di Alberto Prunetti

impronte.jpgSi è parlato a lungo della questione delle impronte, da prendere ai rom “che delinquono”, ai rom in genere, anche ai bambini rom, con cerchi d’applicazione nella strategia di controllo variabili secondo i deliri degli imprenditori politici della società disciplinare.

La strategia di una parte della sinistra, anche in buona fede, è stata quella di rispondere: “prendetele a tutti”, “prendetele anche a noi”. Un errore grave. Le impronte non vanno prese a nessuno. Tanto meno a chi, come i rom, è già guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato.

La controrisposta istituzionale (“le prenderemo a tutti, le prenderemo anche a voi…”) ha spiazzato molti sinceri militanti antirazzisti, ma era francamente prevedibile da chi guardasse le cose con la necessaria diffidenza critica. A maggior ragione, era ipotizzabile un allineamento veltroniano alla logica dell’allargamento dei controlli, a dispetto del restringimento dei diritti.


Dall’emergenza al controllo
A questo punto dovremo cominciare a interrogarci sulle dinamiche che corrono tra immigrati e minoranze da un lato e popolazione autoctona e maggioritaria dall’altro, dal punto di vista dell’estensione delle pratiche autoritarie.
La sensazione è che ciò che sta accadendo contro i migranti e i rom sia un laboratorio, un banco di prova di un progetto di potenziamento dell’apparato repressivo e di controllo statale, volto a imbrigliare le vite di tutti. Un apparato che mai come adesso, sotto un sedicente liberalismo, è stato tanto forte.
I codici amministrativi e quelli penali inventano o aggravano pene fino a qualche anno fa assolutamente impensabili (pensiamo a quanto rischiamo ogni volta che guidiamo un’automobile) e i migranti (descritti come pericolosi, clandestini, ubriachi..) sono stati l’oggetto di campagne mediatiche che hanno determinato, sull’onda emotiva dell’emergenza e dell’allarme sociale, il giro di vite nell’ambito penale e delle pratiche di controllo (vigilantes, telecamere, esercito utilizzato con funzioni di polizia… l’elenco sarebbe lungo).
Sostanzialmente la strategia è quella di criminalizzare prima una parte debole della società (i rom italiani, i giostrai, i senza fissa dimora, i giovani che bevono il sabato sera, i migranti…), in seguito introdurre apparati di sanzione e di controllo degni di una società disciplinare chiusa (una dittatura, insomma), giustificare poi il passo come una normativa estemporanea volta a combattere un’emergenza e infine, alla prima lamentela del governo ombra, estendere democraticamente a tutti il supplizio.
Per questo credo che difendere i migranti non sia semplice umanitarismo, ma risponda alla necessità di contrastare pratiche di repressione e disciplinamento che entrano in vigore col pretesto di applicarsi solo ai migranti.
Ovviamente questa strategia autoritaria funziona perché il razzismo istituzionale e le prassi mediatiche, attraverso la criminalizzazione dei migranti, hanno separato la società e la stanno ricompattando in maniera fittizia attraverso l’immagine dello straniero, del diverso, rappresentato come pericoloso e criminale.

Cittadinanze e censo
Anche sulla questione della cittadinanza, la sensazione è che sui migranti, sui rom e sui marginali si stiano facendo delle prove di laboratorio su quello che poi si potrà estendere anche agli altri. La cittadinanza infatti potrebbe, guardando al futuro col giusto cinismo, spostarsi su indici di censo, come già richiesto in certi comuni per la residenza agli stranieri, e quindi risultare non un attributo universale, di filiazione illuminista, ma un elemento fluttuante, diretta funzione del proprio conto in banca o dei privilegi accumulati.

Il risultato sarebbe una stratificazione civica: in alto i cittadini, sopra una certa fascia di reddito, poi quei meteci che hanno diritto di soggiornare dando conto ogni anno della loro provata lealtà al sistema produttivo italiano, alle istituzioni e al governo, infine gli esclusi da ogni diritto, definiti clandestini. Tra questi potrebbero rientrare anche individui finora protetti dalla nascita in un paese comunitario, ma identificati come gruppo sociale subalterno, facilmente criminalizzabile (ad esempio i romeni poveri, o i giovani devianti, o quelli senza fissa dimora, i tossicodipendenti, ad libitum…). Chi appartiene a questo gruppo sarà, alla minima resistenza, alla prima parola di lamento, represso, emendato, vilipeso, vessato, cacciato, deriso, accoppato, disarmato, ammanettato, imprigionato, fucilato, mitragliato, giudicato, condannato, deportato, sacrificato, venduto, tradito, e per giunta, schernito, dileggiato, ingiuriato, disonorato, tutto con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell’interesse generale.

Censire, controllare
Tornando al progetto di Maroni, già in corso d’opera, di censire i rom, a ragione si ribatte che non sia un censimento ma una schedatura. Che il censimento lo fa l’Istat e non la polizia. Che funziona attraverso lettere e non con un tipo in divisa con una mascherina bianca che ti pigia le mani nell’inchiostro.

Fosse anche solo un censimento (ma non lo è), andrebbe comunque combattuto. Si deve dire di no alla criminalizzazione di rom e sinti, siano italiani o immigrati. E questi censimenti, ridicoli perché destinati alle persone più controllate d’Italia, orribili perché finalizzati solo alla loro esposizione mediatica come un gruppo pericoloso, esprimono una volontà di controllare i poveri e i marginali che va di pari passo con il desiderio di garantire l’impunità ai potenti.

Censimento ricorda parole che separano. La ricchezza. Il censo. Il censore, il magistrato romano che vigilava sulla pubblica sicurezza. Ma anche la prestazione dovuta nel medioevo per ottenere un beneficio.
Numerare, contare, è una delle prime strategie di creazione della disuguaglianza.
Il censimento, inutile dirlo, è poi una strategia di controllo: permette di verificare la composizione di una popolazione e se possibile di modificarla.

Ancora a ragione, si ricordano i risultati devastanti del censimento italico o alemanno (absit iniuria verbis) della popolazione ebraica. O quello imposto nel 1930 dai colonialisti belgi alle popolazioni dell’attuale Ruanda, laddove i funzionari censenti, incapaci di distinguere tra tutsi e hutu, ma convinti che i primi fossero alti e nobili e i secondi contadini (e pertanto bassi), decisero di distinguere tra le etnie, fino allora fluide, affidandosi un po’ all’altezza delle genti, e poi, con maggior sicurezza, al numero di capi di bestiame posseduto: se avevi almeno dieci buoi eri un tutsi, altrimenti rimanevi un hutu. Per sempre. Certificato da carte d’identità che dopo settant’anni esistono ancora e che hanno deciso della vita e della morte di migliaia di persone.

E’ evidente allora che un censimento è un atto amministrativo che risponde a una logica di disciplina e controllo della popolazione, e questa logica si fa più perversa quando cerca di imporre un sigillo etnico sulle spalle dei censiti.
In ogni caso, quando il potere chiede di dare conto di sé di fronte all’autorità, di farsi numerare, chiede solo di farsi disciplinare, controllare, soggiogare. Proudhon docet. Teniamolo in mente, e diffidiamo dalle pratiche di controllo. Anche quelle amministrative. La banalità, tutta amministrativa, della faccia di Maroni è quella di un ometto qualunque che prepara il confino, l’individuazione etnica e l’allargamento delle strategie di controllo e concentramento della minoranza più importante d’Europa. Banalità del male, verrebbe da dire.