di Carlo Loiodice
In un appello per Chiaiano, firmato fra gli altri da Valerio Evangelisti e da Wu Ming, si legge:
[…] Nei capannelli che si formano tra i gazebo all’ingresso delle cave, le persone ripercorrono a mente fredda gli ultimi avvenimenti, analizzando il resoconto fatto dai media degli eventi di cui sono state protagoniste. E in quei racconti, nessuno si riconosce. […]
* * *
E’ un’esperienza che abbiamo fatto in tanti, anche se non abbastanza da produrre significativi mutamenti nei comportamenti della stampa e del suo ruolo nelle vicende sociali.
Chiunque abbia partecipato a una manifestazione lo sa. Che sia stato a Genova nel 2001 o al “Vaffa day” di Beppe Grillo, che abbia occupato una scuola o presentato una petizione, è sempre rimasto interdetto o sconfortato nel leggere il giornale il giorno dopo, arrivando a vivere una forma di sdoppiamento d’identità. E, in casi estremi di vacillamento del suo io, potrebbe essersi convinto di non essere stato realmente presente all’evento del giorno prima.
Si tratta – solitamente pensiamo – di manomissione politica dell’informazione, senza andare troppo lontano dalla verità. Eppure ci sono elementi che mi fanno vedere come incompleta questa opinione. Più volte mi è capitato – in margine alle mie attività musicali – di consegnare ai giornali la scheda sul gruppo e sul lavoro. Il giorno dopo, qualche nome sbagliato era il minimo che potesse capitare. Da quei comunicati pubblicati ho appreso di suonare i più diversi generi; il che farebbe anche piacere, solo che fosse vero! L’ultima volta, recentemente, eravamo in una libreria cittadina a presentare un libro. Si trattava dei testi delle canzoni di Cesare Malservisi, un cantautore dialettale bolognese scomparso tre anni fa. Consegnata regolarmente la scheda, un giornale annunciava che durante la presentazione, dei brani sarebbero stati interpretati dal vivo dall’autore…
Errori, buona fede, si dirà… Cose che possono capitare… Non si può mica pretendere la perfezione! E invece sì. Quando un chirurgo sbaglia la mossa, il paziente può morire, e il chirurgo può – in teoria – pagare per questo. Quando un giornalista sbaglia la mossa, guai a chiedergliene conto! Il diritto/dovere d’informare, la tutela delle fonti riservate, la deontologia… Non sono stronzate in sé. Diciamo anzi che non lo erano quando, nel lungo corso della rivoluzione borghese, la stampa libera era mal vista dal potere, come prova l’inserimento della “libertà di stampa” nelle costituzioni democratiche, e come può provare, per contro, l’esemplare vicenda di Anna Politkovskaja.
Ma oggi in occidente e in Italia le cose non stanno più come allora. Oggi c’è chi va in giro per il mondo a “portare” libertà e democrazia, con al seguito, non già dei giornalisti liberi – e penso a Tiziano Terzani -, ma degli embedded, termine che suonerà bene detto in inglese, ma che significa “incastrato”, “cementato”… Niente che assomigli ad un concetto di libertà o solo di capacità di muoversi. Vogliamo tentare di parlare con un giornalista delle palate di letame che l’attuale sistema ha gettato sulle originarie parole d’ordine connesse alla libertà di stampa? Nessuno di loro ammetterà di non essere libero, pur se reclutato. Nemmeno i famosi “addetti stampa” pagati da enti pubblici e privati per passar veline. Ecco, ad esempio, come mistifica Fausto Biloslavo (giornalista triestino di estrema destra, NdR):
“… “Per raccontare la guerra bisogna essere testimoni
sul campo, vedere con i propri occhi ciò che accade, mentre oggi molti giornalisti fanno le loro cronache dall’albergo o aspettando i comunicati ufficiali
dei militari, senza cercare le storie. Attualmente fare questo in Iraq è troppo rischioso per cui chi decide di andarci si trova davanti ad una scelta:
andare lì e rimanere chiuso in albergo, fare il proprio lavoro da unilateral, rischiando quello che è successo a Giuliana Sgrena, oppure essere incorporato
nelle truppe e diventare giornalista embedded”.
“Quest’ultima via, che io ho provato personalmente, attualmente è l’unico metodo per poter raccontare quello che accade in quel Paese, senza rischiare
seriamente la vita. Bisogna fare di necessità, virtù. Adattarsi a raccontare le piccole storie per dare l’immagine globale di quello che sta accadendo.
Nonostante per fare questo tipo d’esperienza si debba sottoscrivere un contratto che pone dei limiti nelle possibilità di movimento, io stesso ho potuto,
sotto approvazione militare, violare in parte quegli accordi. Quindi il giornalista embedded non può essere definito giornalista-servo”.
Ah no? E cos’altro è un servo se non uno che si genuflette e si scappella davanti al signore e padrone, e che compensa l’eccesso di frustrazione accumulata, rubando dalla dispensa qualche fetta di salame? Può essere mai questo vero giornalismo? Rubacchiare qualche notizia/fettadisalame, ingenuamente pensando che nessuno se ne accorga, quando è proprio in base a questo equivoco crinale che funzionano i rapporti padrone/servo?
E veniamo a noi lettori. Idee chiare sulla stampa e sulla sua funzione, erano diffuse fra la gente ben prima che Howard Zinn e altri pubblicassero Tutto quel che sai è falso. Manuale dei segreti e delle bugie, Trad.it., Nuovi mondi media, 2003.
A Bologna Il Resto del Carlino era chiamato in dialetto al busèder (il bugiardo). Sarà stata propaganda comunista a favore de L’Unità, penserà qualcuno. E questo deve essere uno di quei pochi casi in cui “a pensar male si fa peccato” e non ci si prende. Il pre-giudizio era più antico e più esteso, visto che il più prestigioso La Stampa di Torino era parimenti definito La busièrda.
Con grande cautela, mi butterei a dire che l’unico luogo veramente attendibile della stampa quotidiana è quello dei necrologi. In attesa di essere smentito, mi azzardo anche a sostenere la tesi per cui, nelle comunità abbastanza coese, condividere la nozione di chi “ci” ha lasciato, aiuta a definire quel “noi” (membri della comunità) che funge da spartiacque con il “loro” (chi ne è fuori). Veridiche sono anche, nella medesima prospettiva, le notizie sui matrimoni. Ad esempio, giusto pochi giorni fa la prima pagina locale di Bologna del Carlino riportava in evidenza il matrimonio di Stefano Bonaga, un personaggio presentissimo in città dal ’68 studentesco in poi. Ecchissenefrega? Per l’appunto… Mettere in prima una notizia così non significa che non è successo niente di più rilevante; ma solo che si evita che l’attenzione della gente cada su qualcos’altro.
Strategia consapevole o miseria culturale non saprei. Magari un combinato disposto delle due.
Per tornare sul tema dell’informazioni sui rifiuti in Campania, qui si parla di tutto, ma di due cose almeno si tace.
La prima. A Napoli era pronto nel 2003 un piano particolareggiato per la raccolta differenziata.
La seconda. Il neoassessore campano Walter Ganapini, in un sopralluogo, scopre nel casertano una discarica già pronta e legalmente a norma, ma mai adoperata.
Se queste due cose io le so, è perché da qualche parte le ho lette. ma qui non è importante sostenere la mia idea che sarebbero state da mettere in prima e riprese nei giorni successivi. Qui voglio sostenere che, riportare notizie come quella del petardo legato alle bombole di gas, per di più non confermata dalla polizia, significa oscurare le altre due notizie, le quali impongono domande e pretendono risposte e assunzione di responsabilità.
Per un intellettuale è possibile essere al contempo vittima e complice di tutto questo. Marco Rossi-Doria è personaggio piuttosto noto, ad esempio come esponente dei maestri di strada. Ritenendolo capace di incidere su una parte dell’opinione pubblica, l’edizione napoletana di Repubblica del 6 giugno gli dà spazio. Leggiamo.
“Non pensiamo, evidentemente, che in un mese a Napoli si possa organizzare la raccolta differenziata vera e propria, quella ‘porta a porta’ che il Consiglio comunale ha pur deciso di sperimentare in alcune aree campione e che deve continuare. Proponiamo un passo più deciso in tale direzione. E che a partire dal primo luglio, per rispondere all´emergenza, tutti i cittadini debbano obbligatoriamente conferire i loro rifiuti organizzandoli in casa in tre sacchi forniti dal Comune: uno piccolo (verde) dove mettere il materiale organico, ovvero quello che puzza, marcisce e non si può tenere a lungo in casa; uno, che può essere anche una scatola (bianca con croce rossa) dove conservare i rifiuti pericolosi (pile, medicinali, acidi, solventi, vernici) e uno grande, traslucido (rosso) dove mettere il resto (imballaggi, carta, cartone, lattine).”
Bravo, maestro Rossi-Doria! Saranno dunque la bandiera italiana e la croce rossa a tirarci fuori dalla cacca? Questo è dunque il ruolo dei giornali e dei giornalisti, professionisti, pubblicisti e opinionisti?
E’ chiaro che andrebbe avviata una grossa e profonda riflessione che ridefinisse le questioni, non assumendo il mondo dell’informazione come un tutto inscindibile, comprendente al medesimo tempo Giuliano Ferrara e Marco Travaglio, Emilio Fede e Milena Gabanelli. Sciogliere l’ordine dei giornalisti non è che un aspetto del problema. C’è da dissolvere il concetto stesso di giornalista; per un verso sclerotizzato nei suoi aspetti autoreferenziali e di carriera, per un altro verso dilatato a coprire ambiti che, più che con l’informazione, hanno a che fare con la macchina ideologica e del consenso, quando non con lo spettacolo tout-court.
Gli abitanti di Chiaiano, della Val Susa o di Vicenza – come tutti noi quando dovessimo essere coinvolti in qualcosa di grosso – non possono contare sui media per aver ragione. Devono inventarsi qualcosa per aver ragione dei media. Sono interessati loro e siamo interessati tutti noi.
[Sulla questione rifiuti in Campania è opportuno vedere il bel video Vietato respirare, e leggere il dossier dedicato alla questione da Info-Aut.] (V.E.)