di Daniela Bandini
Giorgio Bona, Chiedi alle nuvole chi sono, ed. Besa, 2008, pp. 160, € 13,00.
Se è vero che anche l’occhio vuole la sua parte, questo ultimo lavoro di Giorgio Bona può senz’altro vantare un impatto visivo notevole. Bella la copertina, la scelta della foto, che riproduce la sostanza della realtà contadina di appena qualche decennio fa. Un giovane seduto su un mucchio di granoturco intento a spannocchiare, di lato si intravede una ruota di bicicletta, il giovane sorride, pare sorpreso, non era così immediata, allora, l’assonanza di riproduzione istantanea e quotidiano. Una foto era anche una spesa, da valutare: generalmente ne troviamo di gruppo, partendo dai bisnonni per lo più seduti fino ai bambini in fasce. E più le generazioni sono datate all’indietro più riconosciamo la miseria di quegli anni; anche indossando gli abiti migliori, non la si poteva nascondere.
Quasi ci fa tenerezza lo schietto e sincero tentativo di trasmettere un benessere diverso dalla cruda realtà applicando una parvenza di scenario teatrale in sottofondo. Quelle foto che ci trasmettono come nient’altro la visione di un mondo in bianco e nero, che è meglio non rimpiangere, impregnato com’era di fatiche oggi inconcepibili, malattie da denutrizione, superstizione e discriminazione sessuale. Per questo ritengo che questa foto sia così bella, particolare, anche se probabilmente estrapolata da una immagine collettiva.
Il romanzo di Bona è altrettanto fresco. E’ la volontà di riemergere dall’oscurità della memoria, con i suoi drammi, le sue tentazioni, catapultandoci in un mondo senz’altro meno complesso e competitivo, e dove, se troviamo competizione, è per lo più indirizzata alla mera sopravvivenza, alla pagnotta di pane, al fiasco del vino. Sembra di guardare a una generazione tutta bambina, euforica o rassegnata, piena di slanci o passiva, fatalista, inerte o esuberante. E l’esuberanza è certamente la caratteristica fondamentale dei nostri personaggi.
Immaginate un ragazzino, sui 10-12 anni, “tirato su” dai nonni, un padre che è universalmente considerato il matto di famiglia, pieno di progetti che si ostina a voler realizzare, tutti invariabilmente fallimentari, mandando ogni volta in rovina il già dissestato bilancio familiare. Ne cito alcuni: piantagioni di alberi da frutto, nello specifico meli, garantiti dalle gelate invernali. Rifugio per animali selvatici, con vendita di prodotti tipici della zona, (una sorta di agriturismo ante-litteram), pensionato per viaggiatori o villeggianti, e infine il contrabbando, nello specifico di sigarette. Già, perché i fatti si svolgono al confine tra l’Italia e la Francia, e allora i confini erano una cosa seria: invalicabili, rappresentavano la minaccia o la liberazione. Rappresentavano la franchigia o la prigionia, e la guardia era una potenza che faceva la differenza tra il passare un inverno con la dispensa vuota oppure piena. I contrabbandieri con il fiato sul collo, giocando sui metri che delimitano il confine, povera gente che cerca di raggranellare qualcosa in un territorio dal clima ostile, che pesca le trote di frodo. Questo ragazzino, insomma, vuole partecipare alla vita familiare, pensa di avere un’età sufficiente per farlo. Vuole dare il suo contributo, vuole un ruolo da protagonista almeno in quest’ultima avventura: si unirà al nonno e al padre, ne vuole condividere le sorti, la vittoria o la sconfitta, rappresentati da un carico di sigarette che garantirebbe alla famiglia tutta almeno un anno di benessere. Un benessere costituito da qualche formaggio, da vecchi debiti finalmente saldati per poter camminare a testa alta, da qualche pecora in più, magari da un cucchiaio di zucchero da aggiungere al latte alla mattina senza troppa parsimonia, senza provare rimorsi, senza che altri ne debbano fare a meno.
Il nonno, un passato di emigrante in Argentina, un passato che riaffiora nei momenti di sconforto, amarezza, con i sensi di colpa di chi ha lasciato l’adorata moglie a crescere un figlio da sola, è per il ragazzino il pilastro sul quale contare. Il nonno, nel nipote, vede la sua secondo possibilità, gli dedica tutto il suo affetto, la sua protezione, quella che non ha garantito al proprio figlio. E infatti pur rimproverando continuamente a quel ragazzo già uomo fatto che deve decidersi, che deve fare qualcosa di costruttivo nella sua vita, che deve trovarsi finalmente un benedetto lavoro che porti dei soldi a casa, ricorda con ammirevole onestà che anch’egli ha mancato nella sua giovinezza, riportando dall’America a malapena la pelle, altro che soldi e benessere per tutti. L’esperienza cruda dell’emigrante bistrattato e denigrato, in un’Argentina dal clima ancora più irrazionale di quello lasciato in Piemonte, spietato; l’Argentina dal coltello a serramanico costantemente pronto a scattare, delle bande suddivise per appartenenza geografica, della prevaricazione sul più debole.
Il nonno, una figura leggendaria. Accudisce con affetto, con devozione, vorrebbe pur proteggere quel nipote che per lui significa tutto, da tutti i mali del mondo, e per questo è disposto a rischiare stavolta: un carico di sigarette per un futuro migliore. Il padre. Cosa sarebbe il mondo senza l’estro, la creatività, l’esuberante stato di euforia di gente così… Persone che amano la vita alla follia, che ridono delle disavventure, dei fallimenti, che improvvisano concerti con la sola armonica facendo ballare piazze intere, che alzano le spalle ridendo a crepapelle anche di fronte alla malattia, alle ferite più gravi. Tutte sciocchezze, musica, un po’ di grappa, qualcosa da mettere sotto i denti e si riparte, in cerca dell’occasione che prima o poi arriverà: quella che cambierà la vita.
Giorgio Bona riesce a coinvolgere il lettore che disperatamente si chiede come andrà a finire, se il camion ripartirà finalmente, se il carico si salverà, se le ferite guariranno, se al ragazzino passeranno le febbri, se le cure del nonno, notti intere su una sedia a passargli pezzuole bagnate sul viso, lo vedranno finalmente guarito. Il nonno, fiero della sua famiglia. Così com’è, semplicemente così com’è. Che bella lezione, questa.