a cura di Alberto Prunetti
Giuseppe Faso è uno dei più attenti osservatori dei fenomeni di razzismo che — a livello istituzionale e popolare — stanno ammorbando l’atmosfera del sedicente “bel paese”. Sono riuscito a intervistarlo per Carmilla strappando un po’ di tempo a una campagna fitta di presentazioni del suo Lessico del razzismo democratico (Deriveapprodi, 2008), di cui Carmilla ha già dato notizia pubblicando alcuni brani (qui e qui).
_Nel titolo del tuo libro parli di esclusione. Sicuramente il processo di esclusione sociale sembra attraversare tante storie di vita dei migranti. Eppure, se proviamo a guardare a quanto sta accadendo con un’ottica più grandangolare, la sensazione è che ci troviamo di fronte a una sorta di “inclusione differenziata”, subalterna. Che ne pensi?
Certo, la maggior parte delle volte (e per la maggior parte delle agenzie coinvolte) la mira va all’inclusione subordinata — e magari gerarchizzata. Il termine “esclusione” conserva, mi pare, una sua utilità, perché comunque è attraverso l’esclusione, evidente e documentabile, dai diritti che si ottiene un’inclusione subalterna — che per quanto plausibilissima e da me condivisa rimane un’interpretazione. Ma è più che probabile che gli “stranieri” non li si cacci davvero via, li si vuole piuttosto sottomessi e a basso costo.
_Si continua a parlare di “sicurezza”, l’argomento al centro di ogni agenda politica. La gente si dichiara “insicura”, si percepisce “insicura”. Eppure, statistiche ufficiali alla mano, le città italiane sono molto più sicure della maggior parte di quelle europee e delle stesse città italiane di venti, trenta anni fa. Chi sta costruendo questa “percezione dell’insicurezza”? Esiste un mercato politico dell’insicurezza?
Il marketing sull’insicurezza è relativamente autonomo rispetto ai dati sui reati e — mi si permetta — sugli inconvenienti, i rumori, il leso decoro, etc. L’ insicurezza inoltre ha a che fare con la crisi di altri tipi di sicurezza: pesano sulla percezione l’insicurezza di origine esistenziale (mancanza di “security”) e l’incertezza cognitiva (mancanza di “certainty”), convertite dai politici (incapaci di dare risposte serie) in allarme per la mancanza di sicurezza personale (“safety”). Chi promette sicurezza imbroglia, perché nel suo discorso le fonti più oscure della nostra insicurezza vengono rimosse, e si dà un volto concreto al nemico/estraneo che, presente in mezzo a un “noi” così ricreato, viene individuato come portatore di pericolo.
_Il motivo dell’insicurezza ci porta al tema dei sondaggi. Quasi ogni politico, giustificando una nuova legge che produrrà più esclusione e una generale riduzione dei diritti, solleva l’argomento “la gente ce lo chiede”, “la gente pensa questo”. Cosa pensa la gente, il politico lo sa dai sondaggi. Ma chi costruisce un sondaggio? E in che modo? A che fine? Chi ci guadagna?
Basta leggere con attenzione la formulazione dei sondaggi giornalistici — o anche di alcune più avventurose agenzie — per rendersi conto che non sono condotti per fare da specchio dell’opinione pubblica, ma per influenzarla, agendo da sorgente di panico.
_E la devianza? La criminalità? Ma davvero gli stranieri delinquono più degli italiani? Si sente sempre parlare nei telegiornali di “stranieri” stupratori, ma se poi vediamo le statistiche del Ministero degli Interni le cose sono molto diverse. Come si costruisce la criminalizzazione dello straniero?
Non sono possibili statistiche su chi delinque, ma su chi viene acciuffato, indagato, denunciato condannato. E’ disonesto interpretare i dati a prescindere dalle agenzie di criminalizzazione, a partire cioè dalle polizie (che in Italia sono tante, e risentono in maniere diverse di variazioni storiche e geografiche). Se il Ministero degli interni ci dice che 5 presunti autori di furti su 100 vengono denunciati, mentre per i venditori di accendini e blue-jeans contraffatti la percentuale sale a 83, è evidente che l’informazione più rilevante riguarda l’attività della polizia, bravissima, oggi, ad acciuffare i venditori e incapace di individuare gli autori del 95% dei furti. Tenendo conto di tali preferenze va letta anche la criminalizzazione dello straniero, esposto più degli autoctoni ad altri momenti-chiave dei processi di criminalizzazione: dalle telefonate di chi si sente inquieto per una faccia che non ha mai vista (soprattutto se incoraggiato a farlo da amministratori e giornalisti) o irritato da comportamenti goffi nell’uso degli spazi pubblici o condominiali o del cassonetto della spazzatura, all’uso così frequente di affidare ad avvocati d’ufficio, spesso propensi a patteggiare, persone poco consapevoli dei propri diritti di difesa.
_Che cosa dice la gente quando parla di “integrazione”? Perché i migranti “devono integrarsi”? Forse la società italiana è “integrata”? E’ un tutto coeso, unitario? Questa retorica dell’integrazione, utilizzata spesso in senso positivo da molti operatori, da persone che collaborano e offrono sostegno ai migranti, andrebbe forse ridiscussa?
A chi fa notare che “integrazione” in realtà significa assimilazione, spesso si ribatte che integrazione vuol dire interazione. Ma come tutti possono constatare, si declina il verbo (“integrar-si”, “integrato” etc.) in maniere che escludono la traducibilità con “interagire”. Si esclude così che la società di accoglienza esca diversa dalla presenza di immigrati.
–Nel tuo lessico sostieni che “diciamo etnia o cultura, ma intendiamo razza”. Questo è un argomento molto interessante. Perché si dice “individui di etnia rumena”? Che uso si fa di questo termine? Perché “noi” siamo individui, cittadini, e “loro” sono “etnie”?
La domanda sul comportamento linguistico di molti politici e giornalisti va girata a loro, magari interrompendoli con una pacca sulla spalla o — se tecnicamente necessario — con un urlo: “Ma che cazzo dici?”. Con “etnie”, attribuito rigorosamente solo agli “ altri” (a parte il caso pietoso di autoetnicizzazione da parte della Lega) ci si rappresenta come cittadini di una società complessa, mentre “loro” sono tribù. Si realizza in questo modo l’esatto opposto, rinchiudendosi in una logica tribale, senza imparare nulla da chi si muove al confine tra province di senso.
-Sto ancora girando attorno a questo “noi”. Anch’io mi ritrovo, spesso mio malgrado, a usare questo termine, a parlare in prima persona plurale. Ma non sarebbe il caso di provare un po’ a smontarlo questo noi? Diciamo tutti la stessa cosa, quando diciamo noi?
“Noi” spesso è un richiamo all’ordine della tribù cui si appartiene, altri sono : “lo sanno tutti che”, “è un dato di fatto che”, “si sa”, “si è sempre fatto così” (detto peraltro di un’abitudine senza storia), etc. Chi dice “noi” spesso costruisce identità fittizie, prive di spessore storico e di complessità, incapaci di attività che non siano la festa paesana o la chiusura sospettosa nei confronti di chi ha comportamenti appena appena meno banali. Chi sospetta di ogni aquilone, non costruito in casa o comprato all’ipermercato dell’angolo, si condanna alla mancanza di senso.
_Anche il concetto di cultura come viene usato? Mi sembra che le culture, invece si essere un elemento poroso, relazionale, stiano diventando delle essenze, dei paradigmi di diversità. Qual è il tuo parere su questo elemento?
Il trionfo dell’uso “antropologico”, ma degradato, di cultura, ha segnato l’abbandono di ogni elemento ideale e di tensione (la cultura come sforzo di essere migliori, di costruire manufatti o discorsi apprezzabili a distanza di secoli e di continenti) e la giustificazione di ogni comportamento proprio, fino all’omicidio per la presunta sopravvivenza, o il sospetto di ogni comportamento “altrui”, non più visto come stimolo alla crescita sociocognitiva. Ci si condanna alla banalizzazione della vita, alla immobilizzazione dei significati: un mondo di zombie contento delle briciole di chi comanda.-
[PS: Si ringrazia Laura Albano per la fotografia di G. Faso]