di Amartya Sen
Le nozioni di giustizia, diritto, amore per il prossimo sono solo «occidentali»? Il Nobel Amartya Sen sostiene di no
In un mondo in preda alle peggiori atrocità, la possibilità di utilizzare la ragione rappresenta sempre una speranza, e ciò è facile da capire. La ragione ci può aiutare a prendere coscienza dei nostri errori e a fare in modo di non ripeterli. L’autore giapponese Kenzaburo Oe, per esempio, teorico e visionario della società, sviluppa con forza l’idea che la nazione giapponese, grazie alla comprensione della propria storia imperialista, ha tutte le ragioni per impegnarsi nella difesa della «democrazia escludendo ogni ricorso ad un’altra guerra». Che ne è dell’argomento scettico secondo il quale il campo del ragionamento sarebbe limitato dalle differenze culturali?
Recentemente sono state sollevate due difficoltà particolari, distinte ma collegate tra loro. In primo luogo c’è l’idea che la fede nella ragione sia un approccio «occidentale» ai problemi sociali. Coloro che non appartengono al mondo occidentale non condividono, diciamo, alcuni valori, come la libertà o la tolleranza, che sono al centro delle società occidentali e alla base delle idee di giustizia sviluppate dai filosofi occidentali, da Emmanuel Kant a John Rawls. Il fatto che queste siano centrali nell’Occidente non è messo in discussione. Dal momento che si è sostenuto che molte delle società non occidentali hanno dei valori che lasciano poco spazio alla libertà e alla tolleranza (così vengono descritti i nuovi «valori asiatici» in voga), la questione merita attenzione. I valori della tolleranza, della libertà e del rispetto reciproco vengono considerati come «specifici di una cultura» e fondamentalmente limitati al mondo occidentale. E’ quella che chiamerò la teoria della «frontiera culturale». La seconda difficoltà deriva dal fatto che degli individui cresciuti in diverse culture possano tutti mancare di compassione e di rispetto gli uni verso gli altri. E’ possibile anche che siano incapaci di capirsi e di ragionare tutti insieme. Si potrebbe chiamare questo la teoria della «incompatibilità culturale». Poiché le atrocità e i genocidi sono davvero azioni di una comunità contro un’altra, non c’è alcun bisogno di insistere sull’importanza della reciproca comprensione in seno ai gruppi umani. E tuttavia potrebbe essere difficile raggiungere questa comprensione tra culture fondamentalmente diverse e per di più bellicose. I serbi e gli albanesi sono capaci di superare il loro «antagonismo culturale»? E gli hutu e i tutsi e gli induisti e i musulmani o gli ebrei israeliani e gli arabi?
Certamente la soluzione di tali conflitti non può avvenire in un giorno. Gli aggressori del capitano Cook non potevano assolutamente rimettere subito in questione un comportamento determinato dalla loro cultura, né allora lo stesso Cook poteva avere intùito e acutezza sufficienti per tenerli di mira senza aprire il fuoco. Nel caso presente, è la realizzazione razionale di questa capacità di capire e di interpretare che potrebbe interrompere ogni azione impulsiva. Il problema è allora quello di sapere se questo processo può avvenire al di fuori dei valori che mancano in alcune culture. Ed è qui che la nozione di «frontiera culturale» assume tutto il suo significato. Spesso si sente dire, ad esempio, che le civiltà non occidentali sono sprovviste di questo spirito critico e analitico, essendo così straniere rispetto a ciò che viene chiamato a volte il «razionale occidentale». Lo stesso riguarda il «liberalismo occidentale», le «nozioni occidentali di diritto e di giustizia» e, più in generale, tutti i «valori occidentali».
Molti concordano nel pensare, come Gertrude Himmelfarb ha chiaramente scritto, che le nozioni di «giustizia» di «diritto», di «ragione» e di «amore per il prossimo» sono «valori esclusivamente occidentali». E’ molto difficile in effetti rivolgersi a questi problemi senza subire l’influenza della cultura occidentale dominante sulle nostre percezioni e le nostre letture. Prendiamo ad esempio il concetto di «libertà individuale» che è spesso considerato come parte integrante del «liberalismo occidentale». L’Europa moderna e l’America, compreso il secolo dell’Illuminismo, hanno certamente giocato un ruolo preponderante nell’evoluzione dell’idea di libertà e delle sue diverse forme. Queste idee si sono diffuse da un paese all’altro in Occidente, ma anche altrove, in un modo paragonabile a quella che fu l’espansione industriale e tecnologica. Considerare le idee liberali come dei prodotti dell’«Occidente» nel senso stretto del termine, non impedisce affatto l’adesione a queste idee di altre zone geografiche o culturali. Così, ammettere che la forma di democrazia esercitata in India è ricalcata sul modello britannico non la squalifica per questo. Al contrario, sostenere che questi valori, queste idee collegati esclusivamente alla storia dell’Europa sono di per sé occidentali, può ridurre la loro portata altrove. Ma questa interpretazione storica è fondata?
E’ vero, come sostiene per esempio Samuel Huntington, che «l’Occidente era l’Occidente ben prima di essere moderno»? Non è così sicuro. Quando oggi si classificano le civiltà per categorie, la nozione di libertà individuale viene spesso utilizzata come criterio di classificazione e considerata come facente parte di una eredità occidentale, altrove introvabile. Certo si trova facilmente nei grandi testi classici occidentali l’espressione di una apologia di tutti gli aspetti della libertà individuale. Per esempio, la libertà e la tolleranza sono state esaltate da Aristotele, anche se era riservata agli uomini, escludendo le donne e gli schiavi, mentre si possono anche trovare dei campioni di questi stessi valori tra gli scrittori non occidentali. Si citerà l’imperatore Ashoka in India, che nel corso del III secolo a.C. fece distribuire a ciascuno, in tutto il paese, delle tavolette di pietra sulle quali erano vantati i meriti della buona condotta, del buon uso di un governo giusto e anche della libertà di tutti, compresi, a differenza di Aristotele, le donne e gli schiavi.
Questi diritti dovevano applicarsi anche agli «abitanti delle foreste» che vivevano in comunità pre agricole lontano dalle grandi città. Ci sono poche possibilità che le esigenze di Ashoka in materia di tolleranza e libertà siano conosciute da tutti oggi. Certamente esistono altri scrittori indiani classici che mettono l’accento più sulla disciplina e l’ordine che sulla tolleranza e la libertà: è il caso di Kautilya nel I secolo a.C. nel suo testo Arthashastra. Ma alcuni filosofi come Platone e Sant’Agostino danno anche la priorità alle norme sociali. Tenendo conto della diversità di pensiero in ogni paese, sarebbe più giusto, quando si tratta di libertà e di tolleranza, considerare Aristotele e Ashoka come facenti parte di uno stesso gruppo, e Platone, Sant’Agostino e Kautilya di un altro gruppo. Una classificazione che si basa sul contenuto delle idee è certo totalmente diversa da quella fondata sulla cultura o sul luogo geografico. La conseguenza di questa supremazia occidentale oggi è che le altre culture e tradizioni vengono spesso identificate e definite in opposizione al modello occidentale. Prendiamo il caso dei «valori asiatici» che vengono spesso messi in contrasto con i «valori occidentali».
Per il fatto che esistono in Asia molti sistemi di valori e di tipi di ragionamento, i «valori asiatici» possono essere definiti in mille modi, ciascuno fornito di una citazione corrispondente. Selezionando le citazioni di Confucio, alle spese di altri scrittori asiatici, l’impressione che i valori asiatici veicolano la disciplina e l’ordine, piuttosto che la libertà e l’autonomia come in Occidente, è rinforzata e, allo stesso momento, giustificata. Come ho indicato in altre occasioni, è allora difficile, considerate le rispettive letterature, sostenere la tesi di una opposizione radicale tra Oriente e Occidente. C’è qui un punto di dialettica interessante. Nella moltitudine delle tradizioni asiatiche, riferendosi solo alla dimensione autoritaria, molti scrittori occidentali sono stati in grado di costruire un’immagine particolarmente netta di un’Asia in opposizione con il «liberalismo occidentale». Come reazione, alcuni asiatici hanno preferito reagire con distanza e fierezza, piuttosto che con risentimento, a questa pretesa dell’Occidente ai soli valori di libertà: «Sì, siamo diversi… e va benissimo così!». E’ così che questa pratica, che consiste nel conferire un’identità per opposizione, si perpetua, incoraggiata sia dai tentativi degli occidentali di stabilire la loro propria identità, sia da quelli, contrari, degli asiatici di stabilire la propria.
Mettere in questo modo l’accento su ciò che altrove differisce dal modello occidentale, può rivelarsi di un’efficacia temibile e generare delle distinzioni artificiali. Si ritornerà forse a domandarsi perché Gantama Buddha, Lao Tzu, Ashoka, Gandhi o ancora Sun Yat Sen non erano dei «veri» asiatici. Allo stesso modo, per questa identità per contrasto, i detrattori occidentali dell’Islam, come i nuovi cantori della tradizione islamica, parlano molto poco dei precetti di tolleranza dell’Islam che sono almeno altrettanto importanti, dal punto di vista storico, dei suoi segni di intolleranza. Perché Maimonide, quando fuggiva le persecuzioni degli ebrei in Spagna nel XII secolo, ha cercato asilo presso il Saladino in Egitto? E perché l’imperatore musulmano che si era battuto per l’Islam contro i crociati, gli ha accordato il suo sostegno e un titolo a corte?
Certamente il nostro proposito non è quello di pretendere che tutte le idee che riguardano l’uso del ragionamento per una maggiore armonia sociale e di umanità, siano fiorite in modo uguale in tutte le civiltà. Ciò sarebbe non soltanto falso, ma verrebbe da una concezione stupidamente uniformatrice. Ma una volta accettata l’idea che molte delle nozioni considerate come fondamentalmente occidentali possono ritrovarsi in altre civiltà, allora si vede bene che queste nozioni non sono specifiche di una sola cultura, come a volte si pretende. Questo è il motivo per cui non bisogna disperare, almeno in questo ambito, di vedere prosperare un giorno nel mondo un umanesimo dettato dalla ragione.