Con colpevole ritardo, mi accingo ad affrontare uno dei testi a mio parere più importanti tra quelli pubblicati in Italia quest’anno: La casa madre (Adelphi, € 16) di Letizia Muratori. Se si tentasse una definizione attraverso le categorie standard a cui si è ciecamente votata la “critica ufficiale”, non riuscirei ad afferrare l’oggetto. Poiché, tuttavia, io sono un “critico ufficioso”, e peraltro un collega di Muratori, posso permettermi di aggrapparmi a una definizione lanciata da un altro collega, cioè Wu Ming 1, nel suo memorandum sul New Italian Epic. E’ infatti opportuno circoscrivere il libro di Letizia Muratori in un campo magnetico, da cui emerge come realtà proteiforme – si tratta, cioè, di un perfetto Oggetto Narrativo Non Identificato. E’ una narrazione, composta apparentemente da due racconti che sono al tempo stesso speculari e incrociati, e tuttavia una “sostanza”, non solamente linguistica, corre a unificare i due racconti, che fuoriescono così dal genere della narrazione breve. La coerenza per salto radicale trova, credo, la sua più nitida referenza in certi sbalzi tra capitoli di Kafka, in particolare nel Processo. Con La casa madre, Muratori scrive un testo che è capace di ingannare ogni sguardo che non sappia farsi obliquo secondo la gradazione del libro stesso. Uno strabismo che apre voragini impressionanti e mette in discussione lo statuto di certa tradizione preacquisita e tipicamente occidentale della narrativa. E’ un libro a mio parere imperdibile.
L’autrice, del resto, è protagonista di una crescita personale, stilistica e tematica esponenziale. Il suo La vita in comune faceva presagire un’evoluzione, soprattutto in un movimento retorico a tre quarti del libro (come sottolineai nella relativa recensione su Carmilla) e nel finale rarefatto e sospeso. Tuttavia non mi sarei atteso un avanzamento verso lo “sconosciuto” di una portata simile a quella implicita ne La casa madre.
Cominciamo dall’equivoco, poiché questo è un libro facilmente equivocabile. Le due parti della narrazione riguardano una ragazzina, Irene, e un ragazzino, Luca; concernono i loro giocattoli e le loro modalità ludiche, in tempi separati (e quindi: le bambole-bambine Cabbage Patch che nascevano da cavoli di plastica ed erano personalizzatissime, prodotte negli Ottanta, per Irene; i ludi fantasy e le Winx contemporanei, per Luca); in entrambe le parti è fondamentale il rapporto tra sé e sé dei due piccoli protagonisti, ma diventa fondamentale l’agnizione della cosiddetta realtà attraverso gli adulti, e specificamente la famiglia. Soprattutto la chiamata in scena del giocattolo più feticistico della storia moderna occidentale potrebbe richiamare recenti e non desiderabili antenati. Le Cabbage infatti esigevano, a partire dal produttore identificato come “papà” di ogni bambola, un approccio materno, personalizzato, che implicava la scelta del nome e rituali oggettivati in mode, gerarchie, rapporti tra le diverse “mamme” delle bambole rotondotte. Semiviventi, in pratica, in quanto esprimenti esigenze e protocolli, a cui era necessario adeguarsi. Capaci perfino di una lingua: la citazione testuale in quarta di copertina l’ha riportata un genio, poiché non è una porzione di testo di Muratori, è qualcos’altro, che è profondissimo:
“Sono adorabile, irresistibile, adottabile. Se mi vuoi, sarò per sempre il tuo bimbo nel campo incantato” (materiale promozionale delle bambole Cabbage Patch Kids per il lancio italiano),
laddove la genialità risiede nell’avere compreso perfettamente l’operazione di Letizia Muratori, che non è quella di dare voce alla merce inanimata o di inscenare l’ennesima danse macabre dei teorici del sex appeal dell’inorganico – è qualcosa di più radicale. Ciò serve a sgomberare il campo dall’equivoco di cui sopra. L’ossessività delle Cabbage e delle bambine che, non autocoscienti del desiderio (“se mi vuoi”…), si lanciano in una serie di rapporti che costruiscono una realtà parallela ma non onirica, potrebbe riportare alla memoria la facilissima retorica del mercificato, dell’oggetto ambiguamente rimpianto, del trash e del controtrash di epoca “Cannibale”. Non è per nulla questo, il piano su cui si muove Muratori. Qualunque rapporto libidico con l’oggetto è interrotto, per lo spiazzamento del lettore, che è come se si trasformasse in un’abnorme lente che vede tutto nitidamente senza essere coinvolta nella situazione. In pratica, si è sguardo, e nemmeno uno sguardo parentale, cioè in qualche modo emotivizzato. Non si è sguardo mnemonico. Non si è sguardo identificato. La penetrazione di questo sguardo è proporzionale allo stile spezzato ma velocissimo a cui la scrittrice romana sottopone il suo racconto. Il primo racconto, all’improvviso, termina (eviteremo lo spoiler, che è però un motivo fondamentale di tutto il libro) e salta di più di un decennio, a una vicenda tutt’altro che simile alla precedente nelle apparenze, ma in realtà non soltanto simile: propriamente è una vicenda uguale. Il perno è ancora una volta la costruzione fantastica indotta, ma dalla cui induzione il bambino sfugge mediante una costruzione sovrafantastica. In entrambi i casi, i racconti di pubertà sono narrazioni che nulla hanno a che vedere col genere detto “di formazione”, ma distruggono le gabbie di questo abusatissimo stilema critico, per fare fuoriuscire la belva stessa della formazione, che è l’ambiguità. Il sì e il no, ciò che è morale e ciò che è amorale, l’impatto col mondo e l’evasione da questo – tutto ciò subisce una messa in ambiguità talmente potente che qualunque identificazione (pietistica, mimetica, appoggiata sulla memoria del lettore) salta come se fosse sottoposta a cortocircuito.
Questi bambini sono bambini, ma non sono bambini. In ciò si ravvede ulteriormente una forte mutuazione (non so se del tutto inconscia o calcolata) con un preciso momento kafkiano, quello in cui Josef K., protagonista del Processo, recandosi dal pittore Titorelli, incontra ed è accompagnato da bambine dalle labbra color ciliegia, bimbe inquietanti che “fanno anch’esse parte del Tribunale” e “sono già corrotte”. Chi sono queste bambine? Converrà osservare da vicino cosa dice di Kafka l’editore stesso de La casa madre, Roberto Calasso, che nel suo splendido saggio K. così cerca di riassumere la postura dello scrittore praghese, in maniera magistrale:
Kafka intuì che nel mondo circostante ormai andava nominato un numero minimo di elementi. Un affilatissimo rasoio di Occam affondava nella materia romanzesca. Nominare il minimo e nella sua pura letteralità. Perché questo? Perché il mondo tornava a essere una foresta primordiale, troppo carico di suoni ignoti e di apparizioni. Tutto aveva troppa potenza. Perciò occorreva limitarsi a ciò che più era vicino, circoscrivere l’area del nominabile. Allora lì sarebbe defluita tutta la potenza, altrimenti diffusa. E in ciò che si nomina – una taverna, una pratica, un ufficio, una stanza – si sarebbe addensata un’energia inaudita.
[…] Kafka parla di un mondo precedente a ogni separazione e denominazione. Non è un mondo sacro o divino, né un mondo abbandonato dal sacro o dal divino. E’ un mondo che deve ancora riconoscerli, distinguerli dal resto. O che non sa più riconoscerli, distinguerli dal resto. C’è una sola compagine, che è solo potenza. Il bene nella sua pienezza, ma anche il male nella sua pienezza vi sono compenetrati. L’oggetto di cui Kafka scrive è la massa della potenza, ancora non dissociata, sceverata nei suoi elementi”.
Si può allo stesso modo affermare (e non sto dicendo che l’autrice sia geniale come Kafka) che l’oggetto di cui Letizia Muratori scrive è la massa non ancora sceverata della potenza. In questo senso Irene (il cui etimo riporta al greco eirène, cioè “pace”) e Luca (evidente il richiamo evangelico) sono distinti ma speculari, fino a risultare della medesima sostanza: pura potenza letterale, micro-Bartleby che si preparano all’angusta lezione del mondo che divide il soggetto dall’oggetto. Tutto è tremendamente letterale ne La casa madre – e per questo è potentissimo, inquietante, perfino comico (ma Kafka diceva che “il comico è il minuzioso”). Come nella memorabile scena del finto parto della Cabbage.
“Vieni qui, dottore”.
Le dissi e mi sdraiai sul divano di pelle screpolata a isole e continenti. Allargai le gambe e cominciai a gemere.
“Io che devo fare?”
Mi chiese sospettosa [mia madre], e inciampò sulla cinta slacciata della sua vestaglia rossa che seminava in giro tutto il giorno odore di latte bollito e Muratti. Perse l’equilibrio e mi si piantò davanti a braccia aperte.
“Bene, mamma, resta così. Ora mi devi dire: ‘Spingi, spingi forte e respira piano'”.
Francesca Romana Castelli me lo aveva insegnato, in quel modo si riceveva il regalo.
“Togliti subito quell’affare dallo stomaco, è il terzo pigiama che butto in un mese”.
Dalla fine di novembre giravo con un cuscino addosso, tenuto su dall’elastico, mi carezzavo l’addome e fingevo d’avere male alla schiena.
[…] “Tu me lo devi togliere dalla pancia, io devo solo spingere”.
In ginocchio la mamma si passò la mano sulla fronte, sbuffando sfilò via il cuscino.
“Ecco, è uscito, brava. Portami qui il pacco, veloce”.
“Irene, per favore, basta”.
“Veloce, ho detto”.
Questa è letteralità pura, cioè ambiguità, cioè ancora indistinzione della potenza. La bambina sa perfettamente di trovarsi in una finzione, parla come un’adulta e lo fa consapevolmente davvero per finta, evita la deriva delle storie (le screpolature che fanno del divano una mappa misteriosa e adatta allo sviluppo di storie), sbaraglia ogni distinzione tra supposto realismo (l’odore di latte bollito e le Muratti) e supposto fantastico (la gravidanza da isterica). Non è una bambina, esattamente come il bambino non è un bambino.
Cosa accade affinché ciò accada? In teoria della letteratura, potremmo dire che ne La casa madre si avvera un processo che è comune ad altri testi contemporanei: il superamento della metafora. Il che non significa l’uccisione della metafora. Nel Processo, Kafka agisce allo stesso modo: il procedimento penale viene più volte accostato a una macchina, ma nessuno la vede, tranne l’imputato. Ancora Calasso, le cui parole calzano a pennello come una recensione fulminante de La casa madre:
Questa visione terrorizzante, che già accenna alla conclusione della storia, viene sprigionata dal fatto che una metafora morta ha ripreso vita – e non più come metafora, ma come descrizione letterale di ciò che accade.
L’instabilità ontologica della Cabbage è correlativa all’instabilità ontologica della bambina Irene, che è una delle due facce (il femminile) del Bambino Primordiale (Urkind) di cui Jung e Husserl trattarono esaustivamente, tra i molti altri. E però qui non è questione di simbolizzare, di identificare l’archetipo in una forma, cioè quella del Bambino: è soprattutto il finale della prima narrazione e il salto tra i due apparenti racconti a mettere fuori gioco ogni cristallizzazione formale del simbolico. Superata la metafora, tutto si carica di una potenza che è essa stessa la sostanza archetipa, e non c’è più bisogno di simboli. E’ questo ciò che Kafka definisce “attacco all’ultima frontiera terrena” – è il tentativo di giungere, attraverso la spinta linguistica, fuori del linguaggio, nel viaggio oscuro dentro il buco nero di un reale che non presuppone più l’umano (ma nemmeno l’artificiale delle Cabbage, che è troppo umano). Si tratta di penetrare nell’allegoresi pura, si tratta di vedere ciò che l’umano non ha mai visto eppure è capace di vedere, poiché lo immagina (sono i fantàsmata di Aristotele).
Una simile uscita inserisce di forza il percorso letterario di Letizia Muratori in un’epica che implica una collettività più vasta della comunità umana. E’ il tentativo di sfondamento operato dal contemporaneo. Si tratta di un’epica cosmologica priva di figurazioni formali, che ha padri profetici, i quali l’hanno annunciata, da Melville a Kafka a Eliot a Celan a Burroughs al Pasolini di Petrolio. Tra costoro, Wallace Stevens, che mi pare il più preciso strumento per descrivere lo stacco dello sguardo a cui La casa madre obbliga il lettore: l’addio alle parole mentre si continua a parlare e una sostanza aliena e coscienziale penetra implacabilmente nel tessuto del testo e della psiche, sia quella dello scrittore sia quella del lettore:
da L’uomo malato
[…] le parole d’inverno in cui le cose si incontreranno,
nel soffitto della stanza distante in cui è steso lui,
l’ascoltatore, ascoltando ombre, vedendole,
scegliendo da dentro di sé, da tutto ciò che ha in sé,
una lingua per un calmo addio a se stesso, addio, addio,
le pacate, beate parole, ben intonate, ben cantate, ben dette.