di Girolamo De Michele

[Intervento inviato al Convegno Internazionale
“Quale memoria per il noir italiano? Un’indagine pluridisciplinare”, Louvain-la-neuve (Lovanio), Belgio, 15-16 maggio 2008. Una versione ridotta di questo testo è apparsa sul quotidiano “Liberazione” il 15 maggio.]

1. Nel quarto libro dell’Odissea [vv. 351-570] viene narrato l’incontro tra Proteo, dio multiforme capace di divenire «ogni cosa che in terra si muova, e acqua e fuoco che prodigioso fiammeggia», e Menelao, che istruito da Eidotea riesce ad afferrarlo e tenerlo finché il vecchio dio, stremato, gli rivela quale dio lo perseguita impedendogli il ritorno, quali sacrifici fare per placarlo, attraverso quale via fare ritorno a casa.
Ottenute le informazioni necessarie, Menelao chiede, e ottiene, la verità sul destino degli altri eroi greci ritornati da Troia — giacché «gli dèi sanno tutto»: apprende così della tragica fine di Aiace e Agamennone, e dell’esilio di Odisseo «nella dimora della ninfa Calipso».

proteo.gifIl mito di Proteo è stato interpretato come allegoria della conoscenza. “Afferrare Proteo”, fargli violenza significa ricondurre entro forme stabili quel reale che «continuamente si trasforma» (Hegel, Enciclopedia) permanendo in una falsa infinità: «qualcosa diventa un altro, ma l’altro è esso stesso qualcosa, e quindi diventa egualmente un altro, e così all’infinito»; d’accordo con Hegel, Goethe interpreta Proteo come natura mutevole, laddove Menelao sarebbe per il poeta la comunità scientifica (lettera a Riemer, 1 marzo 1805). In questa chiave il mito di Proteo giunge sino ai giorni nostri: che si tratti di saper comprendere i mutamenti sociali che attraversavano l’Emilia degli anni Sessanta, dove l’operaio si faceva piccolo imprenditore (così negli anni ’60 Togliatti, la cui penna era imbevuta di dotte citazioni tanto quanto le sue mani del sangue degli anarchici e dei trotzskisti) (1), o di ricondurre ad unità giuridica le molte tipologie dei contratti di lavoro (così negli anni ’80 il giuslavorista Ghezzi), afferrare Proteo indica l’azione con la quale la mente afferra, unificandolo, il reale. Resta però sullo sfondo, in queste letture, la dimensione narrativa del mito. La vicenda di Proteo e Menelao è infatti un racconto che Menelao fa a Telemaco; all’interno di questo racconto è inserito il racconto della strategia da attuare che Eidotea fa a Menelao; e Proteo, a sua volta, si piega al vincitore raccontandogli il suo (di Menelao) futuro, ma anche ciò che Menelao non è in grado di apprendere con i propri occhi, e che viene da Menelao narrato a Telemaco. Questa catena di racconti parte dagli dèi che sanno tutto, che sanno dare forma – che danno una visione d’insieme a quel tutto che appare proteiforme; la trasmissione di questo sapere è un parlare che trasforma una conoscenza altrimenti impotente. Il raccontare è un cogliere che mette in moto un’azione: un sapere performativo.

titanic.jpg2. In tempi recenti questa necessità del raccontare per agire è presente nell’ultimo lavoro del sociologo Aldo Bonomi ( Il rancore), che più volte rimarca la necessità di saper raccontare la società per poterla non solo interpretare, ma creare: per «fare società». Anche Zygmunt Bauman, in Paura liquida ha insistito sulla necessità di scongiurare la «catastrofe inevitabile» narrandola «nel modo più appassionato e rumorosamente possibile», concludendo un libro che si apriva con le catastrofi narrate dell’uragano Katrina (da Timothy Garton Ash) e del Titanic (da Jacques Attali).

Cercare di cogliere il molteplice con un colpo d’occhio è un gesto che si oppone al postmodernism volgare e alle sue derive. Il postmodernismo, quella buona moneta ai tempi di Lyotard che rapidamente s’è inflazionata e scaduta a giustificazione dello stato di cose esistente: lo spirito postmoderno che «come un Proteo vago or in questa or in quell’altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi» (Giordano Bruno, De gli Eroici Furori) si ferma al mero almanaccare degli eventi, li assume come oggetti naturali, senza indagarne né criticarne la genesi (naturalismo ingenuo che ignora l’esistenza di una seconda natura). Una variante del postmodernismo volgare è l’idea che tutto sia rappresentazione, che dietro i fenomeni non vi sia alcunché di concreto: quando tutto è seconda natura, la realtà ingenua messa alla porta rientra dalla finestra, mentre il critico si compiace del suo lessico forbito e placidamente si accomoda nel salotto del proprio linguaggio nel quale tutti i gatti sono bigi. Che “tutto sia forma” o “rappresentazione”, o che tutto sia natura ingenuamente assunta sono due facce della stessa medaglia: in qualche caso anything goes, in qualche altro non tutto va bene, ma in fondo potrebbe…

3. Da qualche anno a questa parte accade che in Italia alcuni scrittori (non tutti) abbiano fatto proprio un atteggiamento critico nei confronti del mondo: e per criticarlo cercano di afferrarlo, di far violenza alla sua sfuggente natura. Spesso questa attitudine a mordere il reale è stata confinata nella letteratura di genere, perché è un fatto che i generi (il noir, il romanzo storico, la fantascienza ecc.) si sono mostrati più adatti a praticare il conflitto, proprio come la sovversione del realismo (letterario e identitario) ottocentesco ha beneficiato di un lungo scavo sotterraneo nei luoghi carsici del gotico. In prima battuta, direi che ciò che questi autori hanno in comune è il prendere sul serio il proprio lavoro. Ad esempio, Gomorra di Saviano, Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones, la trilogia di Magdeburg di Alan D. Altieri, tre libri per ragioni diverse importanti sulla e contro la guerra come condizione nella quale siamo gettati, hanno in comune questo: l’assunzione di responsabilità degli autori che prendono sul serio l’oggetto della propria narrazione [per approfondire vedi qui]. Per contro, i narratori dell’ultima generazione tendono a non prendere sul serio la critica letteraria italiana: e a furia di non prendere sul serio il vuoto pneumatico che la critica (salvo poche eccezioni) esprime, alcuni di questi scrittori, colti da horror vacui, hanno cominciato a lavorare anche sul versante della critica. Uno di questi è Wu Ming 1, che in tre conferenze tenute nel Nord America in aprile ha cercato di “afferrare Proteo” articolando alcune caratteristiche che danno forma a quello che ha denominato New Italian Epic.

È bene spazzare subito il campo da un fraintendimento: cercare di avere una visione d’insieme non significa imporre dei canoni normativi. L’autore omerico che attribuisce tale visione al sapere degli dèi usa il verbo eidon senza presupporre (come farà Platone: ma ci sarebbe da discuterne, e non è il luogo) che esistano forme immutabili alle quali le realtà empiriche debbono tendere. La scienza moderna conosce l’esistenza di “sistemi deterministici non lineari” o “caotici”: sistemi nei quali la vecchia contraddizione tra libertà e determinismo è caduta, nei quali comportamenti casuali danno luogo a figurazioni descrivibili matematicamente. Io credo che questo modo di “afferrare Proteo” sia qualcosa del genere: coglie una curva che collega movimenti narrativi stocastici, casuali, tra loro indipendenti.

Queste caratteristiche sono, in sintesi: il rifiuto della tonalità emotiva predominante nel postmoderno (un impasto di ironia a tutti i costi e di deresponsabilizzazione autoriale); uno “sguardo obliquo”, azzardato, sul mondo; il connubio di complessità narrativa e attitudine popular; la presenza di storie alternative, di ucronie potenziali; la sovversione “nascosta” di linguaggio e stile; la mutazione del genere romanzesco in “oggetti narrativi non identificati” (U.N.O.), non codificabili, sfuggenti; il rinvio a una dimensione extra-testuale o transmediale.
A queste caratteristiche io ne aggiungerei altre due, particolarmente evidenti (ma non esclusive) all’interno del genere noir: l’attenzione al contesto urbano, e l’essere scrittori “col culo in strada”.

L’attenzione al contesto urbano non implica necessariamente un carattere “realistico” del narrato: il contesto urbano può essere un luogo della memoria, come la Dublino dell’Ulysses (o, si parva licet, la Bologna del mio Scirocco), così come un luogo immaginario può essere descritto come una città “reale” (la Vigata di Camilleri). Nel noir italiano il contesto urbano è continuamente attraversato da transiti, linee di fuga, conflitti: è uno spazio non omogeneo, ma granulare, più denso in alcuni punti, più fluido in altri. La Milano (e più in particolare il quartiere Quarto Oggiaro) di Biondillo, i quartieri romani di De Cataldo ne sono un esempio.
“Scrittori col culo in strada”: pochissimi degli scrittori dell’ultima generazione vivono esclusivamente del proprio mestiere letterario: nella maggior parte dei casi sono, volenti o nolenti, costretti ad immergersi all’interno di contesti lavorativi “altri” (fabbriche, scuole, uffici pubblici o privati, palestre, biblioteche, locali musicali), a frequentare molti più ambienti, e molto più differenziati, di altri “scrittori laureati” che, frequentandosi tra di loro all’interno dei propri salotti (metaforici o reali), finiscono per parlare sempre dello stesso piccolo mondo. E alcuni tra gli scrittori che vivono del proprio mestiere non per questo si alienano dalla realtà (penso, ad esempio, ad Evangelisti). Sia chiaro, non c’è nulla di rivoluzionario: erano scrittori col culo in strada Dante, Boccaccio, Ariosto, Michelangelo, Manzoni, Pasolini.

4. Se dovessi a mia volta sintetizzare le caratteristiche elencate, prima di passare ad esemplificarle nel noir italiano, direi che la principale è il prendere sul serio il proprio mestiere, la propria lingua e i propri contenuti, e il lettore che li legge. Prendere sul serio significa non cercare sponde al consolatorio, all’assolutorio. Significa farsi carico del portato etico implicito nel proprio narrare. Mi spiego con un confronto.solfrizzi.jpg In Testimone inconsapevole di Carofiglio la questione migrante è posta in modo assolutamente consolatorio: sembra di capire che se ciascuno facesse il proprio dovere, se ci fosse scrupolo e serietà nell’applicazione del diritto, se — diciamola tutta — ci si liberasse finalmente da quell’indolenza tipica degli italiani (o quanto meno dei meridionali) non ci sarebbero errori giudiziari, e forse neanche una questione migrante. Per fortuna prima o poi arriva un brav’uomo (nel caso, l’avvocato Ferrero, una specie di Alberto Sordi adriatico: autoassolutorio per sé e per chi lo legge) che rimette le cose al loro posto. Manchette, che del noir è stato anche critico severo, sosteneva che il giallo classico descrive un mondo nel quale il conflitto di classe è stato rimosso, e la turbativa dell’Ordine Costituito è un accidente casuale. Nei gialli di Carofiglio si assiste, sotto mentite spoglie, all’apologia del connubio Legge-Ordine, senza che vengano mai sfiorate le ragioni di sistema che producono il migrante-deviante. Al contrario, ne Il giovane sbirro di Biondillo (ma potrei anche citare i romanzi di De Cataldo) appare chiaro che l’eccezione, date le condizioni di sistema, non è il migrante finito in quei Lager italiani che chiamiamo Centri di Permanenza Temporanea: il problema è semmai, dato un sistema criminogeno che necessariamente produce devianza sociale, perché ci siano migranti che non sono incarcerati nei CPT. Torniamo a Manchette: nel noir «la lotta di classe non è assente come nel romanzo ad enigma; semplicemente, gli oppressi sono stati sconfitti e sono costretti a subire il regno del Male». Il romanzo italiano dell’ultima generazione (e, al suo interno, il noir) mostra un’esplicita consapevolezza di questa catastrofe. Basta pensare ad Ammaniti, il più noir, come ambientazione, dei nuovi romanzieri: i suoi romanzi sono la descrizione delle forse irredimibili rovine lasciate dal conflitto di classe, sulle quali si agitano gli sconfitti, i reietti, gli esclusi.

american_tabloid.jpg5. Ma il noir (vengo alla seconda parte del titolo che ho dato a questo intervento) sembra essersi assunto una più alta ambizione: partire dalle rovine per narrarne la genesi. Le la genesi delle rovine tra le quali viviamo è quell’intreccio di misteri, segreti, arcana imperii che ha sotteso e governato la storia dell’Italia repubblicana. Come Ellroy, non importa se consapevolmente o meno, il romanzo italiano cerca ambiziosamente di dire l’indicibile. L’operazione non è agevole: il narratore deve far sì che sia il lettore a colmare quelle lacune. È bene essere chiari, dal momento che questo intervento si rivolge a un consesso non-italiano: ci sono, nella storia delle trame nascoste italiane, dei personaggi-chiave che hanno probabilmente commesso crimini non solo in Italia, ma anche fuori (nella Spagna franchista, nel Sud America degli anni dell’Operazione Condor), ma il cui nome non può esser fatto, pena l’immediata querela. Come dire l’indicibile? Riprendo qui alcune caratteristiche del noir che ho esposto altrove, in un testo che fa parte dei materiali del convegno, e che mi sembrano assolutamente coerenti con le caratteristiche del nuovo romanzo italiano.

i. Uso del metodo induttivo. L’assenza di un esplicito quadro deduttivo induce il lettore a dubitare dell’esistenza di un ordine “naturale”, e lo porta a costruire un ordine, cioè un senso: a sospettare dei segni, sempre e comunque. I “Montalbano” di Camilleri sono un chiaro esempio di senso “inventato” (cioè trovato) per caso.

ii. Uso dell’allegoria. Il carattere non-riconciliato col mondo, la dimensione “singolare” dei personaggi, l’eccentricità del punto di vista (nel mio Scirocco un funerale è narrato dal morto, che sembra guardarlo dall’alto) la voluta estraniazione all’ordine sociale (sino al cinismo usato come difesa contro l’omologazione disciplinante: penso all’Alligatore di Carlotto) accentuano la dimensione allegorica del noir. L’allegoria è una funzione della mente libera da condizionamenti disciplinari. Dopo la fine delle “grandi narrazioni”, la funzione allegorica sta al crogiolarsi nell’accettazione naturalistica dello stato di cose esistente come il nichilismo attivo sta a quello passivo, come l’uso del giudizio critico sta all’affievolimento della facoltà di giudicare. La dimensione allegorica spinge il lettore a far slittare il significato al di fuori della trama, nel “gran libro del mondo”. Con buona pace di una critica sciocca che ironizzava sui «romanzieri odierni affascinati dai complotti» (2), il significato slitta dalla trama figurae (l’ossatura) del romanzo alle tramas putridas (i marci stracci) della storia patria.

brother_kitano.jpgiii. Uso della dimensione tragica. De Cataldo ha costruito Romanzo criminale a partire dall’attualizzazione della dimensione tragica massa in scena da Takeshi Kitano in Brothers. La dimensione tragica, nella narrativa noir contemporanea, mantiene il senso archetipico di un universo privo di senso, nel quale dio non esiste (e se anche esistesse non potrebbe alcunché). Da qui la tonalità cupa che pervade il nord-est di Carlotto o la provincia di Ammaniti, ma anche la fabbrica di cui sta scrivendo Fattori in Cattedrale. Il noir disillude il lettore sulla possibilità di un deus ex machina che modifichi il corso della storia, e dice al lettore a chiare lettere: non ci sono santi né miracoli, se vuoi qualcosa devi rimboccarti le maniche e cercare di cavartela con le tue forze. In un paese nel quale migliaia di “fedeli” venerano madonne piangenti e santi presunti, non è cosa da poco.

iv. Uso della sovversione nascosta della dimensione linguistica. Il noir usa registri linguistici quali il linguaggio cronachistico, la sottrazione paratattica di termini all’interno della frase (Genna, De Michele), l’esplorazione delle possibilità delle parlate (De Cataldo), dei dialetti, di gerghi in metamorfosi tra la lingua “toscana” e il dialetto (Camilleri). Cos’hanno in comune queste esplorazione (a parte il non essere colte da quei critici che hanno bisogno della luce al neon che si accende per segnalare la presenza di una “sperimentazione”)? Una sottrazione di elementi significanti. Il linguaggio del noir dice il meno possibile, e costringe il lettore a riempire i vuoti, a rimediare ai termini apparentemente asignificanti, a tradurre la lingua del romanzo in un’altra lingua mentale. Il noir consegna al lettore il canovaccio significante, e gli lascia il compito di completarlo. Così facendo, compie sul piano dell’espressione la stessa operazione che compie sul piano del contenuto: non potendo dire i nomi, lascia che quei nomi vengano trovati dal lettore. Consegna l’indicibile alla lingua mentale del lettore, che nel flusso di una lingua che va da un narrare a un narrato “inventa” (cioè, al tempo stesso, “trova” e “crea”) ciò che doveva essere detto.

6. Nella nota conclusiva del suo romanzo ucronico Il signor figlio, Alessandro Zaccuri si fa vanto di aver violato il precetto di Monaldo Leopardi: «Meglio è tacere una storia, che narrarla ingombrata di fole». In un’Italia che sempre più assomiglia a quella desiderata dal conte Monaldo, la pecora bianca della famiglia Leopardi, disobbedire ai suoi precetti è ben più che un vezzo: è un dovere etico.

NOTE

(1) Questa nota su Togliatti è suonata offensiva o “anticomunista” alle orecchie purissime di alcuni nostalgici stalino-togliattiani: in particolare, Sandro Curzi e Citto Maselli hanno inoltrato al giornale Liberazione il seguente esercizio di stile zdanoviano: «sul comunismo ormai ne leggiamo una ogni giorno e va benissimo, ma di Togliatti con le mani imbevute di sangue era dai tempi de “Il Borghese” che non avevamo avuto occasione di leggere. Sino a giovedì scorso a pag. 13 di “Liberazione”».

(2) Carla Benedetti, “Petrolio”, visioni del nuovo impero, Liberazione 30 ottobre 2005, Inserto Speciale Pasolini, Queer, n. 32 pp. XIV-XV: «Una lista impressionante. Bombe, attentati, omicidi, finti suicidi, finti incidenti, finti delitti omosessuali… Spia di una struttura sotterranea di potere che mette i brividi, sottratta non solo ai tribunali ma anche al discorso pubblico. Da ognuno di questi nomi, ai quali dobbiamo aggiungere quello di Pasolini stesso, potrebbe cominciare un romanzo intricatissimo. Il nostro paese potrebbe essere il paradiso per i romanzieri odierni affascinati dai complotti: un serbatoio di “trame” già pronte».

DISCUSSIONE SUL NEW ITALIAN EPIC: ALCUNI LINK

“Fahreneit” sul New Italian Epic, Radio 3, 14 maggio 2008. Trasmissione condotta da Marino Sinibaldi. Ospite telefonico: Antonio Scurati.

A Proposito di New Italian Epic – di Valter Binaghi
Lo scrittore milanese autore di Devoti a Babele e I tre giorni all’inferno di Enrico Bonetti, cronista padano commenta il saggio di Wu Ming 1 evidenziando sintonie e disaccordi.

NIE, ovvero la nuova epica italiana. Una discussione sul blog “Scompartimento per lettori e taciturni”.

Altri link in calce a questo testo.


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