di Alessandro Morera
Dall’inizio alla metà degli anni ’90 l’horror cinematografico si riversò in massa sulla meta testualità narrativa, come ben esemplificato da film di successo come Misery non deve morire di Bob Reiner e Nightmare nuovo incubo di Wes Craven, caso quest’ultimo, dove la finzione invade la realtà degli stessi autori-creatori della saga cinematografica di Freddy Krueger.
A un certo punto sembrava che il meta-cinema-horror non si sarebbe potuto spingere oltre, fino a quando nel 1995 apparve il film di John Carpenter In the mouth of madness – Il seme della follia. Sceneggiato da Michael de Luca, il film narra le vicissitudini di un investigatore assicurativo (interpretato da Sam Neill) che viene incaricato da una casa editrice di ritrovare uno scrittore di fama mondiale ‘che vende più di Stephen King’, tale Sutter Cane (Jurgen Prochnow).
Trent trova Cane a Hobbe’s End, una cittadina inesistente sulle cartine geografiche (e nella realtà), poiché è stata creata dallo stesso Cane nei suoi romanzi. Gli stessi abitanti sono i personaggi presenti nella letteratura dello scrittore, il quale ormai si sente un dio e vuol far ritornare sulla terra i mostri che un tempo la abitavano. Trent riuscirà a fuggire dalla cittadina immaginaria, riuscendo a bruciare l’ultimo libro di Cane prima che esso venga pubblicato (conscio del malefico disegno dell’autore), ma nonostante ciò lo ri/vede appena uscito sugli scaffali di tutte le librerie: è l’inevitabile apocalisse!
Il mondo è sconvolto da una catena di omicidi e follia, mentre Trent esce dal manicomio nel quale era stato rinchiuso (la scena è la stessa con la quale inizia il film), entra in una sala cinematografica e vede il film tratto dal libro di Sutter Cane In the mouth of madness, diretto da John Carpenter con protagonista lo stesso Trent: la finzione (i romanzi di Cane) invade la realtà (la vita di Trent), ma la realtà era già stata creata a sua volta dalla finzione (l’ultimo romanzo di Cane), mentre Trent entrava nei romanzi di Cane (la cittadina di Hobbe’s end); infine Trent assiste al film che narra la sua storia di finzione/realtà/finzione: procedendo in tal senso il film di Carpenter si sviluppa come un regressum all’infinito, un regressum simile a quello del romanzo incompiuto di Henry James, The sense of past, facendo cosi emergere tutta la differenza tra questo film e tutti gli altri horror meta testuali, una differenza di natura piuttosto che di grado.
Come annotò Gianni Canova a proposito di questo film sul numero 110 della rivista “Linea d’ombra”: ‘Trent osserva se stesso sullo schermo…Si guarda e sorride…Nel suo riso, così nevrotico, così ignaro, c’è tutta la tragedia del nostro guardare: l’onanismo di una società dello spettacolo in cui sembra che tutti non riescano più a vedere altro che la propria immagine riflessa… Non c’è speranza nell’ultimo Carpenter. C’è piuttosto una diagnosi allarmata di quel che stiamo diventando… attraverso l’orrore Carpenter questa volta si avvicina a Godard. E riprende a bastonare la società dello spettacolo (la sua/nostra autofagia) con una radicalità degna di Adorno o di Debord”.
In realtà, in questo gioiello cinematografico, c’è molto di più di ciò che ha esplicitato Canova: In the mouth of madness risulta la migliore trasposizione cinematografica (e visuale) dell’horror letterario creato da Howard Phillips Lovecraft, non solamente perché la vicenda raccontata è ovviamente legata alla leggenda del Necronomicon, ma proprio per come la narrazione filmica viene impregnata e filtrata attraverso un universo letterario particolare e specifico: chiaramente il protagonista vive l’orrore anche da un punto di vista strettamente psicologico e non meramente ambientale-visuale, come nelle opere dell’altro grande letterato americano che si è cimentato con la narrativa horror, ovvero Edgar Allan Poe.
Inoltre la spazialità e i corpi distruggono la concezione stessa di realtà e con essa quella del tempo classico: l’iterazione delle scene, il ciclico ritorno negli stessi luoghi dei personaggi, il protagonista condannato a ripetere (e ri/vedere) le stesse azioni per un numero indefinito di volte, in un tempo spazializzato e ripercorribile all’infinito, come quello bergsoniano (e come quello delle origini del cinema).
Nel film Carpenter immette anche una sua tematica consueta: quella cioè che evidenzia il disprezzo del cineasta verso l’imbarbarimento dei costumi e delle mode, oltre che la rivolta verso un sistema di mercato cinico e corrotto, dove spesso si affermano scrittori (e non solo) con aspirazioni mitopoietiche, una critica feroce rivolta verso lo stesso Stephen King, come alcune battute del film indicano in maniera chiara.
In the mouth of madness presenta qualità letterarie fuse ed espresse magistralmente attraverso l’arte del visibile in movimento, ovvero il Cinema! Ed è cosi che Carpenter ha portato a compimento un’immensa operazione: rappresentare con l’immagine in movimento (il cinema) l’irrappresentabile visualmente (la letteratura).