Durante la seconda metà degli anni Novanta, in seguito al successo planetario del film Traispotting, tratto dal suo secondo romanzo, lo scrittore scozzese Irvine Welsh fu frettolosamente interpretato come autore giovanilistico, considerato certo dotato di un grande talento espressivo e di una caratura letteraria fuori dal comune ma comunque limitato nel suo percorso narrativo alla descrizione di esistenze metropolitane devianti, con storie fatte di droga, emarginazioni, alcolismo, disoccupazione e violenza. Questo equivoco è durato diversi anni, almeno fino a Colla, capolavoro di Welsh che, parimenti al coevo, elegante ma non altrettanto efficace, La banda dei brocchi di Jonathan Coe, descriveva con rara potenza espressiva e ampiezza tematica, la mortificante parabola della classe operaia, o del nuovo sottoproletariato urbano, inglese dalla fine degli anni Settanta ai nostri giorni.
A mio avviso Welsh è infatti uno scrittore sociale, la sua attenzione è sempre rivolta ai cambiamenti e alle dinamiche metroplitante in divenire, anche nelle sue prove minori, come il recente I segreti erotici dei grandi Chef. Partendo da questo presupposto critico va interpretato anche il suo ultimo lavoro, Una testa mozata, da poco uscito per Guanda e ancora una volta magistralmente tradotto da Massimo Bocchiola. La storia è ambientata ai nostri giorni in un paese del Fife, piccola regione a Nord di Edimburgo, anticamente popolata dal bellicoso popolo dei Pitti e ancora considerata dotata di una distinguibile specificità culturale e non a caso chiamata “il regno”. In un contesto sociale privo di prospettive e logorato da una disoccupazione endemica, si svolgono le gesta di Jason King, ventiseinne privo di lavoro, già fantino di buone speranze (è alto 157 cm) e campione locale di subbuteo, simulacro da tavolo del footbal in gran voga negli anni Settanta, poi relegato a un immaginario nerd e ora ritornato discretamente in auge. Figlio di un ex minatore militante dell’ala massimalista dei laburisti scozzesi – fa quasi ridere pensare oggi a dei rivoluzionari nel partito di Tony Blair – Jason cresce con un’abbozzata coscienza sociale che certo non gli impedisce di vivere una esistenza da perfetto scioperato, consumata gironzolando, bevendo, drogandosi e aspettando con affanno il sussidio di disocuppazione. Poco attraente e frustrato dal punto di vista sessuale, Jason prende una cotta per Jenni Cahill, bella ragazza borghese figlia di un chiaccherato industriale della zona. Comincia così una vicenda surreale e picaresca fra le strade del Fife, con protagonista una bizzarra umanità allo sbando che nella sua decadenza coinvolge tutte le generazioni e le classi sociali. La cifra umoristica di Welsh raggiunge dei momenti altissimi, cavalcando situazioni stravaganti e riuscendo a definire personaggi grotteschi ma allo stesso tempo umanissimi. Il linguaggio è crudo, diretto, sconcio ma io non lo definirei “un linguaggio escrementizio che rischia di imbrattare il lettore” come ha fatto Marco Lodoli su La Repubblica. Welsh ha sempre navigato negli escrementi e se il suo stile subisce una radicalizzazione estetica è proprio per significare un resa. Questo è il romanzo dell’avvenuta rimozione di ogni volontà di cambiamento. Fra le righe di una vicenda tutto sommato semplice e godibile, Welsh racconta una società che oramai ha virato la china del crepuscolo. Non c’è più nulla da salvare. In questo contesto sostanzialmente tragico, lo scrittore decide di accellerare e non concede tregua. Spiace per Lodoli, ma la volgarità linguistica nel romanzo è meno significativa della ripetizione lessicale. Durante i dialoghi, l’uso dei termini segue una linea di ripetizione ossessiva. Brutale e grossolana. Quasi un mantra. In questo straziato incedere, il risentimento si traforma in speranza. Ma solo individuale e momentanea. Per la massa non c’è più un percorso identitario. Figuramoci una redenzione.
Una testa mozzata, di Irvine Welsh, Guanda, traduzione Massimo Bocchiola, pag. 243. 15 €.
[Questo intervento è stato pubblicato da Liberazione, in data odierna]