parlamento anche Buttiglione: il bello di queste frasi di cui non si capisce il senso è che le si può buttare lì, a caso, come il jolly a scala reale. Del resto siamo nell’età del dominio della tecnica, e «la tecnica non pensa» (come pure non pensano le penne stilografiche, il fiasco del Monopoli e lo stesso Buttiglione: ma questa è un’altra storia, direbbe l’indimenticabile Moustache). Dire che la tecnica non pensa è un ottimo modo per uscire dall’impasse intellettuale di chi non conosce la distinzione tra tecnica e tecnologia, tra tecnica e scienza, e in definitiva crede di sapere tutto delle pretese della tecnica e della scienza, ma poi chiama l’elettricista per farsi cambiar la lampadina.
In realtà un accenno a ciò che può salvarci Heidegger l’ha fatto trapelare: ormai, dice nell’ultima intervista, «solo un dio ci può salvare». «Un» dio, non «il» dio: forse ce ne sono molti? Possiamo, nel caso, scegliere tra il mitico Thor, Osiride o Zeus? Non è dato saperlo. Ma un filosofo che si affida a un dio non sta tradendo dal proprio sapere? Se non è possibile operare per cambiare il mondo, tanto vale, invece di arrischiare la fatica del pensiero, andare in pellegrinaggio a Lourdes o a Pietralcina, o dal mago Otelma — o farsi dire cosa pensare dall’heideggeriano Ratzinger e dalla sua schiera di zelanti ripetitori (che, come la tecnica e il fiasco del Monopoli, non pensano: ascoltano, annuiscono ed eseguono). Se l’autenticità ci è negata per colpa di Platone, che vale condurre una vita autentica, o più modestamente sincera, ma scomoda, in luogo di una vita ipocrita, ma comoda e rassicurante? Cosa credete che abbia fatto Heidegger quando dovette scegliere tra l’amore per l’allieva Hannah Arent e la moglie che non amava, ma alla quale era sposato? Credete che abbia corso il rischio della sincerità verso le proprie passioni? Se il linguaggio non è in grado di rendere conto delle proprie asserzioni e di rispondere delle proprie menzogne, allora sarà lo stesso scrivere bianco piuttosto che nero: cosa molto utile, per un filosofo che dopo essersi esposto «disertando nella prassi» (così disse Heidegger, distintivo nazista al bavero, al disertore Günther Anders) cerca di accreditarsi verso ambienti più moderati, dai quali avere una cattedra, un posto in una rivista, un invito a un convegno. Per prostituirsi intellettualmente con i circoli più reazionari dell’Accademia italiana, magari a ore alterne per salvarsi la coscienza. Heidegger è stato un perfetto trampolino per quei filosofi che in piena Restaurazione, dopo aver millantato di voler cambiare il mondo, sono tornati nello splendido isolamento delle proprie cattedre, per quei nostalgici dello storicismo che avevano tanta voglia di sentirsi dire che se non la Storia o la Provvidenza, ci pensa la storia dell’Essere, insomma il destino, a far sì che il mondo sia come sia, che il mondo non può essere diverso da come già-da-sempre è: al massimo lo si può amministrare un po’ meglio, non criticarlo. Se solo un dio può salvarci, che bisogno c’è di alzarsi alle 4 del mattino per andare a volantinare davanti a una fabbrica? Se la comprensione dell’esser-ci è negata dal nascondimento dell’Essere, perché preoccuparci del fatto che il da del Dasein, cioè banalmente il mondo in cui viviamo, è il mondo costruito dai Signori per lo sfruttamento dei Servi? Perché chiedersi cosa del nostro corpo — la determinazione sessuata, le passioni, i flussi di libido, i desideri, la pluralità delle ragioni, il conflitto permanente tra cuore e ragione — increspa la placida serenità di un pensiero che non si confronta mai col reale e resta sempre a fare il gioco dello specchio con se stesso? Se siamo tutti alienati e non c’è differenza tra la condizione maschile e quella femminile, tra il lavoro e l’ozio, tra il nord e il sud del mondo, perché uscire dai salotti e sporcarsi le mani col mondo? L’heideggerismo è una sorte di élitaria torre d’avorio i cui occupanti passano il tempo a nientificare il niente, ossia a parlare del nulla: dopo tutto, perché buttarli giù dalla torre? C’è il rischio di ritrovarceli, noi della razza di chi rimane a terra (razza rude e pagana, beninteso), ancora tra i piedi.
Note
(*) Sono debitore, per il titolo, al saggio postumo di Luciano Parinetto Gettare Heidegger.
(**) Dopo la pubblicazione, su Liberazione del 14 agosto 2008, di questo testo, Roberta De Monticelli, che ringrazio per le parole di apprezzamento, mi ha segnalato il suo Contro Heidegger, liberamente scaricabile dal suo sito qui.