di Franco Ricciardiello
La ragazza che ero io si sfila il chip dalla presa neurale. Norberto la sta aspettando a braccia conserte; si è già scollegato da tempo, mentre lei si librava con il fly per le strade di Kigali, tagliando con le ali sottili l’odore di carne bruciata.
La ragazza rabbrividisce.
— Non so cosa ti stia succedendo — dice lui freddamente. È evidente che vorrebbe aggiungere molto di più.
— Non so lo neanche io — risponde lei, leggermente in colpa.
Ma la sua retina trattiene ancora il barbaglio duro dei machettes, le macchie colore vino dei baschi, i mucchi di stracci insanguinati dei corpi lungo i muri. Le sembra che, invece di essere archiviati in fondo ai tunnel di probabilità, gli avvenimenti del Ruanda siano in procinto di accadere, e che lei rischi di perderli se rimane qui nella casa di vacanze del padre di Norberto.
— Ti rimborserò i fly che uso — dice, e torna a proiettare l’indice luminoso sull’intonaco chiaro.
Norberto stringe i denti incredulo, trattiene l’ira, poi scuote il capo ed esce dal laboratorio. La ragazza ha appena il tempo di inserire il chip di collegamento.
* * *
Il fly si materializza alla periferia settentrionale di Kigali. Molti corpi sono già spariti dalle strade, ammucchiati sui camion dell’esercito o della guardia presidenziale, rovesciati nelle fosse comuni scavate come ferite nel tessuto urbano degradato: quei quartieri dove sono nati e cresciuti gli hooligans che forniscono i quadri intermedi del genocidio.
Ma adesso le stragi si sono spostate verso il centro città perché i guerriglieri del Fpr, il Front patriotique rwandais di Paul Kagame, sono arrivati a tappe forzate per dare manforte ai commilitoni già presenti nella capitale grazie agli accordi di pace di Arusha.
Il fly passa in mezzo ai guerriglieri: giovani alti e magri, neri come l’ebano, con pesanti anfibi ai piedi, figli di tutsi di seconda generazione rifugiati in Uganda a causa dei massacri degli anni Sessanta. Sono soldati esperti, eroi della guerra di liberazione che dopo la vittoria contro il feroce Idi Amin Dada hanno disertato in massa dall’esercito ugandese per tornare nel paese d’origine.
Oggi la gente di Kigali ha ritrovato il coraggio di scendere per strada, una volta accertato che gli inkotanyi, “i battitori” del Fpr non sono venuti a cercare vendetta. Ma tantissimi sono già scappati, terrorizzati dai moniti di Radio Mille Collines, a mano a mano che l’esercito nazionale si disperde davanti all’avanzata dei ribelli.
Seguo un gruppo di civili che fanno la spola avanti e indietro verso un campo alle spalle delle abitazioni, con una pezza di tela sul viso. I guerriglieri inkotanyi hanno requisito un’escavatrice e aperto una fossa comune ancora fresca. Preferisco non attivare i recettori olfattivi, ma posso mascherare il fly in mezzo a milioni di mosche che brulicano mentre una betoniera spruzza una quantità insufficiente di carne viva.
Impossibile stimare il numero dei corpi. Alcuni sono orribilmente mutilati, moltissimi sono nudi. A differenza del resto del paese, molti fortunati sono stati fucilati o uccisi con un colpo alla nuca, in ginocchio sull’orlo della fossa riaperta di fresco. Forse la capitale è l’unico luogo del Ruanda nel quale il genocidio si compie con armi da fuoco: altrove il protagonista è sempre il machette, al massimo pietre e bastone.
Ho bisogno di capire. Ho bisogno di comprendere questa furia omicida da parte di un popolo che i colonialisti belgi definivano “bonario e senza malizia”. Come è possibile che giovani padri di famiglia si siano all’improvviso messi a spaccare con le pietre il cranio di bambini di cinque anni? Questi contadini che si divertono ballando fino allo sfinimento per flirtare timidamente con le coetanee, che sfoderano sorrisi da dentifricio, come hanno potuto seviziare e stuprare a morte le figlie dei vicini? Radio Mille Collines non basta a spiegare, non bastano l’odio e la razza.
Io voglio crescere, e per crescere ho bisogno di spiegare a me stessa il Ruanda che rimane acquattato dentro di noi fino all’esplosione genocida. Deve esserci qualcos’altro; forse la paura: un terrore irrazionale e incontrollabile che spinge a uccidere prima di essere uccisi, e più morte c’è in giro più la paura della morte alimenta in un circolo vizioso la morte.
“I cani rognosi sono arrivati fra di noi” ringhia Radio Mille Collines, “sono arrivati fino a Kigali, gettando finalmente la maschera della pace. Uccidete tutti i loro sostenitori, così non ci sarà più nessuno a votare per loro alle elezioni. Uccidete gli scarafaggi! Uccidete…”
Ho paura anche io. Quello che è successo in Ruanda, la negazione definitiva del primo fra i diritti umani, il diritto alla vita, potrebbe succedere anche nel mio tempo, in Europa e ovunque.
L’Interahamwe è nascosta dentro ognuno di noi: uno scheletro nell’armadio, un’abiezione inconfessabile, un cancro.
* * *
C’è stato un tempo, nella vita della ragazza che ero io, nel quale la necessità di distinguersi dai suoi simili era così forte da portarla a interessarsi dei diritti dell’uomo. Neppure oggi, nel millennio dell’abbondanza, della prosperità, delle risorse finalmente sufficienti a disposizione di quattro abitanti su cinque, i diritti umani sono riconosciuti a tutti e dovunque: per la ragazza e per tanti altri ragazzi come lei, la rivendicazione della propria identità personale è passata attraverso una presa di coscienza che possa stagliarsi sullo sfondo indistinto della vita.
All’età in cui aveva questi pensieri, la ragazza percepiva il perseguimento della propria individualità come un discostarsi del soggetto se-stessa dallo sfondo impreciso del mondo. Solo con il riconoscimento di una prospettiva sullo sfondo, un universo di “altri” portatori di diritti inalienabili, la ragazza riusciva ad attribuire un senso al Tutto.
Ma quasi mai riusciamo a mantenerci rivoluzionari tutta la vita, altrimenti non ci sarebbero più rivoluzioni: anche gli occhi della ragazza si sono appannati, sedotti dalla bellezza e dalla carne, fino al giorno in cui si è seduta a fianco del tubo di lancio e ha scoperto che quella coscienza del “no” è semplicemente rimasta in letargo dentro di lei, chiusa in posizione fetale come un bambino scorticato vivo nelle strade di Kigali.
Si può vivere senza sapere nulla del Ruanda? Certamente si può, come si può vivere ignorando la seconda legge della termodinamica o la musica di Mozart. Si può vivere anche senza sapere nulla del mondo.
Ma la domanda giusta non è questa. La domanda è piuttosto: si può vivere bene senza sapere nulla del Ruanda? Si può vivere meglio ignorando Hitler, ignorando Pol Pot?
La ragazza sa che per crescere purtroppo è necessario soffrire, che il dolore fa diventare adulti più dell’amore. Allora, come si può vivere meglio senza il Ruanda, senza il bambino scorticato vivo nelle strade di Kigali? Il dolore fa crescere, il dolore rende migliori. Il dolore è anche Norberto che esce di casa, da solo, e si chiude la porta alle spalle.
La ragazza sceglie coordinate che si riferiscono a metà maggio e inserisce il microchip nella presa neurale.
* * *
La jeep avanza a fatica in mezzo ai pascoli e ai boschi; le piogge che hanno spappolato il manto stradale, costringono a ridurre la velocità. Non è semplice mantenere il fly all’interno dell’abitacolo ed evitare che i giornalisti belgi lo schiaccino credendolo una mosca.
Dopo diversi minuti, l’autista armato rallenta; la reporter di “Le Soir” si copre la bocca con il fazzoletto bagnato di colonia. Saltano a terra sotto la pioggia nei pressi di una chiesa bruciata. Quando vedono che i nuovi arrivati sono di razza bianca, vecchi e donne escono dagli alberi e implorano a braccia alzate.
— Cosa stanno dicendo? — domanda la reporter.
Sembra che questa povera gente abbia dimenticato il francese per la paura. L’autista cerca di tradurre dal kinyarwanda o dallo swahili, ma l’attenzione dei giornalisti adesso è attratta dalle file di corpi carbonizzati allineati davanti alla porta della chiesa.
— Sono stati gli abitanti delle fattorie vicine — traduce l’autista, nervoso. — Erano guidati da gente che veniva da fuori, uomini con il basco e camicie vivaci da tifosi di stadio. Hanno girato tutte le fattorie per trucidare il bestiame; tagliavano con il machette le zampe delle vacche sotto il ginocchio, e le lasciavano agonizzare in un lago di sangue.
Un operatore riprende tutto, ma i media occidentali trasmetteranno queste immagini?
— In Ruanda la gente non si è mai distinta fra hutu e tutsi — traduce ancora l’autista. — C’erano i contadini che lavoravano la terra con l’izuka, e i pastori che pascolavano l’inka, la vacca. Ai tempi dei padri dei nostri padri, il bestiame apparteneva ai tutsi per diritto divino. Un tempo anche il mwami, il re, possedeva un toro sacro nel cortile. Le bestie producevano poco latte ed erano troppo magre per dare abbastanza carne, allora i re emisero l’ibikingi e l’ubukonde, le leggi per limitare il numero dei figli. Ma poi sono arrivati i belgi e hanno detto che era poco cattolico, hanno abolito la legge e la popolazione è aumentata fino a che non c’era più da mangiare per nessuno. Non c’è un altro paese in Africa con così tanta gente sullo stesso fazzoletto di terra, 8 milioni di persone su un territorio più piccolo del Belgio.
Siamo a metà maggio, oltre un mese dopo l’attentato al Presidente. Il Ruanda è nell’anarchia più totale, il Fpr di Paul Kagame sta avanzano sulla capitale mentre l’esercito regolare si dissolve. I caschi blu dell’Onu stanno lasciando il paese senza avere tentato nulla per fermare il genocidio. I fiumi trasportano in Congo, in Uganda, in Tanzania migliaia di corpi torturati, mentre il comitato di crisi del colonnello Théoneste Bagosora, cugino di Agathe, la moglie del presidente Habyarimana, guida la logistica dello sterminio e il caos dell’esodo hutu di fronte all’inarrestabile avanzata dei ribelli.
— Hanno cercato rifugio nella chiesa — dice la giornalista belga, con la bocca e il naso coperti dal fazzoletto.
— In Ruanda sono tutti molto religiosi — spiega l’autista. — Ma la Chiesa ha sempre aiutato il governo. Prima dell’apertura democratica, nel ’92, i vescovi cattolici erano responsabili del MRDN per tutte le loro parrocchie.
Il MRDN è il partito unico di Juvenal Habyarimana. Il presidente abbattuto dal SAM-16 il mese scorso, fino a due anni fa era il Grande Fratello del Ruanda: delazione, sospetto, liste degli attivisti dei diritti umani erano all’ordine del giorno. Sotto la dittatura Habyarimana, ogni cittadino era obbligatoriamente un militante del MRDN; da dieci a cinquanta famiglie costituivano una cellula di partito, tutte le cellule di un comune eleggevano un consiglio comunale, il borgomastro era nominato dal partito. Le dieci prefetture del paese erano rette da un prefetto nominato dal comitato centrale del MRDN e affiancato da un barone membro dell’akazu del presidente. Il consiglio nazionale era composto da fanatici del partito, il comitato centrale dai pezzi grossi dell’akazu. Il Ruanda era una proprietà familiare di Agathe Habyarimana, la moglie del presidente.
La guerra civile e le pressioni internazionali hanno costretto il paese all’apertura democratica e agli accordi di pace; ma il missile all’aeroporto Grégoire Kayibanda ha interrotto il processo. Come non sospettare che l’attentato sia stato complottato dall’ala radicale dell’akazu?
— Domandagli cosa faranno adesso — dice la giornalista all’autista.
— Mam’selle, questi uomini parlano francese — risponde lui.
— Andremo a sud, verso la frontiera — risponde un giovane, mentre l’autonomia del fly si indebolisce.
— Tenetevi lontano dalle strade principali — dice la giornalista, commossa. — Abbiamo visto camion pieni di gente armata. Buona fortuna, di cuore.
E poi, appena si sono allontanati, lancia uno sguardo interrogativo alla loro guida.
— Mam’selle, non arriveranno mai in Burundi — risponde il nero impassibile.
Il cielo è ancora nuvoloso. Mi domando se il Ruanda veda mai il sole. Inserisco immediatamente un altro fly nel dispositivo di lancio
La giornalista belga sta piangendo.
Non mi aspettavo di ritrovare ancora lei, al termine del tunnel probabilistico. Le coordinate sul menu indicano una data di fine maggio e una località del nord, nella prefettura di Byumba, lungo la direttrice offensiva del Fpr.
Il quantum leap precedente mi aveva portata a sud di Kigali; evidentemente, la troupe è riparata in Tanzania per attraversare il confine più a nord, aggirando gli scontri armati intorno alla capitale.
La giornalista indossa pantaloni kaki da trekking e una polo di tessuto tecnico. Gli inkotanyi, i battitori del Front patriotique, hanno riaperto una fossa comune lasciata dall’Interahamwe in ritirata: trenta cadaveri di bambini duramente seviziati.
L’autista, il medesimo hutu del Burundi che aveva accompagnato la troupe nel precedente viaggio, vomita all’ingresso della scuola.
Gli inkotanyi del Front patriotique hanno occhi scuri avvezzi agli orrori. I loro genitori sono fuggiti in Uganda subito dopo l’indipendenza, quando i belgi, nell’atto di abbandonare la colonia, improvvisamente hanno scoperto che i loro tradizionali alleati tutsi erano prepotenti e feudali oppressori del popolino hutu. Il Fpr ha cominciato a muovere verso la capitale immediatamente dopo l’attentato contro Habyarimana, respingendo l’esercito dalle roccaforti del partito unico nel nord del Ruanda.
— Sono stati i militari della Rete Zero — traduce la guida asciugandosi la bocca sulla manica della camicia. — Sono arrivati dalle caserme di Kigali e di Kibungo. Hanno armato di machettes i facinorosi hutu, banditi di strada e disoccupati di periferia. Hanno circondato la scuola e separato in tutte le classi i bambini tutsi per portarli nella mensa. Quando sono arrivati i genitori, pazzi di paura, gli amasazu della Rete Zero li hanno tenuti lontani a colpi di fucile. I bambini hanno urlato fino a sera sotto l’immagine del cuore di Gesù, persino i genitori hutu avevano paura. Quando gli amasazu se ne sono tornati in caserma i bambini erano tutti morti, violentati e seviziati con i coltelli.
Non tutti i corpi riesumati sono interi. I genitori non sono neppure riusciti a disseppellirli, perché hanno dovuto nascondersi fino all’arrivo del Fpr.
La giornalista continua a piangere. La nebbia è sempre in agguato al nord; Radio Mille Collines ripete “Uccidete! Uccidete!”. In confronto al sud, questa prefettura ha avuto poche vittime, poco più di 7 mila morti: ci troviamo nel feudo elettorale del presidente e del MRDN, le bande dell’Interahamwe hanno preferito altri obiettivi, e i guerriglieri del Front patriotique sono arrivati velocemente cacciando l’Armée. Ma i fiumi sono pieni di cadaveri che fluttuano come tronchi, scendono a valle da sud; la croce rossa in Uganda ha contato una media di cento corpi ogni ora lungo il solo fiume Kagera. Galleggiano in superficie, urtano le radici degli alberi sulle rive, si raccolgono in isole nelle anse: uomini e donne denudati, legati con corde di iuta e selvaggiamente torturati; i contadini del Tanganika li trovano spiaggiati come mostri fluviali, semispolpati dai pesci lungo tutto il corso dei fiumi fino al lago Vittoria dove correnti di superficie li corrompono lentamente, trasportandoli in percorsi casuali fino alla sponda settentrionale. Gli attivisti dei movimenti per i diritti umani in Uganda e la croce rossa internazionale hanno sottoposto a trattamento chimico 40 mila cadaveri, e chissà quanti altri giacciono nel letto del Nyabarongo, dell’Akanyaru, del lago Kivu, fatti a pezzi dal machette, gonfiati dai batteri, divorati dai pesci; forse il Kagera ha trasportato senza fretta a valle, verso l’immenso lago a ovest del Kilimangiaro, tutti i 180 mila morti di Kibungo: un quarto degli abitanti della prefettura a osservare la nebbia con la cornea opacizzata dal rigor mortis, l’odore degli animali da pascolo nelle narici, gli ultimi processi automatici del pensiero che richiamano alla memoria il ciclo secolare del caffè nei campi, i giochi dei bambini con il cerchio e l’altalena, la foschia bassa sul fiume, il tramonto vulcanico sulle mille colline.
“Uccidete! Uccidete!” La giornalista trova il coraggio di rialzarsi, segue gli operatori alla jeep. “Conoscete da sempre gli elementi estranei alla vostra cellula” abbaia Radio Mille Collines. “Chiunque, hutu o tutsi, si sia macchiato di connivenza con gli scarafaggi deve essere giustiziato senza processo. Uccidete gli scarafaggi. Uccidete chiunque abbia preso in moglie una scarafaggio, chi ha una concubina o una segretaria scarafaggio. Uccidete chiunque fa affari con gli scarafaggi. Uccidete chi fa prestiti agli scarafaggi o chi gli concede licenze. Uccidete!”
Questo lavaggio del cervello cerca di cancellare la vera differenziazione del Ruanda, la rivalità geografica: i bakiga, la gente del nord, contro i banyanduga, la gente del sud; il partito unico contro l’opposizione, l’akazu settentrionale contro la vecchia guardia coloniale. Le differenze fra tutsi e hutu sono un’invenzione dei belgi, prima del ventesimo secolo qui esistevano solo l’aristocrazia feudale e i contadini, tutti figli del mitico Gihanga, padre di Gahutu e di Gatutsi; sono stati i bianchi a istituire la carta d’immatricolazione nel 1945, quando per la prima volta è comparsa l’etnia come criterio di differenziazione.
La giornalista sale sul predellino della jeep mentre la visione del fly peggiora. Rabbrividisco e mi ritrovo nel mio corpo, al buio del laboratorio.
* * *
La ragazza che ero io osserva con tenerezza il mazzetto di fiori di campo che Norberto ha raccolto durante la sua passeggiata.
— Fuori è una giornata bellissima — dice lui con un sorriso rassegnato.
La ragazza sente lentamente sciogliersi qualcosa. Questi fiorellini hanno il profumo dell’infanzia, un buon odore di famiglia.
Si sporge sul tavolino per baciarlo sulle labbra. Norberto chiude gli occhi per la commozione, la sua mano si avvicina alla camicetta di lei, slacciata fino al terzo bottone.
Lei trattiene il fiato. Si ritrovano in piedi, abbracciati: perdono l’equilibrio, si appoggiano al muro e ridono.
— Scusa per prima — sussurra lui contro il suo orecchio.
— Sono io che devo chiedere scusa — risponde lei, e gli lascia mano libera sotto la camicetta.
Il dolore interno si stempera nel naufragio dei sensi. Le sembra di vedere con la pelle, di ascoltare con gli occhi, di gustare il sapore di Norberto con gli orecchi.
Si risveglia piegata in due dentro l’angolo del corpo di lui, sdraiati su una coperta di cotone sul pavimento, mentre le ombre si allungano. Rimane qualche minuto a seguire le evoluzioni del pulviscolo nei raggi rivelatori del sole; le ricorda il principio di indeterminazione, e poi l’interferenza degli elettroni e infine il tunnel quantistico attraverso lo spaziotempo, il quantum leap. E la sua mente torna sempre laggiù, al mondo di sangue oltre la parete del laboratorio. Solleva con delicatezza le mani di Norberto, le slaccia dal proprio grembo e rotola fuori per raccogliere i vestiti.
La luce che cade ad angolo acuto sul vetro del laboratorio riflette la sua immagine spettinata, “la vertigine bionda” la definisce Norberto. Ecco che ritorna il malessere sordo, le sembra di sentire il richiamo urlato del Ruanda dal pozzo di interferenza del tempo, un appello sconvolgente al quale non può resistere.
* * *
Quando a giugno i battitori del Front patriotique arrivano a Kibuye, sulle rive del lago Kivu, l’Interahamwe si è già ritirata verso nord. I parà francesi sono atterrati all’aeroporto internazionale, per evacuare con un ponte aereo centinaia di hutu feriti; i belgi si tengono in disparte, dopo l’assassinio di dieci caschi blu del Minuar che ha seguito l’attentato al presidente, e gli altri contingenti Onu hanno lasciato il paese durante l’orgia dei massacri.
I francesi hanno proclamato una zona di sicurezza a nordovest, nelle prefetture al confine con il Congo: Gisenyi e Rugengeri, guarda caso feudi del partito del presidente. Ma nella zona di sicurezza hanno trovato rifugio l’Interahamwe, i militari della Rete Zero e un milione di hutu che temono ritorsioni dopo la vittoria del Front.
Sollevo il fly e mi distacco di qualche metro dal tetto della chiesa dove si è materializzato. Il paesaggio è bellissimo: il Kivu si estende a perdita d’occhio, simile a un immenso lago alpino nel quale i vulcani della Rift Valley si sbriciolano in una linea frattale di fiordi e lingue di roccia. Quassù fa freddo, e ora è tutto silenzio dove fino a pochi giorni fa gli hooligans dell’Interahamwe spingevano i contadini a massacrare i loro vicini pastori. Ci sono tracce di sangue davanti alla porta della chiesa, sui banchi scheggiati dal machette, sull’altare di pietra scolpito da artigiani locali.
Non riesco a non pensare a cosa è successo quando gli hooligans sono arrivati da Kigali su lunghe code di camion militari della Rete Zero. Il comitato di crisi del colonnello Bagosora ha progettato con efficienza spaventosa la logistica del genocidio: tutti quei machettes importati dalla Cina, dall’Egitto, dall’Arabia saudita e nascosti nelle case dei fanatici del MRDN e della CDR, la Coalizione per la difesa della repubblica, pronti per l’ora zero; l’Interahamwe che percorre le campagne, Radio Mille Collines che martella i cervelli, Uccidete! Uccidete!, il machette che si alza e cala, i ragazzi con le polo a colori vivaci che abbaiano ordini, la caccia all’uomo nei campi di sorgo, giovani con la croce di Gesù al collo che amputano le membra di altri giovani con la stessa croce al collo, che parlano la stessa lingua, che da secoli dividono la stessa cultura e la stessa economia di sussistenza, gli spruzzi di sangue inchiodati sulle pareti della chiesa dalle urla di paura, il crocefisso che alza gli occhi al cielo per l’orrore, le donne sodomizzate sul pavimento dietro l’altare, i bambini sventrati e impalati nelle piantagioni di manioca, da aprile a giugno, un’agonia lunghissima e spaventosa, un tributo assurdo, 265 mila morti nella prefettura completamente circondata dagli assassini scatenati l’Interahamwe, che si ritira nella zona di sicurezza dopo avere terrorizzato, braccato, seviziato, etnocidato più di metà degli abitanti della regione sul lago ai piedi dei vulcani.
E allora come difendersi, come non perdere la ragione? Due mesi di orrori indicibili per questa gente di montagna lontana dall’asse di rivalità nord/sud. Eppure oggi sui Monti della Luna un abitante su due è sepolto nelle fosse comuni o giace sul fondo del Kivu.
Gli inkotanyi del Front non riescono a farsene una ragione. Gli scampati raccontano delle colonne del terrore della Rete Zero: intellettuali estremisti dei centri abitati, nostalgici del partito unico, commando di militari in tuta mimetica arrivati dalle caserme di Kigali per risolvere definitivamente il conflitto hutu/tutsi inventato da loro stessi, una guerra civile di lunga durata che in realtà è un atroce falso storico. Questi terroristi di stato hanno requisito gli hutu della regione per battere le montagne e sterminare gli scarafaggi in un lago di sangue che ha tinto il Kivu di rosso. Tutti quei poveri capri espiatori dell’Interahamwe, contadini hutu con machettes acquistati in Egitto o in Cina, è come se gli avessero anestetizzato la facoltà di provare empatia: un’iniezione di intolleranza nella corteccia prefrontale destra e non ti rendi più conto dell’orrore, non senti il male di tagliare a pezzi la carne viva, non vedi il sangue di uomini e donne che scorre insieme a quello delle capre sgozzate, mescolato al sangue di Gesù lungo le colline di questo cattolicissimo Ruanda.
* * *
La ragazza che ero io si sveglia nel cuore della notte, senza alcuna ragione apparente. Non c’è un suono nella costruzione, neppure il sibilo incantato del condizionamento.
Le sembra quasi di sentire il tempo che gocciola nel silenzio, come se avesse lasciato aperto il rubinetto quantistico dei tubi di lancio. Da quando è arrivata alla casa vacanze di Norberto, stamattina, ha passato quasi metà del suo tempo cosciente novanta anni indietro nel passato: e ogni volta che spara un fly nella giugulare dell’universo, è come una dose di anestetico nel cuore.
Le sembra di avere esaurito la compassione, di avere raggiunto uno stadio più alto di assuefazione alla sofferenza. Vuota, distaccata, come l’altera protagonista di un film espressionista.
“Non riuscirò mai più a dormire come prima” pensa, e non riesce a capacitarsi di come la vita possa cambiare dopo un incontro casuale. Un giorno nella vita ti svegli più depressa del solito, come se un virus ti stesse riprogrammando di nascosto la forza di volontà; vedi solo distanti impronte del mondo, ombre nella caverna di Platone, e non riesci a dare un senso al tutto. Esci per visitare il museo di arte postmoderna, sperando di ritrovare un equilibrio nella Forma, e incontri un ragazzo che ti guarda alla luce artificiale delle installazioni: ha occhi verdi e mani grandi con le dita distanziate, da pianista, ti invita per un caffè al cardamomo e poi per un fine settimana nella casa di vacanze di suo padre, sotto la verticale di scisto e granito delle montagne; e dal momento in cui entri in casa sua, con quel laboratorio in mezzo ai salici piangenti, la tua vita cambia in una direzione che non potevi nemmeno immaginare fino a un secondo prima.
La ragazza immagina il padre di Norberto seduto davanti al tubo di resina del pozzo quantistico, le immagini del passato che gli penetrano nel cervello attraverso la presa dietro l’orecchio, i muscoli che rabbrividiscono involontariamente per l’orrore. L’orrore.
La ragazza che ero io piange come la giornalista belga, seduta al buio mentre guarda le ombre di interferenza che si allungano sul pavimento della camera. Il respiro regolare, tranquillizzante di Norberto si altera impercettibilmente, poi lui apre gli occhi, sdraiato sulla coperta gettata in terra, e la sente piangere. Qualcosa si spezza dentro di lui.
Qualche minuto dopo la ragazza è di nuovo seduta nel laboratorio.
* * *
Luglio. Il Fpr ha raggiunto anche la prefettura di Butare, che con il nome di Astrida era la principale città al tempo dei colonizzatori belgi, per scoprire una realtà allucinante.
A mano a mano che i guerriglieri scendevano a sud, l’Interahamwe stringeva la vite del terrore sulla prefettura. I campi di soia e tabacco sono pieni di cadaveri insepolti, le mosche hanno invaso le piantagioni di tè e gli orti di patate concimati a carne umana. Mentre il comitato di crisi si sbriciolava e i ragazzini in armi dell’esercito disertavano, terrorizzati dall’eccidio e dall’avanzata del Front patriotique, il governo interinale proseguiva con meticolosa efficacia lo sterminio nel sud del paese; dai microfoni di Radio Mille Collines hanno incitato i loro concittadini a “finire il lavoro” e aiutare l’Interahamwe e gli squadroni della morte della Rete Zero.
Il governo interinale di Jean Kambanda, membro dell’akazu, e di Théodore Sindikubwabo ha avuto mano libera mentre la guerra civile infuriava a nord. In nessuna prefettura del Ruanda l’etnocidio è stato così radicale: 80 mila morti nel solo comune di Maraba, più di 40 mila a Runyinya, più di 380 mila massacrati nell’intera prefettura, la più devastata dell’intero sud martirizzato dal genocidio. L’Interahamwe ha trucidato i tutsi, gli intellettuali, gli oppositori, i partigiani dei diritti umani, i coniugi di matrimoni misti, chi aveva rapporti economici con i tutsi e poi mentre il Front si avvicinava anche gli hutu moderati e perfino coloro che non volevano partecipare al genocidio. Oggi le miniere di tungsteno e cassiterite sono fosse a cielo aperto, i magazzini del caffè obitori allucinanti, le piantagioni di piretro cimiteri di ossa sotto la luna, il fiume Kagera un tapis roulant di cadaveri mutilati.
Il fly si libra come una mosca nelle stanze dell’ospedale psichiatrico di Butare. Quando i caschi blu hanno deciso di evacuare perché la situazione era insostenibile, è arrivata l’Interahamwe. Gli hooligans si aggiravano da una settimana negli orti di fagioli, da dove sparavano con armi da fuoco contro le finestre del nosocomio maschile; appena le jeep del Minuar si sono allontanate lungo la strada devastata dalle piogge, che in Ruanda cadono da marzo a maggio, i giovani con il basco hanno circondato gli edifici e trucidato polli e capre mentre gli infermieri fuggivano. Hanno torturato i pazienti per dieci giorni e dieci notti prima di assassinarli. Le pareti intorno al fly sono incrostate di sangue fino a un metro di altezza, malgrado gli inkotanyi abbiano costretto i prigionieri a lavare i pavimenti: gli hooligans hanno obbligato i minorati mentali a sdraiarsi a terra, dove li hanno violentati per giorni e giorni, seviziati in piccoli gruppi con i coltelli, sodomizzati con manganelli e bastoni, mentre le urla strazianti staccavano l’intonaco dalle pareti, infine li hanno massacrati in mezzo al sangue, allo sperma e alla materia fecale che rendevano viscide le mattonelle.
Oggi Kigali e Butare sono occupate dal Front. L’Interahamwe si è ritirata in Congo: sono fuggiti sui camion dell’Armée requisiti dalla Rete Zero, sotto la pioggia, lasciando dietro di sé il più spaventoso genocidio della storia, 1 milione e 200 mila morti, senza contare i corpi gettati nei fiumi e nei laghi: Nyabarongo, Mukungwa, Mwogo, Kivu, Muwazi, forse 1 milione e mezzo di uomini, donne e bambini massacrati su meno di 8 milioni di abitanti del Ruanda.
In questo secolo assuefatto al genocidio, i giornali in Europa e in America diranno che il Ruanda è storia di negri, che i popoli africani non sono abituati alla democrazia, alla gestione dei conflitti sociali, all’autogoverno dopo il ritiro delle potenze coloniali; forse qualcuno si stupirà persino che nell’Africa nera esista più di una razza, tutti saranno d’accordo sull’inferiorità etica dei neri. Guardando la tv sentiranno la notizia del milione e mezzo di morti (una cifra difficile da immaginare: 15 mila assassinati al giorno per cento giorni di fila, la mente fatica a comprendere) e attribuiranno la colpa alla proverbiale inciviltà dei neri.
La visione si dissolve in una neve di pixel anarchici, mentre il fly si decompone come programmato all’altra estremità del tunnel probabilistico.
Mi ritrovo nel laboratorio di nuovo attraversato dalle lame di luce del giorno; nelle ultime 24 ore ho praticamente vissuto metà del tempo nel Ruanda di un secolo fa. Barcollo fuori dalla stanza, sconvolta dalla nausea; fuori dalla finestra, vedo che Norberto è seduto sul ponte di pietra che scavalca il piccolo ruscello fra i salici.
La ragazza che ero io si sarebbe probabilmente rammaricata di questa distanza fra noi; ma adesso, dopo il Ruanda, dopo l’Interahamwe, io sono io e quella ragazza è un’altra cosa. E quella che adesso sono io ha paura, ho paura, perché ho visto una popolazione pacifica trasformarsi in un irrazionale strumento di sterminio, e non mi fido più di nessuno. Neppure di me stessa.
Sento un cancro crescermi dentro. Non attacca le cellule del mio organismo, ma la mia sensibilità per i diritti umani. Lo sento acquattato dentro di me, il pensiero folle, il terrore irrazionale della morte che porta a togliere la vita agli altri.
Norberto tira sassi nel ruscello. Senz’altro desidera qualcosa in cui credere, come i fanatici hutu, come i cattolici o come la sottoscritta. Raggiungo in punta di piedi la mia giacchetta di goretex e sfilo dalla tasca lo stick del rossetto.
La parete di vetro del laboratorio sembra fatta apposta per scriverci. La traccia del rossetto è compatta, opaca; ruoto la base dello stick mentre la pasta dura si consuma rapidamente.
Con il sangue fino alla cintura, qualche volta
con il sangue fino all’orlo della bocca,
sto
avanzando
lentamente, con il sangue fino al bordo delle labbra,
qualche volta,
sto
avanzando sopra questa vecchia terra, sopra
la terra affogata nel sangue,
sto
avanzando lentamente, affondando le braccia
nel sangue,
qualche
volta ingoiando sangue
Da dove ho tirato fuori questi versi? L’università? So che si riferiscono alla guerra in Europa, l’orrore dello sterminio di massa non è un’esclusiva del terzo mondo. Poi sento la pelle d’oca: ricordo che la poesia ha un titolo in spagnolo: Crecida, “cresciuta”.
Il rossetto termina con l’ultimo verso:
Porto una rosa di sangue nelle mani
insanguinate. Perché non c’è altro
che sangue,
e una orrenda sete
gridando in mezzo al sangue.
Come Dio, anch’io da oggi passerò le mie giornate altrove, ma la notte tornerò a dormire in Ruanda.
La traduzione della poesia di Blas de Otero è opera dell’autore