di Enzo Fileno Carabba
[Illustrazione di Liza Schiavi – cliccare per ingrandire]
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17. La lingua suprema
Già in tenerissima età avevo notato che esistevano persone che parlavano altre lingue, rispetto all’italiano. Si dava perfino il caso di gente che parlava tre o quattro lingue. Il fenomeno non mi convinceva. Non che tenessi particolarmente all’italiano, ma secondo me la lingua doveva essere una sola.
Quando poi la Voce ha cominciato a manifestarsi nella mia testa, questa idea si è rafforzata. Della Voce ho già parlato: era il mio shining personale, la mia luccicanza. Mi elargiva rivelazioni o visioni più o meno importanti, quando pareva a lei. Il mio intuito mi suggeriva che questa Voce non la sentivo solo io al mondo. Sicuramente tanti altri la sentivano, con intensità maggiore o minore, o anche uguale. Tanti altri l’avevano sentita in passato e tanti altri l’avrebbero sentita in futuro.
Questo lo sapevo con assoluta certezza: forse era stata la Voce stessa a informarmi.
Ebbene.
La Voce non aveva bisogno di traduttori e traduzioni. Parlava a tutti nello stesso modo. Oppure dovevo pensare che al bambino del film Shining parlava inglese perché il bambino è anglofono, e che se invece fosse stato romano Lei gli avrebbe parlato in romanesco? In quel caso invece della parola “Redrum”, che è l’anagramma di “Murder” il bambino in trance avrebbe ripetuto “aut iccatrom il”?
E allora che voleva dire? Che c’erano Voci intermedie che traducevano la grande Voce universale? La cosa non quadrava.
Riflessioni simili, per quanto all’apparenza confuse – anche perché più che riflessioni erano sensazioni – filarono diritte fino a un risultato chiaro: fin dalle elementari, con sicuro intuito, disertai le lezioni pomeridiane di inglese, l’unica lingua che abbia mia studiato e anche quella il cui suono più mi urta il sistema nervoso, come diceva la nonna. Doveva esistere UNA lingua sotto tutte le lingue, una lingua che si inabissava fino alle fondamenta del mondo. E io chiaramente – nell’adolescenza – volli dominare quella lingua delle fondamenta, non avevo certo tempo da perdere con inglese, francese, tedesco, cinese, arabo e così via, dialetti buoni per le sagre gastronomiche o per le rivendicazioni terroristiche o di Stato.
Parlavo italiano giusto perché ero nato in Italia, altrimenti avrei fatto a meno anche di quello.
Tutta la mia stirpe ha problemi con le lingue straniere, soprattutto il ramo maschile. Al tempo stesso la stirpe è attraversata dalla Voce, di questo sono convinto, anche se non ho elementi per affermarlo. Ma lo intuisco dalla presenza di certi sogni in comune, che non può essere casuale. E dico che anche la forza della Voce e la debolezza nelle lingue straniere devono essere concatenate da un nesso.
Inoltre, per complicare le cose, questi stessi soggetti della mia famiglia che avevano evidenti difficoltà con le lingue straniere, mostravano al tempo stesso una estrema sensibilità linguistica, anche se riversata esclusivamente sull’italiano.
Viceversa, la maggior parte di quelli che parlavano molte lingue mi sembravano disporre (perfino nella lingua madre) di una sensibilità linguistica grossolana, vagamente ottusa, senza sfumature. Mi riferisco a quelli che parlavano lingue utili, in vista di un profitto immediato. Come se il sapere molte lingue li costringesse a correre troppo, soffocando i demoni che vivono tra le parole.
Quando cominciai a mostrare interesse per la letteratura, un uomo di mondo, molto intelligente e colto, infaticabile viaggiatore, mi disse che se volevo scrivere veramente dovevo pensare subito alla traduzione. Cioè dovevo scrivere in una lingua abbastanza semplice – il più possibile priva di particolarità -, una lingua che si prestasse a essere tradotta nel numero maggiore di altre lingue. Era così che facevano gli scrittori veri, tradotti in tutto il mondo.
Mi parve una delle teorie più idiote che avessi mai ascoltato, forse la più idiota, e il peggio è che magari funzionava.
Ma non aveva qualcosa a che vedere con la mia teoria della lingua suprema? Fui colto da un dubbio terribile.
Oggi penso che la Lingua suprema può essere sotto qualsiasi linguaggio particolare, sotto ogni dialetto, ma ci vuole del lavoro per farla saltare fuori.
Al liceo ero inquieto, spesso saltavo le lezioni e me andavo in giro come un principe nei miei graziosi possedimenti: la città di Firenze. Erano gli inizi degli anni Ottanta. Tempo fa una specie di professoressa alternativa sentendomi raccontare questo fatto che al liceo ero inquieto e saltavo le lezioni si è indignata e mi ha detto:
Ma sputi nel piatto in cui mangi. Io ti licenzierei.
Si riferiva al fatto che tengo dei corsi di scrittura nelle scuole.
Ora, a parte che è giusto nel piatto dove uno mangia che può sputare, perché se ci pensi è molto peggio sputare nel piatto di un altro, devo dire che durante gli anni della scuola ho avuto la fortuna di incontrare due grandi personalità. Una è stata Angelo Marchese, famoso studioso di semiotica (la scienza che studia la vita dei segni) e di letteratura, che appunto era il mio professore di italiano al liceo. Ma non erano queste le sue virtù, dal mio punto di vista. Innanzitutto – anche se non era per niente alternativo, anzi aveva una sua gravità – quando mi interrogava faceva finta di non interrogarmi. Odiavo essere interrogato apertamente. Se ne rese conto. Non credo di averlo mai sentito pronunciare la parola interrogazione, con me. Iniziava parlando lui di un argomento, dicendo la sua, e poi chiedeva la mia, come se fossimo alla pari, come se fosse sinceramente interessato alla mia opinione. Era una finzione, ma una bella finzione, significativa. Apprezzavo questa delicatezza.
E comunque le cose le sapevo, sia detto per inciso.
Poi non era il tipico professore fascinoso, così a prima vista. Anche per questo lo apprezzavo. Portava il borsello!, era piuttosto tondetto, non si atteggiava a filosofo o a maestro di vita. Non dava confidenza. Ma ogni tanto lasciava cadere qualche riferimento fuori tema. Allora a casa andavo subito a vedere i libri a cui lui aveva accennato “casualmente”. Come odiavo essere interrogato, allo stesso modo avevo in gran dispetto gli argomenti in programma: mi piaceva scoprirle da solo, le cose. Per cui Angelo Marchese mi ha fatto un grande regalo consentendomi di svolgere un programma parallelo con i suoi accenni, senza che me ne rendessi conto, in quegli anni decisivi. Facendomi credere che le cose che mi regalava lui le trovavo io.
Per esempio: sotto sotto ero convinto che Una storia vera di Luciano di Samosata fosse una mia scoperta. Quasi quasi l’avevo scritta io!
Mentre negli anni Settanta – mi si dice – la semiotica era di gran moda, poi, come succede, perché la gente non sta mai calma, la moda si è trasformata nel suo contrario . E a volte ho sentito parlare di Angelo Marchese con un tono di sufficienza. Magari da parte di gente che studia le date di nascita e di morte degli autori, o studia come si cucinava la polenta mentre quegli autori vivevano. Oppure gente che di un autore inglese dice: ma guarda un po’, si sente che è inglese. Eppure posso dire che in tutta la mia vita non ho più incontrato una personalità simile a quella di Angelo Marchese.
Da ragazzo non me ne rendevo conto, pensavo che tutti i teorici della letteratura fossero più o meno come lui. Oggi vorrei tornare indietro e dirgli che mi sono accorto della differenza.
Comunque: le sue lezioni mi confermarono, o mi lasciarono continuare a credere, nell’idea dell’esistenza di una lingua suprema, che sta sotto a tutte le lingue. E anche di una storia che sta sotto a tutte le storie, ma non ho mai capito qual è.
“Lo storione”, gli dissi una volta e lui non si adombrò.
Magari queste teorie di una lingua suprema o di una storia suprema possono essere sbagliate, ma quello che conta è la forza della visione che le muove. Del resto, l’ho già detto, non erano teorie di Angelo Marchese, ma lui mi permetteva di crederci.
Una mattina che avevo saltato la scuola me lo vidi a cento metri, in pieno centro.
Bisogna considerare che, nonostante i miei genitori fossero di larghe vedute, evitavo di dirgli quando saltavo la scuola: mi trovavo quindi in una situazione di clandestinità, come tutti i ragazzi normali quando saltano la scuola.
Fosse stato un altro professore mi sarei dato alla fuga, ma con lui non potevo, mi sembrava una mancanza di rispetto. Allora gli andai incontro e lo salutai.
Buongiorno, gli dissi semplicemente, senza spiegazioni.
Lui non mostrò alcuna sorpresa o scandalo, per il fatto di vedermi lì mentre avrei dovuto essere in classe a sentire i perversi ammaestramenti della professoressa Cini. Rispose al saluto e aggiunse:
La primavera è vicina, con sorriso che oggi mi appare vagamente enigmatico.
Non eravamo più un professore e un ragazzino che aveva saltato la scuola. Eravamo due gentiluomini che si incontravano a passeggio sul viale del tempo.
I gentiluomini hanno i loro taciti patti, e lui non parlò mai a nessuno del nostro incontro.
Quando ho cominciato il presente capitolo non pensavo affatto di scrivere di Angelo Marchese, ma questo non è un romanzo, te ne sarai accorto, è una specie di esperimento di rabdomanzia con le parole, durante il quale ho agganciato la sua mente, o la sua anima, dovunque sia. Più probabilmente è il professore che ha agganciato la mia, non per niente è un esperto in segni.
E per farlo non può che aver utilizzato la lingua suprema.