di Giancarlo De Cataldo
Giovanni Maria Bellu, L’uomo che volle essere Perón, Bompiani, pp. 356, € 19,00.
[Parlando di questo libro in una multi-recensione apparsa su Repubblica on line l’8 maggio, Dario Olivero scriveva:
“Si parla molto in questi giorni di un nuovo filone della letteratura italiana che è stato chiamato New Italian Epic, tanto difficile da definire quanto forse immediato da intercettare quando si incontra. Ecco un esempio.”
Su L’Unità del 20 maggio, lo scrittore Giancarlo De Cataldo recensiva la stessa opera, aggiungendo prospettiva a quell’osservazione.]
Questo è un gran bel libro. Contiene tre storie. La più antica comincia in Sardegna cent’anni fa. E’ la storia di un ragazzo di Mamoiada di nome Giovanni Piras che s’imbarca sul piroscafo dei sogni e se ne va in Argentina in cerca di fortuna. La seconda comincia anch’essa in Sardegna, non si sa bene quando nè come nè perché, e nemmeno se sia una vera storia o non, piuttosto, una leggenda. E’ la storia di come l’emigrante Giovanni Piras sia diventato Juan Domingo Perón, a lungo signore e padrone dell’Argentina. La terza e ultima storia comincia quando il Giornalista, l’io narrante di questa seducente avventura, sente parlare per la prima volta della faccenda Piras/Perón.
E’ la storia delle storie, quella che affascìna le altre due sotto il segno del rapporto fra un giovane esploratore della vita, con la sua carica di rabbia, speranza e utopia, e il suo anziano padre, il Vecchio, con il suo fardello di sconfitte, delusioni, rassegnazioni.
In principio, le tre storie scorrono parallele. Qualcosa di profondamente intimo, una sorta di condivisione del dolore che annulla le differenze spaziali e temporali, sembra accomunare Piras, Perón e il narratore. A ciascuno di loro la vita ha presto tolto qualcosa: la madre, la famiglia, la possibilità di immaginare una vita “altra”. Il Piras che abbandona Mamoiada per l’avventura argentina, cercando, come tanti di quegli emigranti che turbano i sonni dei nostri intellettuali & governanti, un lavoro, una casa, un amore, una dignità, non è poi tanto diverso da quel Perón che spunta dal nulla, già adulto e autorevole, per cambiare la storia del suo Paese. Come se qualcuno gli avesse rubato l’infanzia. Come se niente prima della presa del potere fosse esistito. Nemmeno il cavaliere che avrebbe compiuto l’impresa. E tutti e due, Piras e Perón, non sono forse così simili al narratore, presto orfano di madre? Tre ragazzi a cui il destino ha tolto qualcosa, tre giovani che la vita chiama a dure prove, tre progetti umani impegnati a decifrare l’oscuro mistero dell’esistenza. Da un certo momento in avanti, la storia del Perón sardo sembra prendere il sopravvento sulle altre. Accade quando l’inchiesta prende corpo. Quando i testimoni squadernano sotto gli occhi dapprima scettici, poi sempre più coinvolti, del narratore, un’impressionante catena di coincidenze. Grazie al mito, il narratore riesamina il rapporto con il Vecchio. Amore e rispetto, ricambiati e condivisi, certo. Ma alla maniera sarda. Con nobiltà e fierezza, eppure consumandosi nella vana speranza che un abbraccio caldo e devastante spazzi via il ritroso pudore del “non detto”. Ed è proprio il “non detto” a cementare il percorso indiziario, e a sostanziare l’ipotesi che non di una leggenda si stia parlando, ma di uno dei più riusciti e inquietanti falsi dell’intera Storia contemporanea. Perchè un bel giorno Giovanni Piras scompare e di lui non si sa più nulla? Perché Peron tace del suo passato, o lo mistifica con il concorso di compiacenti biografi? Qualcuno, a questo punto, potrebbe domandarsi: ma di che libro si sta parlando? Di un romanzo, di un saggio, di un’inchiesta? Questo Bellu è un giornalista, uno storico o un romanziere? Il galateo culturale, che si sostanzia di una rigida suddivisione per specie e generi, sconsiglia pericolosi esperimenti. Che gli storici facciano il loro mestiere, vagliando gli indizi e verificando la possibilità che si facciano “prova provata”. Che i giornalisti si astengano dall’inquinare la ricerca con deviazioni narrative. Che gli scrittori si tengano lontani dalla Storia, ciascuno pago della propria stia di competenza. Critici astiosi e giannizzeri dell’ortodossia si incaricano di pattugliare la “zona rossa”. Ogni sconfinamento esige severa repressione. Ma da un po’ di tempo si comincia a pensare che lo storico, il giornalista e lo scrittore non siano necessariamente tenuti a fermarsi sul limitare del regno della congettura. Che possano osare di addentrarsi nel territorio del possibile, e di esplorarlo con la forza della metafora. Un sempre crescente numero di autori ha preso ad aggirarsi nella terra di nessuno fra autobiografia, ricostruzione storica, reportage e finzione. Wu Ming 1 ha lucidamente parlato di “new italian epic” e di “oggetto narrativo non identificato”. Bellu può a buon diritto far parte della compagnia.
Quando affronta temi epici e epocali. Quando, ignorando gli avvertimenti degli occhiuti guardiani della soglia, varca il confine e completa il quadro indiziario immaginando il possibile esito di una confluenza fra due esistenze, quella dell’emigrante e quella del Dittatore, che non avevano nessuna ragione per sfiorarsi. Non diremo come le tre storie, alla fine, si ricompongano. Né se l’ipotesi sia confermata o meno. Bellu si è messo sulle tracce di un segreto, lo ha indagato, strada facendo ha ritrovato se stesso e le sue radici, e alla fine ci ha consegnato un racconto in forma di mito. Che sia un mito con qualche fondamento o meno, in fondo, non ha nessuna importanza. Ciò che conta sono le storie che i miti alimentano, la loro qualità, la ricaduta che hanno sulla vita di ciascuno di noi. Come scrisse Joseph Campbell, a una sola cosa, dopo tutto, servono i miti: a vivere meglio.