La specificità letteraria del cambiamento: New Italian Epic, Connettivismo e tempi che corrono
di Giovanni De Matteo, Fernando Fazzari
e Domenico Mastrapasqua (*)
Viviamo tempi cupi. Anche se forse “i bei tempi non ci sono mai stati” (cosa che Nessuno riusciva a mettersi in testa quando Jack Beauregard cercava di spiegarglielo), la sensazione del peggioramento è acuita dall’accelerazione degli eventi. Perché viviamo sì tempi bui, ma si tratta anche di tempi veloci, sempre più veloci.
La rincorsa degli eventi viaggia ormai su ritmi tanto elevati da sfuggire quasi alla nostra percezione. Con i sensi annebbiati e confusi, la comprensione si fa vaga, difficoltosa. Per reazione istintiva, emerge l’impressione ingannevole di essere invece cristallizzati in un fotogramma immobile. E qualcuno vorrebbe magari darcela ancora a bere, insieme alla favola della fine della storia. Niente di più sbagliato. Niente di più rischioso: il film rischia di terminare prima che allo spettatore sia concesso di cogliere la chiave giusta per leggerne l’epilogo e, a quel punto, sarà troppo tardi per azzardare anche solo un tentativo di risposta all’estinzione.
I continui progressi della rete hanno trasformato in realtà il sogno nudo del cyberspazio, il suo tempo sempre più reale ci lascia ormai sfiorare la simultaneità e, con essa, l’ubiquità. Ma il potenziale sovvertimento relativistico delle vecchie categorie annega nel rumore di fondo dell’informazione diluita, del commento eterodiretto, della critica addomesticata. Come nuova frontiera globale, l’infosfera risulta aperta all’innovazione, alla sperimentazione, sedotta dall’audacia creativa, ma resta al centro delle brame dell’ancien régime che si sforza di applicarvi le stesse regole del mondo-lento. Tutto quello che esula dallo schema è tagliato fuori dal circuito, oggi come ai “bei tempi” che ci piacerebbe ricordare. La differenza è che al giorno d’oggi l’accessibilità ai circuiti alternativi garantisce un’esposizione senza precedenti. Di conseguenza, risulta agevolata l’aggregazione di nuclei di pensiero attorno alle intuizioni seminali lanciate alla deriva nell’oceano elettronico e, con essa, è facilitata l’emersione di nuove forme forti. È un esperimento di darwinismo culturale, parafrasando William Gibson, fatto scorrere con il dito premuto sul tasto dell’avanti veloce. Nuove forme si aggregano, molte scompaiono nel volgere di qualche iterazione, altre sopravvivono. Se non si tratta di forme vincenti, dalla fucina di strategie evolutive a nostra disposizione possiamo quantomeno confidare di estrarre quelle più adatte ai tempi e su quelle lavorare per successivi affinamenti.
Ed eccoci tornati al tema del tempo. Il tempo reale della rete sempre più pervasiva, che presto potrebbe diventare davvero ubiqua. Il tempo modulabile della relatività einsteniana. Entità che Sant’Agostino sapeva bene cosa fosse, pur ammettendo di non saperlo spiegare; che la scienza ha messo in relazione all’evoluzione (in biologia) o al decadimento entropico (in fisica), ma sempre al mutamento; entità trasmutata nell’idealismo romantico da genius seculi in Zeitgeist e quindi confluita nell’accezione comune. Ogni lavoro, come ogni uomo, è figlio del suo tempo. Ne esprime i caratteri, magari anche involontariamente; ne riproduce i difetti, magari cercando di trascenderli; e talvolta coglie nella sensibilità di quell’epoca i semi che produrranno frutti marci o maturi in quella successiva.
Il nostro Zeitgeist, lo spirito dei nostri tempi, riflette la frenesia, la velocità, l’accelerazione che regolano quest’epoca. E, siccome il cambiamento gioca un ruolo centrale nella letteratura, attraversiamo anche tempi particolarmente “favorevoli” alla loro trattazione letteraria.
LETTERATURA DEL XXI° SECOLO
Potremmo considerare il concetto di transizione come il nucleo stesso della letteratura. Le migliori opere di sempre non sfuggono a questa regola: mettono in scena un processo di trasformazione, di mutamento, che può coinvolgere il protagonista, il suo ambiente, o entrambi. Lo scambio di informazioni tra un soggetto e il contesto in cui opera, di fronte a cambiamenti anche minimi, fa sì che si inneschi un meccanismo retroattivo che agisce producendo cambiamenti (aggiustamenti, se vogliamo) in risposta ad altri cambiamenti.
La nostra opinabilissima definizione della fantascienza cerca di tenere conto anche di questo, nel tracciarne le caratteristiche in un tentativo di certo non esaustivo, ma che si vuole comprensivo al massimo:
La fantascienza è la letteratura del mutamento, del possibile e del superamento. Mostra come, cambiando alcuni parametri della nostra realtà (società, storia, tecnologia), potrebbe diventare o avrebbe potuto essere il nostro mondo. E siccome il mutamento è al centro di ogni storia, il fatto che esso sia la premessa imprescindibile per una storia di fantascienza porta il genere a trascendere i confini della letteratura e a configurarsi come un meta-genere, che si interroga sul mondo, sull’uomo e sul loro destino. La fantascienza è l’ultima frontiera dell’avanguardia.
Se da sempre la letteratura si confronta con il cambiamento, possiamo a ragione ritenere fondata la specificità letteraria del concetto. Dopotutto, che senso avrebbe mettere in scena una situazione immobile, senza nemmeno un’episodica rottura dell’equilibrio? Ma se la letteratura mainstream può permettersi di sprecare forze e risorse prendendo in esame equilibri che sono già fragili in partenza (di natura spesso emotiva e psicologica, piuttosto che sociale), alla fantascienza (e alla letteratura di genere in senso lato) è concesso il lusso di concentrarsi su equilibri che sembrano consolidati e ormai imperturbabili e, facendoli saltare, riscrivere daccapo i presupposti del mondo (inteso come macrocosmo, come microcosmo, e come l’inscindibile unità olistica dei due).
Si parli di ucronìa, di estrapolazione scientifica, di una detective story o della lotta contro una minaccia oscura piovuta dallo spazio, fantascienza, giallo e horror hanno il vantaggio di potersi confrontare con la quintessenza della letteratura, senza l’obbligo di dover ridurre il cambiamento alle sue espressioni minimali, domestiche, quotidiane.
Nell’era dell’iperspecificità, delle competenze che si fanno sempre più settoriali, degli interessi che diventano sempre più selettivi, il Connettivismo è una reazione alla narrativa minimale e riduzionista. La letteratura, come le altre arti, deve essere uno specchio per il suo tempo. Deve rifletterne i cambiamenti e in un’epoca di rapidi mutamenti come questa, in cui “tutto cambia per non cambiare nulla”, non è impresa facile riprodurre le molteplici stratificazioni del reale, la complessità del mondo, dei suoi problemi attuali e di quelli prossimi venturi.
CONNETTIVISMO: LA PROSPETTIVA DEL FUTURO NELLA SPAGHETTI SCI-FI
Il Connettivismo è prima di tutto una sensibilità, un sentire comune che si è aggregato attorno ad alcuni nuclei d’interesse specifico (le conseguenze del progresso, l’impatto sociale delle nuove tecnologie, la spinta dell’umanità verso il suo superamento fisico, l’analisi critica del futuro attraverso gli strumenti dell’avanguardia) per sviluppare un discorso che col tempo, e con l’apporto di nuovi membri, si è fatto sempre più complesso e variegato. Questa attitudine al futuro e l’interesse per temi di particolare rilevanza già oggi, ma che potrebbero avere un riflesso ancor più significativo sul nostro domani, è il carattere principale del Movimento, che esprime una vocazione che è al contempo sintetica e analitica.
Il Connettivismo nasce come sintesi di esperienze diverse in questa sensibilità condivisa. Il suo esordio con un Manifesto, come le avanguardie di inizio Novecento, è emblematico: il Connettivismo è infatti pensato come un esperimento artistico in continua evoluzione e l’aspirazione al cambiamento è stata ribadita a più riprese. Ma si tratta anche di un progetto programmatico, nato con certi intenti (la democrazia delle idee, il superamento delle Due Culture e con questo il rinnovamento del genere, l’attenzione per le sue contaminazioni) e aperto a chiunque si riconosca in essi. La portata del suo abbraccio è ampia, tanto da considerare diverse forme espressive, dalla narrativa alla poesia fino alle arti figurative, ma forte e consolidato resta il suo legame con la fantascienza.
“Connettivismo” è in effetti una parola mutuata dall’età classica del genere. In Italia è la traduzione del termine “nexialism“, coniato in riferimento a una nuova pseudoscienza dal maestro canadese Alfred E. van Vogt nel suo celebre romanzo Crociera nell’Infinito (The Voyage of the “Space Beagle”, pubblicato a puntate tra il 1939 e il 1943 su “Astounding”). Van Vogt, uno dei titani della Golden Age, amava inventare discipline scientifiche d’avanguardia nelle storie che scriveva: il Connettivismo, nella fattispecie, era “la scienza di collegare insieme le conoscenze settoriali delle altre discipline” (per usare le parole di Riccardo Valla).
E la parola “Connettivismo” racchiude in sé una molteplicità davvero notevole di significati. Oltre alla già discussa volontà di produrre una sintesi — di sensibilità, di esperienze artistiche, di influenze e movimenti letterari, quello che si direbbe un crossover — un altro proposito che ci prefiggevamo era di riallacciare un legame con il passato e con le origini popolari e sperimentali di un immaginario proteso verso futuro. Il fatto poi che la parola avesse una felice assonanza con “connettività”, vale a dire la capacità di programmi e sistemi di scambiarsi informazioni, cadeva a proposito in un’epoca come la nostra, in cui scrittori e lettori sono accomunati da un’unica esperienza, quella di essere operatori dell’immaginario in un’era tecnologica di massa.
Il Connettivismo è emerso dal magma postcyberpunk e al movimento degli anni Ottanta deve molto. Se i cyberpunk sono stati la prima generazione di scrittori a crescere in un mondo fantascientifico, noi siamo stati i primi a confrontarci con un mondo cyberpunk. La politica delle lobby, la sperequazione tra il nord e il sud del mondo e, all’interno dell’Occidente stesso, la contrapposizione tra i “nodi della rete” e le cosiddette “zone marginali”, i dilemmi etici sollevati dalla biogenetica, la battaglia continua per tenere l’informazione libera da filtri, l’integrazione progressiva della tecnologia con i nostri corpi e i primi vagiti delle nanotecnologie: sono questi i punti cardinali del nostro universo. Internet, chip sottocutanei a radiofrequenza, dispositivi retinici elettronici, tecniche chirurgiche sperimentali, virus informatici per cellulari, protesi cibernetiche, interfacce militari e programmi spaziali hanno contribuito a costruirci attorno la stessa atmosfera che si respira nei romanzi di William Gibson e soci. È il nostro mondo, quello che trasfiguriamo nelle nostre opere. Per i connettivisti lo strano, il bizzarro e il surreale sono motivo d’interesse, oggetto da indagare e vivisezionare. L’onirico spesso s’insinua nelle trame, contribuendo a generare atmosfere di sospensione fantastica, riflesso e sintomo di una forte concentrazione immaginativa.
Mentre i cyberpunk rivendicavano una visione ampia e globale, i connettivisti, cresciuti in uno scenario già globalizzato, viandanti in nero nel deserto del reale, si sono lanciati nell’esplorazione di una Nuova Frontiera, non più — non solo — spaziale, bensì temporale, con il proposito di riportare il futuro nell’attualità.
LA NUOVA FRONTIERA DEL NEW ITALIAN EPIC
I tumulti della nostra epoca sono i cambiamenti che viviamo sperimentandone gli effetti sulla pelle, giorno dopo giorno. Sul piano degli affari internazionali, la calma di superficie — con l’America infangata nel (temporaneamente) duplice fronte della guerra al terrorismo, la Cina apparentemente ammansita dall’ammissione nel mercato globale, l’assestamento delle istituzioni russe dopo il passaggio di consegne dallo Zar al suo maggiordomo, il Medio Oriente in fissione (apparentemente) controllata — nasconde una certa agitazione di fondo, movimenti che occasionalmente accendono segnali di allerta sul nostro ecoscandaglio di profondità. Sui piani economico e culturale, l’egemonia dell’Occidente potrebbe essere prossima a soccombere. Potremmo essere già entrati negli Ultimi Giorni, senza che nessuno si sia dato la pena di annunciarcelo dalle torri di guardia.
Il Cambiamento incarna lo Spirito di questa epoca, in qualsiasi direzione si scruti l’orizzonte. E, pur con le dovute sfumature, la sua portata non scende mai al di sotto della soglia critica che potrebbe consentirci di abbassare la guardia. Non possiamo più illuderci che il fronte sia lontano, come giustamente rimarca Wu Ming 1 nel suo saggio-memorandum sul New Italian Epic (nel seguito NIE). Siamo parte dell’ingranaggio, osservatori che interferiscono con il loro oggetto di studio come accadrebbe in un esperimento sulle proprietà quantistiche della materia. La rete è il tessuto connettivo che oggi permette un nuovo patto telepatico tra scrittore e lettore, ammettendoli su un piano paritetico che li vede entrambi partecipi nel processo di mitopoiesi, nei panni di operatori dell’immaginario. In questo la sensibilità emergente tradisce il suo forte debito verso le manifestazioni più alte e concrete del Postmodernismo, già orientate a cartografare la mitologia del Novecento e a rinsaldare il patto di fiducia e coinvolgimento con il destinatario dell’opera.
Facendo riferimento oltre che al memorandum di Wu Ming 1 al dibattito che ne sta seguendo, ci preme richiamare l’attenzione su un punto che ci sta particolarmente a cuore: più che una frattura vera e propria con i postmoderni o, per meglio dire, con un certo modo di intendere il Postmodernismo (nell’accezione che abbraccia Thomas Pynchon, Kurt Vonnegut, James G. Ballard, Samuel R. Delany, Don DeLillo, William Gibson), riscontriamo una naturale evoluzione che porta a innestare nel corpo della letteratura italiana elementi già acquisiti dal romanzo americano. Pensiamo al motore del Postmodernismo, “l’affermazione della narrazione come forma di conoscenza” che, percorrendo con slancio avanguardistico i sentieri dell’anti-realismo, nel sovrascrivere la concezione della letteratura come rappresentazione arriva a delineare un universo iperrealista. Da qui la commistione dei generi (fantascienza, thriller, spy story, pastiche); l’irruzione del dato scientifico, spesso mutuato da discipline di forte presa popolare sull’immaginario (dai principi della termodinamica e la neurofisiologia pavloviana di Pynchon al cyberspazio di Gibson, passando per la linguistica di Delany e gli studi hitleriani di DeLillo); la scrittura digressiva che proietta la trama su rotte divergenti e ne riassembla le schegge in un’architettura ipertestuale; l’inclinazione multimediale a trascendere i linguaggi (dal jazz al fumetto al cinema). “Più reale del reale”: al di là della frenesia citazionista, delle modulazioni di registro, del continuo gioco dei rimandi a modelli ricombinanti e a fonti che la mano dell’autore plasma e piega alle esigenze del racconto, nell’architettura letteraria degli universi del Postmoderno si estrinseca un’urgenza di comprensione e di trascendenza letteraria, il bisogno di mettere a punto una formula per ridefinire l’interfaccia con il reale, portando il romanzo a essere un nuovo strumento di rappresentazione e simulazione da esplorare, indagare e interrogare per determinare limiti e forma del mondo. A questo riguardo il critico statunitense Fredric Jameson parla di nuove cartografie cognitive (cognitive mappings) e il parallelo non ci sembra inappropriato.
I mutamenti occorsi nel frattempo impongono senz’altro di aggiustare la mira, rivedendo il paradigma concettuale per aggiornarlo ai tempi nuovi; tuttavia ci sentiamo di riconoscere le caratteristiche sopra illustrate in molti dei titoli riconducibili al NIE. È giusto e legittimo prendere posizione contro la fuga dalle responsabilità autoriali, ma confidiamo che l’interessante dibattito aperto da Wu Ming 1 non diventi pretesto per una crociata contro il Postmodernismo tout court, senza fare le dovute distinzioni.
Piuttosto, si parta proprio da qui per impostare la rotta del futuro, perché occorre giocare d’anticipo e sfruttare ogni margine di manovra, e per questo possiamo fare tesoro dell’esperienza maturata nel corso della seconda metà del Novecento. Per questo è importante escogitare nuovi impieghi per gli strumenti comuni, a disposizione di tutti; per questo è fondamentale estendere il dominio della lotta, portando lo scontro sul terreno mutevole, volatile, fluido della rete e dei nuovi mezzi di comunicazione. Serve un ritorno massiccio alla letteratura militante, fatta di impegno civile, di sfide intellettuali, di ambizioni avanguardistiche.
Il Connettivismo è sempre stato aperto alle commistioni, agli sperimentalismi, alle ibridazioni. E, qualità altrettanto importante, si è configurato fin dagli esordi come un movimento open source. E adesso assistiamo con soddisfazione alla stessa sfida rilanciata dal NIE a un livello tanto più alto quale compete a una sensibilità diffusa, che trascende i confini di genere o le piccole nicchie autarchiche. Frammentare e unire, capire, mettere in relazione le cose. Anche noi abbiamo “fiducia nel potere maieutico della parola, e nella sua capacità di stabilire legami (lēgere)”.
Ce n’è un gran bisogno, di questi tempi. Non a caso il saggio New Italian Epic inquadra un periodo, 1993-2008, in cui siamo scivolati senza interruzione alcuna e senza scossoni dal miraggio della rinascita della Repubblica alla distopia di una dittatura bianca, un regime morbido. Viste le premesse, ci siamo allegramente lanciati su un tappeto di tubi catodici verso un 2013 in cui nessuno si meraviglierebbe se ci scoprissimo a scattare un’istantanea a un nuovo Ventennio. Anche per questo riconosciamo la linea di frontiera del nostro Paese, “l’estremo avamposto” al quale accenna Wu Ming 1 è sotto i nostri piedi e già sulla nostra penna. “Accade in Italia”, appunto. Un Paese che andrebbe scritto in minuscolo per l’efficacia con la quale viene amministrato, una nazione che è un sipario dietro al quale il Kipple che vi è stato nascosto è solo il sintomo di una malattia cronica che ci portiamo avanti da un po’, formalmente dal 1861.
Passato nebuloso, presente torbido e futuro tutt’altro che limpido.
E qui l’impresa si fa ardua, perché raccontare e immaginare gli anni a venire è nel nostro DNA.
È un confronto contro il tempo e contro i tempi che i connettivisti hanno di fatto accettato fin dalla loro costituzione, ponendo al centro della loro opera il tentativo estremo di riportare il futuro tra le priorità dei loro interessi, servendosi della luce riflessa della fantascienza per indagare meglio il nostro mondo contemporaneo e scrutare tra le pieghe del reale, laddove questo si compenetra con l’immaginario, scrutando all’interno di un genere letterario che, nelle sue migliori espressioni, e per definizione, è epico, perché “ambizioso, a lunga gittata, di ampio respiro”.
Il futuro come Nuova Frontiera richiede una prospettiva in continuo aggiornamento, in grado di evolversi al passo con i tempi se non più veloce di questi. La scrittura ci permette di proiettare nel nostro cono storico di luce l’effetto farfalla della storia, cavalcando la marea del tempo verso un orizzonte metastorico in cui l’uomo dovrà fare i conti con le divergenti linee postumane della propria evoluzione: estendere l’uomo, frattalizzarlo, farlo esplodere e, con lui, la sua storia; qualcosa che ha poco a che fare con un certo positivismo tecnologico rispolverato e riverniciato a nuovo, ma piuttosto con la riflessione, tuttora aperta e nient’affatto cristallizzata, sul superamento dell’uomo, sul suo futuro in quanto specie in estinzione.
Difatti l’homo sapiens, nel corso della sua storia e soprattutto negli ultimi cento anni, si è destrutturato, atomizzato, continuando a credersi, nella sua stoltezza, al centro dell’universo. Ecco perché, tra le tante vie che si possono intraprendere, andrebbe riscoperto e re-inventato il mito, la cui funzione principale è dare un fondamento metastorico alla rappresentazione della realtà.
Se la narrazione non mitizzata, intrappolata nei confini del genere, si pone al centro e al limite stesso della realtà raccontata, la mitizzazione — negli strumenti indispensabili dell’atemporalità — coglie e diffonde il nucleo stesso dell’evento, elevandolo a principio di una visione ideologicamente solida della realtà: il mito svolge una funzione prettamente eziologica, di spiegazione dei meccanismi primi della storia, piuttosto che della storicità in sé. Attraverso la figura del narratore che permea e respira le pagine stesse del suo racconto, il mito riesce a innestare l’ideologia del creatore — la sua prospettiva — nelle maglie definite della diegesi.
È aperta la caccia al principio primo, al logos, energia metaletteraria che eleva la narrazione e la pone sul piano dell’assoluto, affrancandola da devianze autoreferenziali e limitanti.
La letteratura non può fermarsi, costruendo immaginari statici, fasulli e consolatori.
Se il mondo attuale, disgregante, con le sue connessioni veloci, la sua pubblicità invasiva e il suo overflow di informazioni, può condurre in territori della consapevolezza di difficile mappatura, e quindi di ardua gestione, i contenuti di un’opera letteraria capace di aspirare all’assolutizzazione dei significati (attraverso quello che Wu Ming 1, riprendendolo da Alex Galloway e McKenzie Wark, chiama allegoritmo) possono costituire un potenziale rimedio all’incombente dissoluzione cognitiva, che con il passare del tempo assume sempre più i contorni sfilacciati di una paradossale quanto pericolosa singolarità, una vera e propria malattia dell’intelletto.
La pandemia è già in atto.
Per questo una narrativa che ricorre alle armi della logica dislocata e dell’omogeneità diegetica può divenire il filo rosso necessario per coloro che aspirano a ricondurre idee e conflitti nella dimensione della persona, reintegrandola come centro conoscitivo e produttivo; questo tipo di narrativa, che fa della mitopoiesi un cardine insostituibile, ha in sé la capacità di poter indurre il lettore a liberarsi dai vincoli e dalle pastoie imposte dai media e dal consumo passivo di un certo tipo di letteratura, aiutandolo a ritrovare una cenestesi partecipativa, di lettore/fruitore ma anche di «demiurgo in seconda». Proprio questo, nel panorama impazzito di una società atrofizzata dalla standardizzazione culturale e assuefatta all’accelerazione del progresso, potrebbe assumere i caratteri di una rivoluzione culturale.
È in tutto questo che sentiamo la vicinanza con gli intenti principali del NIE: mettere in discussione, capire e, ancora una volta, aggregare e disgregare, rivoluzionare.
Stiamo costruendo il futuro anteriore —
Quando, sicuri di aver fatto il possibile,
potremo dire che
ne sarà valsa la pena.
Fino a innescare la supernova finale.
A quel punto, quando l’onda della deflagrazione investirà le macerie del passato, sarà troppo tardi per qualsiasi tentativo di Restaurazione. E potremo cominciare a pensare al fronte successivo.
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