Appunti per un cinema dell’Apocalisse.
di Dimitri Chimenti
Se per filosofia intendiamo non un campo disciplinare, ma un’attività critica attraverso cui costruire un destino comune e testimoniare il mondo, allora in Italia essa solo raramente è stata applicata all’analisi del cinema. Vengono in mente soprattutto i nomi di Maurizio Grande e di Pietro Montani, ma anche quello di un giovane studioso recentemente scomparso, Marco Dinoi.
A pochi mesi dalla morte del suo autore esce Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema (Le lettere, € 25, pag.328), un’analisi sulle diverse funzioni che televisione e cinema hanno svolto nella costituzione di una memoria degli eventi dell’11 Settembre. Un libro che parte dalla consapevolezza che tutto l’armamentario concettuale messo in campo dagli epigoni di Baudrillard e soci è ormai inservibile. E’ forse da questa consapevolezza che nasce una scrittura di un’eticità potente, capace di stabilire ancora una differenza primaria tra ciò che vediamo e ciò che conosciamo.
Per Dinoi è essenziale separare ciò che non doveva essere unito, ossia l’evento e la sua immagine. Un’urgenza che viene affrontata in apertura di saggio, quando l’autore si domanda che cosa sia intercorso tra il “sembra vero”, con cui il pubblico parigino commentava le proiezioni dei fratelli Lumiére, ed il “sembra un film” con cui invece abbiamo accolto le immagini televisive dell’attentato alle Twin Towers.
Sembra un film, ma non lo è. E’ l’aggiunta spontanea di questa avversativa a spostare l’accento sul fatto che, nonostante la pervasività dei mezzi di comunicazione, nella nostra coscienza continua a sussistere uno scarto tra l’evento e la sua immagine. Il problema da fronteggiare non è mai stato la pretesa indistinguibilità tra reale e virtuale, ma la mancanza degli strumenti cognitivi necessari a gestire l’imprevedibilità e l’enormità dell’evento. Un’assenza che è stata riempita da una sceneggiatura del reale desunta dalle immagini dei film catastrofici hollywoodiani. Storie in cui l’attacco è sempre portato dall’esterno, dall’Altro.
Un cortocircuito di significati e significanti che avrebbe necessitato di un lavoro di mediazione, di un controcampo che all’immagine delle torri crollanti opponesse non soltanto folle di arabi giubilanti ed isteriche. E’ a questo punto che il pensiero di Marco Dinoi si fa politico: i media non mediano, ma riversano, subito e senza scarti. Ed è in questo modo che essi hanno esercitato la propria funzione normalizzatrice dell’evento, saturando sguardo e coscienza attraverso la ripetizione ossessiva di una medesima serie di immagini.
Tutto quello che c’era da vedere è stato visto. Gli schermi erano pieni, gli occhi anche, ma come puntualizza l’autore quando “tutto sembra disponibile, nulla è direttamente maneggiabile; se tutto è visibile, nulla forse è veramente visto, e se tutto è raggiungibile, nessun altro luogo è realmente raggiunto.” Come dire che quando l’evento combacia perfettamente con la sua immagine non riconosciamo più il mondo, perché non l’abbiamo mai conosciuto e rischiamo, presi nella sua evidenza, di non conoscerlo mai.
E’ oggi, secondo Dinoi, che al cinema spetta il compito di riconfigurare la realtà verso se stessa, di riflettere sulla funzione di testimonianza dell’immagine. Magari con l’apparizione del fuoricampo (come in Kiarostami), oppure attraverso l’intrusione, nel testo filmico, di un momento in cui la vita è colta all’improvviso (come in Herzog). Non importa quanto l’immagine sia elaborata, non è la manipolazione che differenzia il cinema dalla televisione, ma la sua capacità di articolare una serie di distanze tra i corpi e gli oggetti, tra il soggetto filmato e la macchina che filma. Ed è solo grazie al calcolo di tali distanze che l’occhio può liberarsi dall’illusione di trovarsi dove non è.
Si prova un senso di vertigine nel definire Lo sguardo e l’evento un libro sul cinema, eppure non si ha mai l’impressione che i film siano usati come espedienti per avvalorare un discorso già pronto per l’uso. E’ partendo dall’analisi di determinati testi filmici, come 11’09’01 o La 25º ora, che Marco Dinoi mette in scena un pensiero nel suo farsi, esercitando al meglio quella che uno dei suoi maestri riconosciuti, Gilles Deleuze, riteneva essere la funzione del critico, ossia la ricerca di un supplemento estetico sul cui significato vegliare ed indagare.