di Gioacchino Toni
Eraldo Baldini, Alessandro Fabbri, Quell’estate di sangue e di luna, Einaudi Stile Libero Big, 2008, pp. 256, € 15,00
Caldo pomeriggio d’estate profumato dai campi di grano, papaveri e camomilla. Luce intensa. Un’auto con a bordo un uomo e il figlioletto di undici anni percorre una strada deserta. Una mietitrebbia è in azione all’orizzonte. Uno spiazzo sterrato con un bar di paese ove diversi vecchietti occupano i tavolini all’aperto e alcuni ragazzini smanettano al biliardino. Benvenuti a Lancimago. Le prime pagine del romanzo di Eraldo Baldini e Alessandro Fabbri ci portano, quasi fossimo a bordo dell’auto insieme ai due personaggi, in questo sperduto paesino rurale abitato da poche anime. Ben presto gli eventi narrati abbandonano la contemporaneità per catapultarci nell’estate del 1969, quando i giornali e la tv celebravano la “conquista della luna” ad opera della missione Apollo.
Il romanzo è strutturato attorno al racconto del padre al figlio di ciò che avvenne a Lancimago nel corso del 1969 quando, insieme ad un gruppo di amici, visse “quell’estate di sangue e di luna”. Dopo aver introdotto gli abitanti del paesino rurale e narrato nella quotidianità che, sul finire degli anni ’60, tutto sommato, pareva ancora scorrere senza troppi scossoni, come nei tempi più remoti, la narrazione presenta alcuni avvenimenti che inceppano il normale avvicendarsi degli eventi. Certo, di eventi tragici, che avevano sconvolto la vita di tutti i giorni, ne erano accaduti, e di gravi, nemmeno molto tempo prima: basti pensare alla tragedia della guerra che aveva attraversato anche Lancimago e che ancora era viva nel ricordo dei più anziani e, per certi versi, continuava a incidere sui rapporti di vicinato. Gli eventi che sconvolsero quell’estate del ’69, però, sembravano di “natura altra” rispetto alla tragedia della guerra. Mentre quest’ultima, tutto sommato, poteva essere considerata figlia degli uomini, gli eventi narrati investono il rapporto stesso tra uomo e natura, toccano qualcosa di più ancestrale.
Il racconto procede alternando la curiosità dei ragazzini per la missione Apollo e le tragedie che si susseguono a ritmo sempre più incalzante. Pare essere la natura stessa a ribellarsi nei confronti dell’uomo, di quello stesso uomo che, nel frattempo, pretende di conquistare la luna, così riducendola, di fatto, a entità conosciuta, privandola di quell’alone di mistero che la circonda da millenni. Non a caso tra i più anziani c’è chi mal sopporta la missione spaziale e l’eccitazione dei ragazzini per l’avvenimento.
A ben guardare, sono gli adulti a risultare i più disarmati nel fronteggiare gli avvenimenti che sconvolgono Lancimago, gli stessi adulti che, nel frattempo, intendono metter piede sulla superficie lunare. La memoria ancestrale degli anziani pare poter essere tramandata soltanto ai bambini, che sembrano essere gli unici disposti a guardare in faccia il lato più oscuro della realtà. Gli adulti sembrano aver perso ogni abilità nel saper vedere le cose, nel leggere gli eventi e confrontarsi con essi.
È per certi versi la lotta tra l’alone della luna e la navicella spaziale a essere narrata dal romanzo, allo stesso modo con cui l’illuminista Goya dava immagine ai mostri esortando gli uomini a “veder bene”. Un monito per la Ragione a valutare criticamente anche i propri risultati. La luce che intende squarciare il mistero non può pretendere di cacciare i mostri che vivono nelle tenebre, ma deve essere una luce impietosa, che mostra senza remore come l’orrore si celi ovunque. Per certi versi, il romanzo di Baldini e Fabbri pare davvero essere uscito dalle pitture nere de “La Quinta del sordo” di Goya.