di Saverio Fattori
Tutti i capitoli di “Cattedrale”
Nel pomeriggio ho visto il Frank offrire caffè e sigarette come un soldato americano nel dopoguerra italico e straccione. Ho visto il giovane capo branco strusciato dalle migliori femmine, tutte in temperatura da atto di riproduzione, sento i loro ormoni nell’aria. Anche i facchini della cooperativa gli rendono omaggio per ragioni a me sconosciute, non dovrebbe importargli nulla del miracolo della macchina di collaudo. Sono uomini rudi, padri di famiglia, senza grilli per la testa. Non dovrebbero avere simpatia per un ventenne ornato da quattro orecchini per lobo, dedito alle droghe sintetiche e alla demolizione di auto nel fine settimana.
Con un paio di sberle sincronizzate potrei stracciargli le orecchie, sentire le sue urla incredule, vedere il sangue sul colletto della camicia. Dovrei scegliere un gesto definitivo e dignitoso, morire di morte aziendale violenta, non crepare lentamente nel letto cagandomi nel pannolone. Il gesto dovrebbe valermi un licenziamento in tronco e una denuncia penale. Decido invece di ficcarmi in bagno prima del suono della sirena per un tiro di eroina, ma un piede mi impedisce la chiusura della porta.
– Mi offri l’ammazzacaffè? Prossima volta pago io. La uso anch’io, ma la fumo nella stagnola. Non fare quella faccia, con me puoi giocare a carte scoperte.
– Siete degli idioti. Va sparata in vena.
– Ma tu la tiri, hai le pupille piccole e le braccia pulite, quelli come te predicano bene… i soliti comunisti del cazzo.
– Non sono cazzi tuoi. Pensavo che le teste di merde come te andassero a pastiglie e cocaina.
– Ma bisogna pure dormire qualche ora. Riconosco che non è male, ma per agire serve altro, devi essere più che lucido.
– Per sabotare una strumentazione di collaudo.
– Esatto vecchio, bell’esempio.
Il Frank toglie il piede, la porta sbatte violentemente e io metto il chiavistello, è entrato qualcuno in bagno. Piscio e basta. Oggi come non mai la roba mi sembra ammissione di debolezza, più che di resistenza, e poi è suonata la sirena. Il mio compare è paonazzo, lui mangia a casa, non escludo pasteggi a vino. Evadiamo una commessa di kit tra i più rognosi, la scatola è pesante, composta da molti particolari, sbagliare dimenticandosi di inserire qualcosa nell’imballo sarebbe facile. Dobbiamo datare e firmare i fogli della distinta, eventuali errori rilevati dal cliente non cadono nel nulla. Si riesce a stabilire chi ha sbagliato, il cartaceo delle distinte viene archiviato, i richiami possono arrivare postumi, anche dopo mesi. Invece lavoriamo sincronizzati, veloci e precisi, le vene dei miei avambracci sono in evidenza, l’intesa con il mio collega è magica e non ha bisogno di parole. È l’estasi produttiva. In fin dei conti siamo padani anche noi. Colgo l’ombra del kapetto che scorre alle mie spalle, deluso di tanta efficienza. Poi ci ripensa e torna.
– Ale, le cuffie.
– Che hanno?
– Le cuffiette della radio. Toglile.
– È uno scherzo?
– Oggi è passato il capo dei Servizi Generali e ti ha visto. È vietato dalle norme antinfortunistica.
– Sono su Candid Camera?
– Vedi tu. Tra dieci minuti ripasso e ti voglio vedere senza orecchini.
Hanno deciso di farmi uscire fuori di testa. Si sono riuniti e stanno iniziando una lenta strategia della tensione. Sono ignoranti ma non stupidi. Tutti sanno quanto sia vitale astrarmi dalla Cattedrale con l’mp3. Mi pento di averlo ribadito più volte di fronte a vari interlocutori, anche gente poco fidata. Devo parlare meno. Non devo parlare. Vivo nella paranoia e questo mi salva. Ammettere che sono un inutile pulviscolo sugli ingranaggi della Cattedrale sarebbe la morte. La verità è che il minchione a capo dei Servizi non sa nemmeno come mi chiamo, la verità è che per giustificare il suo grosso stipendio deve imporre piccole regole previste dalla normativa 626 sulla Sicurezza e solo oggi si è accorto delle mie cuffiette. La verità è che ha motivo di temere per il suo posto di lavoro almeno quanto me. Ha visto colleghi sparire nel quadro di ridimensionamenti del personale che hanno coinvolto esponenti della borghesia medio-alta. Lo vedo armeggiare fin dalle sette del mattino in ufficio con la porta aperta sul corridoio bianco, spesso si trattiene fino alle sette di sera, la luce del video illumina il suo terrore. Simula impegni professionali oppressivi per urgenza e quantità. Di recente le morti bianche sono risalite di gradimento nei sommari dei telegiornali, rafforzando la posizione professionale dell’omino. Di ritorno dalla missione alla linea Ferrari avrà segnalato il misero caso di una bestia all’Imballo con le cuffiette proibite. Il lavoro sporco è stato affidato al kapetto che non chiede nulla di meglio che rompere il cazzo a un asociale come me.
– Fregatene delle cuffiette. Devi stare dentro al gioco, devi sporcarti. Come ho fatto io stamattina, devi rischiare.
Il Frank è di nuovo alla mie spalle. I mulettisti non fanno davvero un cazzo, su otto ore ne lavorano due, il Frank forse nemmeno una. Realizzo che sono andato a pisciare due volte e non mi è passato per il cervello di tirare fuori la bustina di roba. Mi sono concentrato sull’urina, scura, molto torbida, schiumosa. Piscio Guinness e non ho intenzione di rivolgermi a un medico, né di fare esami clinici.
– In che modo? Non ci capisco un cazzo di macchine. Per sabotarla avrei dovuto prenderlo a martellate e mi avrebbero beccato.
– La tecnologia è la mia parte. Il punto è che i nemici devi fotterli, devi guadagnarti la loro fiducia. Poi colpisci. I nemici non devi ignorarli con le cuffiette e le medicine, o saranno loro a incularti.
Parliamo liberamente a voce alta. Due dell’Intelligence di questo Building hanno già fatto due passaggi molto radenti, un paio di voli di perlustrazione, hanno sgranato gli occhi, ma non riescono a decifrare la situazione. Nemmeno io del resto. Il Frank oggi pomeriggio appare energico e rilassato, la chimica farmaceutica fa miracoli. Il mio compare decide di sparire in bagno, tanto siamo in netto anticipo, stiamo finendo tutte le distinte di giornata e sono solo le quattro e mezza.
– Il mio collega ha mangiato la foglia. Dovresti stare più attento.
– Più che mangiare il tuo collega beve. È il pazzo del reparto. E tu sei sulla stessa strada, non è un caso che ti hanno messo con lui a fare il lavoro più infame. Ripigliati.
– Ma tu che cazzo vuoi da me?
– Sei la mia missione, la mia buona azione, il compito per le vacanze. E forse mi servi. Insieme qua dentro ci possiamo divertire, ma devi svegliarti. Non vedi che sono tutte larve, esseri inutili, ho solo il vomito, mi fanno schifo tutti.
– Anche le tre fichette di stamattina?
– Ti piacciono quelle tre puttanelle? Ok, saranno il tuo bottino di guerra, ti accontenti di poco. Una poi l’ho già scopata, niente di particolare. Vendevo la coca al suo fidanzato, a lui facevo sempre molto bene, una specie di risarcimento.
– Ancora non capisco…
– Non ho ancora un piano preciso, non so come utilizzarti. So solo che tu la pensi come me. Disprezzi tutti.
– Non voglio rotture di palle. Voglio solo che questi figli di puttana continuino a pagare regolare ogni mese. Ho bisogno di pagare il mutuo, cose così.
– Sbagli, queste sono giustificazioni alla merda che sei diventato.
– Ti stacco la testa.
– Guardati. Non era meglio finire con una siringa piantata nel braccio vent’anni fa?
Il mio compare è riapparso giusto per sentire l’ultima frase. Mi guarda, sembra aspettare un mio cenno per colpire. La sua muscolatura non è definita, ha il ventre da bevitore di birra, ma è sui novanta chili, le mani a badile. Il Frank ha la struttura esile, a cucchiaio, come piace alle donne, una magrezza spigolosa e avvolgente al tempo stesso. È alto, ma se lo prendiamo in due con la rabbia da perdenti che abbiamo, gli asportiamo le costole una a una e ce le mangiamo nella tana. Ma non basterebbe. Il Frank quando parla scuote i nervi. Suo padre era un coglione, non ho messo in conto che la genia possa migliorare. Non molla.
– Continua a tenerti tutto quell’odio dentro senza reagire. È così che vengono i cancheri.
La pubblicazione di “Cattedrale” riprenderà a fine agosto