[Pubblichiamo un estratto dal bel romanzo Il Tango dell’Angelo Perduto, una storia nera che riporta ai tempi della dittatura argentina, a una Buenos Aires da affrontare con il coraggio dei reduci, alla ricerca senza fine di un’identità solo apparentemente “desapacida”. Il libro di Gianpaolo Borghini, edito da La riflessione, è acquistabile a 12 euro qui]
[…] Mai come oggi ho benedetto quel grido stridente che mi ha sradicato dal 1978, da quell’incubo reale come la vita. Mi ha già visitato tante volte ormai, ma da molto tempo non aveva più avuto il coraggio di presentarsi. Mi sento come un viaggiatore nel tempo, la cui umanità si è appena scontrata direttamente con un orrore del passato: nessun libro o immagine potrà mai rendere la realtà di un olocausto. Niente è come averlo vissuto. Quei sogni mi hanno costretto a ripercorrere ogni volta quegli avvenimenti sciagurati come si stessero realizzando di nuovo, in una spirale della memoria dalla quale è impossibile liberarmi.
Nemmeno i familiari miasmi delle industrie chimiche, che filtrano da una finestra aperta del mio solitario bilocale, riescono a riportarmi subito nell’anno in cui so di vivere, a restituirmi veri e attendibili tutti i ricordi che si sono stratificati dal giardinetto di Buenos Aires in poi, come uno spesso muro di cinta: la fuga dall’Argentina, gli anni difficili a Ferrara, la laurea in medicina, l’impiego al pronto soccorso dell’ospedale.
Ripensandoci, cercando di allontanarmi il più possibile dalle urgenze dell’inconscio, quel muro non mi appare così solido e maestoso come credevo che fosse. Lo sento pieno di macchie, in cui l’intonaco si è scrostato. Percorso da crepe vistose e preoccupanti che minano tutta la struttura: un sostegno al quale può essere pericoloso appoggiarsi.
Soltanto la doccia, il caffè e la prima sigaretta della giornata riescono a farmi emergere quasi del tutto dalla violenta fase onirica. Mi rimane soltanto qualcosa nelle ossa, un’umidità di vita mal vissuta, un’amarezza profonda difficile da scacciare. Mai avrei pensato che il presentimento sulla rivoluzione del mio futuro, che si era presentato così evidente quella sera da Jorge, mi avrebbe portato dove sono.
Quasi a nessuno è dato di rivivere parti della propria vita passata in modo così verosimile e coinvolgente, ma nella loro rarità sono sempre quelle più indecenti a presentarsi; ci rinuncerei con tutto me stesso, se potessi.
Stamattina decido di lasciare l’anima di Carlos Gardel dentro il dischetto argentato che la preserva; da un po’, da quando ascoltarlo non mi fa più scendere le lacrime, lo uso come sfondo delle mie mattine, mentre mi preparo per l’ospedale. Avere della musica che riempie l’aria solitaria che mi circonda, mi aiuta a non rendermi conto che sono solo e che sempre lo sono stato in questa casa. Il Tango è una delle poche concessioni che ho fatto all’Argentina nella mia esistenza, ma Gardel stamattina no! Sento che devo ripristinare la distanza con la Buenos Aires della memoria e lui, così dolce e appassionato, può solo contribuire a ripresentarmela brutalmente davanti.
Uscendo noto la targa sulla porta della mia vicina di pianerottolo: La Maga, come fosse la prima volta che la vedo. Nauseato come sono, quel disonesto invito alle predizioni garantite che dovrebbero squarciare le tenebre dell’esistenza, mi disturba enormemente. Ma non ho il tempo di pensarci troppo e archivio il mio disagio in quella zona della mente deputata alla sepoltura dei pensieri malevoli.
Arrivo in ospedale con quei dieci minuti di anticipo che mi consentono di abituarmi all’odore del disinfettante: tanti anni di lavoro non mi hanno consentito di assuefarmi. Per qualche momento mi raschia in gola e poi basta, gli ammalati e le loro patologie prendono il sopravvento. La verità è che, in qualche modo, anche quell’odore mi riporta indietro, a casa: l’olfatto è stato il primo senso ad essere colpito quando, da studente del terzo anno, sono entrato in un reparto ospedaliero per imparare come si comporta un medico in corsia. Non era la prima volta che andavo in un ospedale, ma era la prima che lo facevo con il camice bianco, leggendo nello sguardo dei degenti la speranza che le mie mani inesperte non toccassero proprio loro; sapendo, da qualche parte dentro di me, che non ne sarei uscito mai più.
Un’ambulanza, la prima del turno, arriva con la sirena istericamente lanciata e si ferma nel tunnel coperto del pronto soccorso. Normalmente, dall’atteggiamento dell’autista, si comprende il grado di gravità della persona trasportata: in questo caso, più che di un medico, sembra esserci bisogno di un prete: uno di quegli amorevoli sacerdoti da ospedale, che adempiono alla loro missione impartendo l’estrema unzione passando da un catorcio umano all’altro.
La condizione della ragazza cinghiata sul lettino appare subito disperata: è stata ripescata dal Po da una coppietta clandestina che pretende disperatamente l’anonimato. Dove trovano l’energia due persone per fare certe cose a quell’ora della mattina è per me un mistero assoluto.
Cerco di operare una prima, quanto sommaria diagnosi, per indirizzarla subito alle cure più opportune: “La ragazza è in coma e non reagisce ad alcuno stimolo esterno”, questa è la mia prima annotazione sulla sua cartella. Il campo del nome rimarrà vuoto, è vestita di pochi stracci e non ha alcun documento addosso. Fortunatamente respira senza l’ausilio di macchine, ma non so per quanto continuerà a farlo. Oltre ai numerosissimi segni che le ricoprono quasi tutta la cute e alla probabile frattura di entrambe le gambe, l’aspetto che mi preoccupa di più è lo stato di ipotermia derivante dalle ore di bagno nelle acque limacciose e inquinate del glorioso fiume cittadino.
Distratto dall’enorme delicatezza delle decisioni che devo prendere in pochi secondi, non me ne accorgo subito e l’eventualità mi balza solidamente davanti solo quando due portantini me la stanno portando via, per correre verso la terapia intensiva: la ragazza, quella pescata nel Po da qualche minuto, in una giornata di giugno del 2005, è assolutamente identica a Laura. Ma non a quella che potrebbe essere adesso, se mai fosse viva: una signora di mezza età con l’esistenza rovinata dalle più atroci e gratuite torture che l’evoluto uomo moderno sia riuscito ad organizzare. Questa ragazza è identica alla Laura che mi è stata portata via dal giardinetto di Buenos Aires nel 1978.
Considerando che queste cose non succedono, che i morti tornano solo nei film horror, penso di essere soggiogato dalla suggestione del sogno, che mi scorre ancora vivo sotto la pelle. Cerco di trovare una spiegazione normale, razionale, terrena: quella poveretta, probabilmente, è una prostituta sfortunata, che sta pagando con la vita un impeto d’orgoglio o una casalinga frustrata che ha deciso di darsi la morte. Penso ad un’infinità di altre possibilità: tutte, nella loro aberrazione, più usuali di quella che la ragazza sia veramente la Laura di Buenos Aires, la mia Laura.
Per sostenere il turno, sopportando il peso di questo dubbio, ripeto l’esercizio che mi faceva passare velocemente le ore di lezione all’università, quando la materia non m’interessava: penso ad una serie infinita di amenità senza senso. Banale stratagemma per gabbare la necessità inconscia di pensare sempre a quello che più ti angoscia. Per fortuna oggi i casi sono numerosi e tutti di routinaria banalità.
Quando finalmente sono libero da ogni impegno, percorro le poche decine di metri che mi separano dalla terapia intensiva, sicuro che al primo colpo d’occhio tutto si risolverà e che quella ragazza, anche per me, tornerà ad essere quella che era prima di finire in quel fiume: una qualsiasi abitante di questo pianeta, una delle tante per le quali ho cercato di ingannare il destino prolungando la loro esistenza oltre i limiti della ragione, ma non Laura, per favore non voglio che sia lei.
La guardo dal vetro, come fossi un congiunto in disperata apprensione, la mia ansia, però, non deriva direttamente dal suo stato: se dovessi prendermela per ogni persona che ho visto in condizioni anche peggiori a quest’ora avrei sicuramente smarrito la salute mentale.
È ferma, immobile, ogni tanto ha un fremito con gli occhi. Non è che ci veda, li muove e basta, almeno così sostengono autorevoli fonti mediche. Mentre la osservo sempre più attentamente cerco di confrontarla con la vera Laura, con quella che ho perso al giardinetto, ma l’unica che si presenta è quella sbiadita della memoria, intorpidita dal tempo passato, quella inesatta del sogno. Per un momento mi sento sollevato, non mi sembra lei, si tratta di una semplice e blanda somiglianza, una ragazza che, vedendola per strada, non me l’avrebbe nemmeno ricordata. Sono sempre più convinto che è stato quell’incubo atroce a crearmi questa suggestione, quando, come in preda ad un terremoto inesorabile, tutto l’impalcato razionale che si sta edificando nella mia mente, che sta per sopraffare l’evidenza, crolla con una scossa violenta.
La ragazza è Laura, assolutamente. E questo a dispetto della scienza medica che servo da tanto tempo, della religione e di tutta la cultura occidentale e razionale che noi uomini moderni ci portiamo dentro come un gravoso peso e che ci dice quello che può essere e quello che non può essere. La vita e l’esperienza di chi ci ha preceduto toglie spesso la possibilità di cogliere i miracoli di un’esistenza, escludendoli perché impossibili, bollandoli come irrazionali. Allora siamo costretti alla mediazione delle religioni e dei suoi ministri per sentirci più leggeri e migliori, per sapere che abbiamo un’anima, anche se non la sentiamo.
La certezza che si tratti di lei non so da dove venga, è arrivata anche se non la cercavo e non immagino dove mi porterà, ma c’è e non posso fingere che non ci sia.
Vorrei sfondare il vetro, prenderla, baciarla, riportarla in vita con il calore del mio corpo, riprendere quel momento che una Patota militare aveva così vilmente interrotto, ventisette anni fa. Non m’importa se la realtà, almeno come mi appare in questo momento, non potrà mai essere confidata a nessuno per non rischiare di diventare per tutti uno squilibrato, uno che ha la mente scossa da un trauma irrisolto.
In fondo è questo il mio timore, che la ragazza in coma sia il prodotto della mia solitudine, che sia stata la mia insoddisfazione ad appiccicargli sul volto la maschera di Laura, l’unica che posso pensare di avere voluto, ma, probabilmente, solo perché mi è stata portata via troppo presto, prima di poterla veramente amare. Prima che il tempo potesse erodere il nostro trasporto, diluendolo nell’abitudine. Se mi fosse stata portata via dopo tutto questo sarebbe stato ugualmente drammatico, ma avrei avuto qualche possibilità di superare il trauma.
La morsa di questo dilemma angoscioso mi porta ad uscire e a lasciarla di nuovo sola. Sono consapevole che devo prendere una decisione e che non ho molto tempo per farlo, non posso arrivare quando il suo stato vitale si sarà già dissolto nel caos cosmico, non potrei perdonarmelo, ma se si tratta davvero di lei, da dove è venuta? Dal passato forse? O è semplicemente stata prodotta dalla mia mente? Ma se si tratta di lei, che cosa è venuta a fare?
Torno a casa in preda ad una profonda inquietudine, avessi qualcuno almeno con cui condividere questo braciere che ho nell’anima…
Non mi rimane che la Maga, pur avendo sempre deriso chi crede in queste cose, la Maga mi si presenta come l’unica persona che potrebbe dare una risposta ai miei dubbi. Forse ho solo bisogno di parlarne con qualcuno e, scartando tutta la schiera di professionisti dell’ascolto come psichiatri, psicologi e analisti, che non potrebbero che catalogarmi come pazzo, non mi rimane che una professionista dell’occulto.
Se avessi qualcuno con cui parlarne, se conoscessi qualcun altro che può sostenere un dialogo su questo argomento, non mi sognerei di chiedere aiuto ad una persona di tal genere, ma non ho nessuno. La vita solitaria aspetta questi momenti di bisogno per mordere con la sua bocca affamata. Forte di questa giustificazione sarà più facile per me rivolgermi a lei.
La Maga, La Maga, in questo momento non c’è nient’altro che La Maga.