di Flavio Santi
Gianni Biondillo, “Metropoli per principianti”, Guanda, pp. 210, € 12,00
Gianni Biondillo ha scritto il suo capolavoro. Senza nulla togliere alla celebrata saga del commissario Ferraro, questo libro addensa al meglio le doti di Biondillo — velocità e nitore di scrittura, ironia pungente, sguardo partecipe, alto senso etico, pensiero spiazzante e sempre critico —, senza addomesticarle però in una gabbia troppo rigida, come a volte è il romanzo di genere. Qua domina una grande fluidità — da vita liquida per usare un concetto in voga —, un sapiente cine-occhio che si muove su persone, città, sentimenti, idee. Persone e oggetti, come ricorda l’appunto di Wu Ming 1 sul retro di copertina, colti in una dialettica plastica e complessa: si tratta di una raccolta di saggi che definire di architettura sarebbe riduttivo, ricchi come sono di una calda umanità e di uno sguardo lucido e chirurgico.
A suo modo è un romanzo: schizofrenico, polimorfo, aperto, come lo sono le città che descrive, sospese tra fuga da sé, da un passato deludente, e controversa riappropriazione di un presente mutante, non sempre per scelta consapevole. Lo si dice chiaramente in un passaggio: “[romanzo e città] sono prodotti contaminati, meticci. E perciò duttili, adattabili. Il romanzo muta, cambia forma, pelle, si adatta. Accetta il confronto con le nuove forme di narrazione, col cinema, la televisione, il fumetto. Le implementa, le metabolizza. Così fa la città”. Ancora: “il bisogno vitale, estremo, disperato quasi, di chi scrive è (dovrebbe essere) parlare del mutamento. Ed è il mutamento antropologico (pasoliniano) avvenuto sui nostri corpi. Ed è la mutazione in atto nella società. Ed è psicologia non più attorcigliata su se stessa ma anche sociologia”. In poche righe Biondillo incendia e illumina il nostro esistere occidentale: “Viviamo tempi difficili, è vero. Ma, mai come in questi anni, vivi. Le banlieues, le periferie urbane, i non luoghi, sono in realtà i posti migliori dove combattere questa guerra di libertà. Luoghi dove si può, si deve, scegliere se essere omologati al potere e quindi marginali (alla società e a se stessi) oppure essere creativi, in quanto periferici al potere”. Così Biondillo indaga le città, non solo Milano — che per questioni personali di vita vissuta è quella che conosce meglio —, ma anche Firenze, Roma, Napoli, e i piccoli centri, Sassuolo, Rho, e soprattutto quella che chiama la sua “ossessione”, il suo “panorama interiore”, dove ha vissuto fino a pochi anni fa: Quarto Oggiaro. L’apoteosi del luogo comune (“il Bronx di Milano”), che Biondillo analizza e decostruisce con pazienza certosina: innanzi tutto perché il Bronx è ormai “un quartiere graziosissimo e fighetto assai” e poi perché la periferia è un laboratorio sociale, dove si fa esperienza dell’altro, in cui gli “io” degli abitanti “trattano, mutano, crescono, cambiano, appercepiscono, appresentano. Amano”. Non c’è niente di peggio dell’ottusità del luogo comune: “Le Vele di Scampia, ad esempio, io non le trovo così mostruose. […] Sulla Costa Azzurra ho visto edifici identici — appartamenti di villeggianti, seconde case —, eppure nessuno ha mai pensato di abbatterli. Come mai?”. Ma gli spunti offerti sono numerosi: le città che stanno diventando ciclopiche periferie globali; la decadenza e il deprezzamento del lavoro intellettuale; il lento, e inesorabile, declino dell’Italia; la perdita di ogni baricentro critico e umano; il turismo di massa.
Il saggio finale, Prima vennero a prendere gli zingari (da un verso di Bertolt Brecht), è un viaggio nel mondo dei rom: resoconto lucido di un’umanità poco nota, di un mondo per molti versi sconosciuto. Superfluo dire che se ne caldeggia la lettura agli attuali ministri del governo più triste della storia repubblicana. Scopriranno come — ovviamente — la maggior parte dei rom lavora, manda i figli a scuola, soltanto ha un’altra concezione della vita. E spesso la colpa non è loro: “Il Comune [di Milano] ha bloccato i lavori. Siamo messi peggio di prima. Hanno rifatto il manto stradale, e male, quando piove si riempie tutto d’acqua. Sei mesi d’inferno, poi ancora i lavori bloccati”. Uomini come tutti gli altri (ovviamente varrebbe da dire, ma l’impressione di un generale abbrutimento sociale e umano è forte), costretti però, per un diffuso senso di diffidenza, a nascondere la propria identità, altrimenti il rischio è perdere il posto di lavoro: “Come quel ragazzo inquadrato da una telecamera durante un servizio giornalistico in via Triboniano. Il suo principale, mentre nel chiuso di casa sua si godeva indifferente il telegiornale, l’aveva riconosciuto. Il giorno dopo gli ha detto che non c’era lavoro, che la ditta aveva finito gli appalti. Non era vero, ovviamente. Solo che un rumeno, in fondo, si può avere come muratore, uno zingaro no, non si sa mai”. Chiarissima (e umana, naturalmente umana) la diagnosi: “Bisogna lavorare con la scuola, riconoscere la nostra cultura. In Italia si è attuata la politica dell’esclusione, mentre nei paesi balcanici i rom, negli anni, sono diventati sindaci, poliziotti, maestri d’asilo… sono partiti dal gradino più basso, erano schiavi, e da lì, piano piano, si sono ‘inclusi’ assumendo anche ruoli di potere. I rom rumeni, in Italia, sono quelli che fanno accattonaggio, non hanno nulla, sono buttati nei campi nomadi; mancano progetti mirati per queste persone, in quelle condizione chiunque ruberebbe. Il furto è una brutta cosa da noi, da sinto a sinto. Se io vado a rubare da un altro sinto vengo allontanato dalla comunità, ma se non riconosco l’altra cultura, così come lei non riconosce me, in un certo senso mi sento meno in colpa se gli svaligio l’appartamento. C’è da fare molto, ci vorranno almeno due generazioni, se non di più, ma bisogna iniziare a lavorare e subito!”.
Dunque il cammino è lungo, ma imprescindibile. E grazie a Biondillo che si è sobbarcato l’impegno di farci da compagno di strada.
[Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano Liberazione]