di Tommaso Di Francesco e Manlio Dinucci (da il manifesto, 10 agosto 2008)
[Se fosse stato ancora vivo Sbancor, avremmo affidato a lui un commento sul conflitto tra Russia e Georgia. Aveva infatti previsto da tempo, come nota un post su Indymedia, che i confini meridionali della Russia erano a forte rischio di deflagrazione. Scomparso Sbancor, è apparso per fortuna su il manifesto – dove è stato pubblicato purtroppo in seconda pagina, su una colonnina – un articolo di Di Francesco e Dinucci che fa chiarezza sulla situazione. Altri interventi che meritano di essere letti li indichiamo alla fine del pezzo. Da notare che TUTTE le forze politiche in Parlamento, inclusi il PD e L’Italia dei Valori (la sedicente “opposizione”), sono schierate a sostegno della Georgia. Per non dire dei Radicali, filoimperialisti da sempre.] (V.E.)
«La Georgia è oggi un faro di libertà per questa regione e il mondo», diceva il presidente George Bush in visita a Tbilisi nel maggio 2005. A cosa si deve un tale riconoscimento della Casa bianca?
Al fatto che questo piccolo paese di quattro milioni di abitanti è divenuto un avamposto della penetrazione Usa nell’Asia centrale ex sovietica: area di enorme importanza sia per le riserve di petrolio e gas naturale del Caspio, sia per la posizione geostrategica tra Russia, Cina e India.
E’ il petrolio del Caspio che alimenta il «faro di libertà» della Georgia. Da qui passa l’oleodotto che collega il porto azero di Baku, sul Caspio, al porto turco di Ceyhan sul Mediterraneo: un «corridoio energetico» promosso nel 1999 dall’amministrazione Clinton e aperto nel 2005, lungo un tracciato di 1.800 km che aggira la Russia a sud.
Per proteggere l’oleodotto, realizzato da un consorzio internazionale guidato dalla britannica Bp, il Pentagono (1) addestra forze georgiane di «risposta rapida». Dal 1997 infatti il «faro di libertà» della Georgia è alimentato da Washington anche con un flusso crescente di aiuti militari. Con il Georgia Train and Equip Program, iniziato nel 2002, il Pentagono ha trasformato le forze armate georgiane in un esercito al proprio comando. Per meglio addestrarlo, un contingente di duemila uomini delle forze speciali georgiane è stato inviato a combattere in Iraq e un altro in Afghanistan.
Secondo fonti del Pentagono citate dal New York Times (9 agosto), vi sono in Georgia oltre duemila cittadini Usa, tra cui circa 130 istruttori militari. Il mese scorso è iniziata in Georgia la Immediate Response 2008, esercitazione militare cui partecipano truppe di Stati uniti, Georgia, Ucraina, Azerbaijan e Armenia. Per l’esercitazione, diretta dal Pentagono, sono arrivati in Georgia circa 1.000 soldati Usa appartenenti alle truppe aviotrasportate Setaf, ai marines e alla guardia nazionale dello stato Usa della Georgia. Sono stati dislocati nella base di Vaziani, a meno di 100 km dal confine con la Russia. Immaginiamo cosa accadrebbe se la Russia dislocasse proprie truppe in Messico a ridosso del territorio statunitense.
Allo stesso tempo il «faro di libertà» della Georgia è stato alimentato con la «rivoluzione delle rose» che, pianificata e coordinata da Washington, ha portato nel 2003 alla caduta del presidente Eduard Shevardnadze. Secondo il Wall Street Journal (24 novembre 2003), l’operazione fu condotta da fondazioni statunitensi formalmente non-governative, in realtà finanziate e dirette dal governo Usa, che «allevarono una classe di giovani intellettuali, capaci di parlare inglese, affamati di riforme filo-occidentali».
Sul piano militare, economico e politico, la Georgia è controllata dal governo statunitense. Ciò significa che l’attacco contro l’Ossezia del sud è stato programmato non a Tbilisi ma a Washington. Gli scopi? Mettere in difficoltà la Russia, vista a Washington con crescente ostilità anche per il suo riavvicinamento alla Cina. Rafforzare la presenza Usa nell’Asia centrale. Creare in Europa un altro focolaio di tensione che giustifichi l’ulteriore espansione della presenza militare statunitense, di cui lo Scudo antimissile è un elemento chiave, e l’allargamento della Nato verso est (tra poco dovrebbe entrare nell’Alleanza, sotto comando Usa, proprio la Georgia).
Ciò che Washington teme, e cerca di evitare, è un’Europa che, unendosi e acquistando ulteriore forza economica, possa un giorno rendersi indipendente dalla politica statunitense. Da qui la politica del divide et impera, che sta riportando l’Europa in un clima da guerra fredda. Da qui anche i i due pesi e due misure: mentre rivendica, riconosce e difende l’indipendenza del Kosovo dalla Serbia in spregio al rispetto dei confini internazionali – pensate se Belgrado avesse attaccato in armi Pristina a febbraio subito dopo la sua proclamazione unilaterale d’indipendenza – Washington nega quella dell’Ossezia del sud, ribadendo «il sostegno della comunità internazionale alla sovranità e integrità territoriale della Georgia».
(1) Ma anche Israele. Vedi qui.
Articoli da leggere assolutamente.
L’intervento di Giulietto Chiesa.
L’ analisi di Carlo Benedetti.
Le acute e condivisibili osservazioni di Info-Aut.
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