di Saverio Fattori
Tutti i capitoli di “Cattedrale”
La capo-reparto ha colto qualcosa, deve avere intuito che non parlavamo amichevolmente quando ho impugnato l’avvitatore. Ci guarda dal tavolino su cui compila le carte della produzione, ci viene incontro, mi chiede se voglio il cambio. Il Frank lo chiamano nel piazzale. Il camion di un fornitore avrebbe già dovuto essere in scarico e non se ne ha notizia. Si rischia un fermo-linea per una guarnitura mancante. Hanno quantificato due ore di autonomia, ma le ragazze non rallentano il ritmo, non capiscono che potrebbero rilassarsi, la competizione continua, sembrano ipnotizzate. Tutto a posto? dice la tipa che afferra il carretto per darmi il cambio. Tutto a posto le dico e mi allontano.
In bagno sono colto da una scarica di colite violenta. Vado a intervalli regolari con frequenza normale, ma faccio solo robaccia liquida e puzzolente oltre ogni limite. Tiro l’acqua, ma non posso aprire la finestra, fuori fumano. Pensavo fosse colpa delle sostanze da taglio, oggi ho dubbi e non saprei datare l’inizio dei disturbi. Per non avere problemi di dipendenza assumo eroina solo per tre giorni, al centro della settimana operaia. Martedì, mercoledì e giovedì. I tipi come il Frank fanno esattamente il contrario. Assumono droghe euforizzanti, ma solo nel fine settimana. La domenica è dedicata alla fase di decompressione, al recupero. Per la settimana lavorativa o di studio si tengono lucidi e stronzi, lontani dal baratro della deriva definitiva. Le forze dell’ordine li lasciano stare, non intervengono nei loro piccoli traffici innocui. Sono ragazzi ben integrati nel tessuto sociale, sfogano modeste esigenze di trasgressione dando fuoco a qualche registro scolastico. Non saranno mai delinquenti comuni, non oseranno mai sfidare apertamente il sistema, ne condividono le regole. Non si interessano mai di politica. Non erano a Genova, e comunque, a giudicare dai servizi del Tg 5, Carlo Giuliani se l’è cercata. Si limitano a ipotizzare roghi nei campi Rom dal bancone di un bar attrezzato per gli aperitivi. Vorrei, per gente come il Frank, una morte lentissima e dolorosa.
Mi arriva alle spalle. Dopo che ho cagato la sudorazione aumenta e sono scosso da colpi di tosse secca. Mi rimangono un paio di minuti al massimo, poi devo raggiungere il carretto, così che la facilitatrice possa continuare a dare i cambi. Armeggio nell’armadietto e nelle tasche del giubbotto, perdo di vista il telefonino e la chiave per la macchinetta del caffé. La sua voce mi arriva come una frustata.
– Mio padre ti conosce. Ha qualche anno di più, ma si ricorda di te.
– Non conosco nessuno in questo paese di merda. Non rompere i coglioni, devo andare.
– Ti dico che si ricorda benissimo. Sa tutto di te. Mi ha raccontato. Dice che alle superiori eri il più intelligente della scuola. Così almeno dicevano certi professori. Pareva brutto aprire i libri di matematica. Troppo volgare per un tipo come te. Poi a metà anno ti sei ammalato e sei sparito. So anche che malattia era. So anche chi la prendeva. E come.
– Era una scuola di rincoglioniti. Non avrebbero dovuto farli riprodurre.
– Quel rincoglionito di mio padre è architetto, è nel gruppo consigliare di maggioranza, assessore all’urbanistica. Decide dove costruire e se costruire. Non so se hai idea della responsabilità e del potere. Questo è un paese molto ricco, un’isola dove le cazzate del comunismo non hanno mai attaccato. Non so se hai idea dei privilegi connessi all’attività di mio padre. Sì che ne hai idea. Dimenticavo che sei una specie di genio. Saprai anche che mi hanno allungato il contratto mentre tu andrai filato in cassa integrazione. Fare il mulettista è comodo, ti lascia un sacco di tempo libero. Ma non ti preoccupare, non lo sto sprecando. Mi guardo attorno e penso a qualcosa da fare. Adesso è meglio che vai. La capa ti sta guardando male.
Un flash mi squarcia il cervello. Ora ricordo benissimo il padre del Frank, anche se il cognome è molto comune dalle nostre parti. Un tipo ossequioso con il corpo insegnanti, recitava una vena polemica molto soft con i professori più miti. Praticava un nonnismo non troppo violento con le matricole. Con me lasciava perdere. Non ispiravo né simpatia, né accanimento. Il lunedì arrivavo con il timbro del Chicago sul dorso della mano che non sbiadiva prima del mercoledì seguente. Era la discoteca dei drogati, ma incuteva un certo rispetto anche tra chi rigava dritto e non deludeva i genitori. Era un locale noto a livello europeo, potevi fumare hashish sui gradini della galleria, era un vecchio cinema, nei bagni la gente si bucava. Ci lavoravano dj mitici, nastri registrati e adesivi avevano un mercato fiorente. Nessuno andava al Chicago a rimorchiare ragazze. Ci si spostava a branchi e si evitavano osmosi amorose tra le diverse compagnie. Era importante esserci. Eri al Chicago e questo bastava a urlare un’esistenza di frontiera. Se avevi quel timbro sulla mano eri una specie di disadattato, ma potenzialmente pericoloso, uno che sarebbe finito male, morto presto, ma che era meglio per il momento non disturbare.
Anche in fabbrica non ispiro né simpatia, né accanimento, ma oggi non so come reagire alle provocazioni del figlio del rappresentante di classe della IV A. Ero riuscito a ignorare i padri, quelli più o meno della mia generazione. In apparenza non mi avevano danneggiato, avevo evitato collisioni. Adesso però decidono il piano regolatore e assegnano appalti di costruzione nel quartiere popolare dove ho la tana. E hanno generato mostri.
Chissà cosa gli ha raccontato il padre sul mio conto. Avevamo frequentazioni diverse. A quella età i pochi anni che ci separavano facevano la differenza. Fuori dalla scuola non lo ricordo, non ricordo che compagnia frequentasse, su di me dovrebbe avere solo informazioni di seconda mano, maldicenze paesane acquisite in famiglia. Forse in età scolare era sopravvissuto senza eccellere in alcuna attività, fino alla prima e unica fidanzatina, la madre del Frank. Il nostro istituto era tra i più rigorosi della provincia. O eri un secchione e dovevi bruciarti i pomeriggi della giovinezza sui libri, o eri un genio. Il padre del Frank non era un genio. La vita di provincia premia i mediocri con diplomi e assessorati. Io facevo vita randagia, inadatto a ogni disciplina ero saltato in aria a sedici anni. L’anno della vertigine che tutto ingoia, quando i nervi esprimono la massima tensione, l’ipersensibilità ti espone alle intemperie e tutto ferisce a morte Trattasi della condizione più onesta e dolorosa, il resto dell’esistenza è mediazione, quasi morte. Eppure sopravvivi per errore e vaghi come un’anima in pena che non trova pace, fino a che non ti accolli un mutuo e ti danno un carretto da riempire con materiale d’assemblaggio dentro la fabbrica del paese. Perché il paese sa perdonare, ma non dimentica, la terra, le pietre hanno memoria. Ti prendevi gioco dei bravi ragazzi che studiavano tutto il pomeriggio e adesso decidono della tua esistenza.
Dovevano castrarli quelli della IV A.
Ma visto che non li hanno castrati, devo trovare una strategia. I dissidi in Cattedrale sono stemperati tra veleni e silenzi. Raramente si scende allo scontro aperto, si gioca di sponda, si cerca di danneggiare il nemico inquinando l’acqua in cui nuota, non lo si arpiona. Ci si barrica cercando alleati e identificando nemici.
La novità va affrontata. Il Frank si concede qualche sostanza anche nella settimana lavorativa. Ha le pupille dilatate sotto la luce solare che arriva obliqua dai finestroni, parla troppo e non ascolta, fuma di continuo, ovunque. Inizio a pensare che si è rivolto a me in condizioni alterate, ma con ragionamenti lucidi. Devo aspettarmi sbalzi di umore e comportamenti spiazzanti. Non sarà sempre aggressivo, ma è inutile trattare un armistizio. Lui ha attaccato per primo. Devo guadagnarmi il suo rispetto, incutere timore, senza diplomazia. Saranno i fatti a determinare un cambio di situazione.