di Giulio Mozzi *
Si parla molto, oggi, del “caso” di Emanuela Englaro e di suo padre Giuseppe. Io non ho alcuna opinione su questo “caso”. Ma ho delle opinioni su di me, e le scrivo qui sotto in forma di “testamento biologico”. Mi piacerebbe se altre persone, magari più autorevoli di me, decidessero di rendere pubblico il loro “testamento biologico”. Magari scrivendolo, come io ho fatto, in maniera problematica; ma ben consapevoli che, se domani si ritrovassero nelle stesse condizioni di Emanuela Englaro, le loro pubbliche e pubblicate parole non sarebbero prive di conseguenze.
Ho quarantott’anni e, sinceramente, spero di arrivare alla morte in condizioni decenti. Il dizionario di Tullio De Mauro, alla voce “decenza”, dice: “Convenienza, decoro, pudore rispetto alle esigenze etiche della collettività”. Quando penso alla decenza, invece, io penso alle “esigenze etiche” mie proprie. Quali siano queste mie “esigenze etiche”, io solo lo so: e non lo so ora per allora (un “allora” futuro), ma lo so in ciascun momento per quel momento.
È possibile, peraltro, che io mi possa trovare, in un certo momento della mia vita, nell’incapacità di stabilire quali siano le mie “esigenze etiche” in quel preciso momento. Perciò — è questo il mio testamento — dico e dichiaro, qui e pubblicamente, che desidero che in quel certo momento le persone che mi amano possano decidere, abbiano il diritto e il dovere di decidere, in mio nomen quali siano le mie “esigenze etiche”.
Sospetto che “le persone che mi amano” non sia una definizione precisa — dal punto di vista giuridico. Credo che questa difficoltà sia inevitabile. Credo che la legge possa dire solo cose del tipo: che decida in mio nome la persona a me unita in matrimonio (o in altro tipo di unione), il parente più stretto, eccetera. Non mi dispiacerebbe però se, piuttosto che la legge, la consuetudine o la giurisprudenza conducessero a individuare la persona, o le persone, che possa o possano decidere, in quel certo momento, quali siano le mie “esigenze etiche”. Peraltro, sarei portato a pensare che il diritto e il dovere di decidere quali siano le mie “esigenze etiche” spetti semplicemente a chi scelga di prendersi la responsabilità di decidere quali siano le mie “esigenze etiche”. Credo che il fatto stesso che una persona sia disponibile ad addossarsi tale responsabilità (con tutti i rischi legali, sociali, morali eccetera che ciò comporta) basti a identificare questa persona come persona che mi ama.
Non sono sicuro di tutto questo, e non sono sicuro di averlo detto bene. Prendete le parole del secondo capoverso come un tentativo provvisorio. Se qualcuno vuole e può aiutarmi a formulare con più giustizia e più precisione, lo ringrazio.
Ho detto prima che quando penso alla “decenza” penso alle “esigenze etiche” mie proprie. Difatto, per ora, è così. Ho il sospetto, tuttavia, che se penso solo alle “esigenze etiche” mie proprie forse penso solo a metà. Non sono solo al mondo. Tutta la mia vita è intrecciata a tante altre vite. Mi domando: le “esigenze etiche” mie, e quelle delle persone alla cui vita è intrecciata la mia vita, in che maniera si intrecciano? In che modo diventano “esigenze etiche” condivise?
La parola “esigenze”, poi, mi convince poco: come se l’etica fosse un fatto di esigenze (“esigenza”: “ciò che si richiede a tutela di un diritto o di un interesse o per propria convenienza” — sempre il De Mauro), e non invece (o almeno: anche; e piuttosto: soprattutto) un fatto di desideri (“desiderio”: “intenso moto dell’animo che spinge a voler ottenere o realizzare qualcosa che si considera un bene”).
Mi piacerebbe, ecco, anzi: desidero morire in modo da ottenere o realizzare un bene. E se in quel momento io fossi incapace di agire, decidere o parlare, mi piacerebbe se, nell’accompagnarmi alla morte, le persone che mi amano fossero guidate dal desiderio di ottenere o realizzare un bene.
Vorrei morire come una creatura.
Il mio testamento è questo: credo che chiunque deciderà per me, deciderà per amore; e sarà responsabile della sua decisione. (“Decidere per amore” e “essere responsabili”: due modi, mi pare, di dire la stessa cosa).
[da il Mattino di Padova, 16.7.08]
* Giulio Mozzi, (Camisano Vicentino, 1960) è uno dei più apprezzati scrittori italiani contemporanei. Docente di scrittura creativa e cercatore di talenti letterari, a lui si devono la scoperta di Vitaliano Trevisan, Laura Pugno Tullio Avoledo, Leonardo Colombati e altri narratori italiani. Dal 2002 cura la narrativa italiana per la casa editrice Sironi, dal marzo 2008 è consulente di Einaudi Stile Libero. In rete cura il blog Vibrisse Bollettino e ha promosso la casa editrice vibrisselibri. Vive a Padova.