di Valerio Evangelisti
[Negli Oscar Mondadori è stato da breve ripubblicato il romanzo di Mario Soldati Lo smeraldo (pp. XLI-317, € 9,80), con una recensione di Pier Paolo Pasolini, un’introduzione di Valerio Evangelisti e una nota di Stefano Ghidinelli. Il volume fa parte della ristampa di tutte le opere di Mario Soldati curata dal prof. Bruno Falcetto. Ecco l’introduzione.]
Sembra incredibile che Mario Soldati sia stato contemporaneo di Alberto Moravia, per tanti decenni figura di riferimento della narrativa italiana. Tra i due autori non esiste la minima affinità. Nessuno “psicologismo” (senza che il termine abbia un significato negativo) in Soldati, nessuna pagina aspirante alla complessità. Invece un narrare fluido, libero, brioso, dove i caratteri sono disegnati dai comportamenti invece che dalla loro esplorazione. E un occhieggiare a distanza al romanzo “di genere”, senza peraltro aderire ai suoi canoni più vieti.
Questo Lo smeraldo è del 1975, ma più di trent’anni dopo resta leggibilissimo (non per tutto Moravia, onestamente, si può dire lo stesso). Qualcuno lo potrebbe definire “fantastico” o addirittura “di fantascienza”, e per questo, credo, mi hanno incaricato di introdurlo. Però non è così. Intanto con la fantascienza ha una sola cosa in comune: sbaglia tutte le previsioni sul futuro. Il fatto è che, contrariamente a un’opinione diffusa, la science fiction non ha mai avuto per oggetto la predizione dell’avvenire, bensì la proiezione dei dati del presente in uno spazio ipotetico che ne veda gli sviluppi. In questo senso, ma solo in questo, il romanzo di Soldati (così come il Ti con zero di Calvino) potrebbe essere definito “fantascientifico”.
E nemmeno l’aggettivo “fantastico” si applica a Lo smeraldo. Si parla di un mondo presente, non di un tempo favolistico. Si noti la meticolosità con cui Soldati si impegna, direi quasi “scientificamente”, a dimostrarci le capacità delle pietre preziose. Un attimo dopo, grazie a quello smeraldo, si salta nell’onirico. Tuttavia il sogno è tanto concreto quanto la realtà, e ricco di dettagli.
Soldati è maestro di descrizioni. I suoi paragoni tra la New York conosciuta da lui decenni prima e quella contemporanea (riferita, suppongo, agli anni ’70) restano memorabili. Impossibile scrollarseli dalla fantasia. Idem per la partita a bocce in una piazza di un villaggio francese delle Alpi Marittime. Chi abbia assistito a uno spettacolo del genere, tanti anni fa, non può che restare sorpreso dalla capacità di Soldati di rievocarlo. Il personaggio del P’tit Henri, basso, tarchiato, baffuto, grande campione di bocce, era un tempo, da quelle parti, universale.
Ma Soldati è altrettanto preciso quando parla di un futuro di origine presumibilmente onirica. Sogna, e il sogno ha il limpido sapore della verità. L’ingresso nel mondo incognito avviene passo a passo, a partire, astutamente, dal paesino di confine in cui il protagonista è nato. Scopriamo lentamente anomalie, dettagli che non tornano, barriere inspiegabili, regole assurde eppure accettate. Si capisce che c’è stata una guerra di portata disastrosa, che ha devastato il mondo intero. Si intuisce — e siamo già a un terzo del romanzo — che un Nord dominato dalla Russia (e in subordine dagli Stati Uniti), in cui la proprietà privata non esiste più, nemmeno sui piccoli oggetti e sulle opere d’arte, fronteggia su una linea impenetrabile un Sud altrettanto esteso e profondamente misterioso, sotto l’egemonia della Cina e dei paesi slavi.
Soldati dimostra un’abilità che dà le vertigini. Il suo personaggio, cauto, capace di trattenere le emozioni anche quando gli si avvicina un presunto “figlio” che non sapeva di avere, simula di possedere conoscenze che non gli appartengono, cerca un ordine nell’inspiegabile e nell’astruso. E’ forse la parte migliore del romanzo, quella che coinvolge senza pietà anche il lettore più distratto. Suspense? Sì, però senza i meccanismi convenzionali della suspense. Niente passaggi rapidi, niente interruzioni sull’orlo dell’ignoto. Invece una camminata lenta, in una realtà tanto descritta in dettaglio quanto pervicacemente oscura. Tornano alla mente Joseph K o l’agrimensore K, allorché si sforzavano di afferrare le leggi delle nerissime tragedie in cui erano coinvolti.
Tuttavia Soldati non ha nulla di kafkiano. Meticoloso all’eccesso, non lascia angoli in ombra. Gioca invece sulla cosiddetta “sospensione dell’incredulità”, e questo è il secondo elemento (assieme alla portata irrilevante dell’esattezza delle previsioni) che lo accosta alla fantascienza migliore. I quadri, le scene, sono così dettagliati che vi si immerge anche controvoglia.
Se il Nord è ipermilitarizzato, ipertecnologico, collettivista, super controllato, veniamo presto a sapere che esiste, di converso, un Sud caotico e primitivo, in cui città in macerie si fondono con la ruralità. Però non è questa la scoperta più sconvolgente. E’ invece quella che al Nord si pratica, liberamente (è l’unica attività libera), la bisessualità, e che anzi gli amori omosessuali sono incoraggiati. Ciò per due motivi: uno “salutista”, relativo alla limitazione delle nascite, e l’altro oggettivo, dovuto al clima da caserma e al conseguente culto della virilità.
Questo ha indotto alcuni, corroborati da una scena decisamente osée, a classificare Lo smeraldo come tipico romanzo gay, e a iscrivere Mario Soldati nella categoria degli autori scopertamente omosessuali, bisessuali o comunque trasgressivi. Può darsi (esistono confessioni dello scrittore in tal senso, riferite al periodo giovanile, ma non solo), però il punto è un altro. Il tema è molto funzionale alla trama, di tipo “iniziatico”, se così posso dire.
Il passaggio dal Nord al Sud non è senza conseguenze sulla personalità del protagonista. Giunto in terre i cui paesaggi evocano da un lato Piranesi, dall’altro la pittura bucolica romana tra XVII e XVIII secolo, fra zingari, briganti, monumenti in rovina, alti prelati (specializzati in affari loschi), scenari campestri, la sua visione cambia. Rifiutava la sessualità ambigua del Nord, e faticava a concepirla. Ora ne è sedotto, e solo il risveglio gli impedirà di esserne catturato una volta per tutte. L’uomo “freddo” e razionale, che ragiona minuziosamente su tutto ciò che vede, inclusi i poteri magici di uno smeraldo (per sezionarli, e dare loro una spiegazione logica), verrà assorbito da un’atmosfera di sensualità e lentezza. Quando ne uscirà, i suoi rapporti con la moglie — per dirne una — non saranno più gli stessi. E’ la visione del mondo che è mutata, con conseguenze presumibilmente durature.
Strano romanzo, e strano autore. Negli anni ’50-’70 erano molti gli scrittori e i cineasti italiani che cercavano di sottrarsi alla morsa del realismo quale unica chiave di lettura del sociale. Pesavano i giudizi severi sul fantastico pronunciati non solo da Croce e dai suoi diretti seguaci, ma anche da Gramsci (in parte) e da Togliatti. Calvino e Buzzati (e Morselli, e tanti altri) furono tra le prime vittime di quel dogma.
Si era presto ribellato Vittorio De Sica — e con lui Cesare Zavattini — con il film Miracolo a Milano (1951). Impianto neorealista al servizio di una storia fantastica, sì, però piena di allusioni al presente. Soldati, con Lo smeraldo, fa lo stesso. Accumula le notazioni descrittive, rende credibile e concreto ogni particolare, ma al servizio di una storia impossibile. E, si badi, priva di ogni suggestione politica o morale, perché ne ha troppe. Starà al lettore districarvisi e scegliere le pietre preziose a lui confacenti. Magari uno smeraldo.
Bisognava aspettare gli anni giusti perché un grande romanzo, e un grande scrittore, fossero riscoperti. Resisterà alla polvere, ne sono certo. Dei suoi colleghi, invece, non so.