Un’analisi “in situ” di quello che potrebbe portare al declino terminale dell’ultima superpotenza
di Alan D. Altieri
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3. MELTDOWN (*)
Anno Domini 2001. Gli Stati Uniti si trovano, economicamente parlando, una sorta semi-ottimistica aspettativa:
– l’America non è direttamente coinvolta in nessuna guerra grossa (Balcani, Corea, Medio-Oriente, Africa sono i soliti focolai remoti);
– le casse federali sono in attivo;
– lo scare (spavento) del Millennium Bug – il blocco dei sistemi computer dovuto al cambiamento di data – si è risolto in una ridicola tempesta in un bicchiere d’acqua;
– il prezzo del petrolio greggio si mantiene attorno ai 30 dollari al barile;
– la borsa è (ragionevolmente) stabile;
– i tassi d’interesse federali (costo del denaro) sono alti ma non preoccupanti;
– la disoccupazione si aggira sul 4%;
– il mercato immobiliare è semi-stagnante ma non scoraggiante.
In questo quadro quiescente e acquiescente, i cittadini americani stanno cercando di dimenticare la bruttissima figura delle ultime elezioni presidenziali (novembre 2000).
Il candidato Repubblicano, tale George W. Bush (Bush II, figlio di George H.W. Bush, Bush I) ha strappato la presidenza al candidato democratico, tale Al Gore (Vice-Presidente nei due mandati dell’Era Clinton), per poche migliaia di voti e solo dopo una affannosa quanto estenuante riconta dei voti dello stato della Florida. Il governatore della Florida, tale Jeb Bush, è il fratello del candidato repubblicano. Oh, really?
Il puzzo di brogli comunque si sta attenuando e in fondo questo George W. Bush – ex-alcolizzato redento (dicono), ex-imprenditore petrolifero bancarottiero (accertato), dislessico a tempo pieno (per ammissione della First Lady Laura), spesso impegnato in “serrati dialoghi con dio” (citazione testuale) – ha ampiamente di chiarato di voler essere “il presidente di tutti”. Well, this sounds good. Or doesn’t it?…
Gennaio 2001, Anno 1 dell’Era Bush II. All’atto della sua inauguration, George W. Bush, 43mo Presidente (Repubblicano) degli Stati Uniti fa capire da subito da che parte girano le lancette dell’orologio.
Esattamente vent’anni all’indietro.
Una rivisitazione ancora più deregulated, ancora più globalized della Reaganomics, essendo Mr. Reagan (che nel frattempo è morto all’ultimo stadio di Alzheimer) il Presidente al quale Mr. Bush II si ispira più di qualsiasi altro. Due sempiterni mega-potentati in cima alla lista di Mr. Bush II: BIG OIL (petrolio) & BIG GUNS (armamenti).
Nel gabinetto di Mr. Bush II, questi potentati sono rappresentati rispettivamente da Richard Cheney, Vice-Presidente, e da Donald Rumsfeld, Segretario alla Difesa. Entrambi questi uomini avevano avuto grossi incarichi sia nell’Amministrazione Reagan che nell’Amministrazione Bush I.
Oltre a Mr. Cheney e a Mr. Rumsfeld, tutto attorno a Mr. Bush II fa quadrato una falange di cosiddetti neocons/teocons (neo-conservatori/teo-conservatori), più che decisi a riportare gli Stati Uniti al ruolo di superpotenza di un tempo. A qualsiasi costo, a ogni prezzo. Siffatta falange battezza se stessa con un nome che è tutto un programma, The Vulcans (I Vulcaniani, da “Star Trek”).
Esiste un’unica voce sull’agenda dell’Era Bush II: gli interessi economici americani – o quanto meno di quei cinquantamila americani che detengono lo 85% della ricchezza degli Stati Uniti (stima IRS, Internal Revenue Service) – dovunque e comunque detti interessi si trovino nel mondo.
Su una simile base di partenza – liberismo estremo sul fronte interno, neo-isolazionismo estremo su quello estero – la già non scintillante American image scende a picco. Lo sprezzante rifiuto di Mr. Bush II a ratificare il Protocollo di Kyoto — manifesto internazionale per la protezione ambientale — lo fa apparire pressochè da subito come il classico ugly American (brutto americano).
Non che a Mr. Bush II e ai suoi Vulcans importi molto dell’una cosa o dell’altra. Hanno un nuovo bilancio degli armamenti da stilare, qualcosa come 400 miliardi di dollari per l’anno 2001 in corso.
Eppure, perfino per i Vulcans può arrivare Judgement Day, il Giorno del Giudizio. E non si tratta nè del Cap. James T. Kirk nè dei Klingons. La data astrale in questione è il 18 MARZO 2001.
Improvvisa, rovinosa caduta verticale dei due indici chiave della borsa americana, NASDAQ e Dow Jones, perdite percentuali cumulative fino al 75%. È il più grande collasso del mercato azionario della storia: PERDITA USA: 4,6 TRILIARDI DI DOLLARI.
Per la mente umana, cifre di quest’ordine di grandezza sono quasi impossibili da comprendere. Ecco quindi, a scopo esemplificativo, alcune “perdite equivalenti” a 4,6 triliardi di dollari:
– l’intero ammontare combinato della Social Security (fondo federale pensionistico) e di MediCare (fondo federale sanitario);
– l’azzeramento delle economie di Giappone e Corea del Sud;
– l’azzeramento simultaneo delle industrie americane dell’automobile, dell’acciaio, dell’elettrotecnica e del petrolio;
– l’azzeramento simultaneo dell’intero patrimonio azionario immobiliare degli Stati Uniti;
– da due a tre volte l’ammontare del taglio alle tasse promesso da Mr. Bush II in campagna elettorale;
– mille volte l’ammontare del taglio delle tasse promesso da Mr. Bush II per l’anno in corso.
Per l’economia americana, il 18 Marzo 2001 fa apparire il disastro del 1929 come una scampagnata a Disneyland. Tra fallimenti di banche, chiusure di compagnie di assicurazione, disgregazioni di colossi immobiliari e assortiti annientamenti azionari, gli Stati Uniti vanno in recessione profonda istantanea. La parola depression (depressione) non viene mai né pronunciata né scritta, ma è il classico, incombente “convitato di pietra.” In una simile ottica di conti drammaticamente in rosso, quali che fossero i programmi della Bushnomics II, detti programmi devono essere completamente ripensati, interamente riscritti, totalmente rivisti.
Le onde d’urto del micidiale 18 Marzo 2001 portano la casalinghe disperate – discutibile metafora per descrivere il cittadino medio americano, dai sottoproletari agli alto-borghesi – dritte verso il suicidio. Perchè adesso il problema è duplice e dirompente: INDEBITAMENTO PERSONALE + CRISI DI LIQUIDITÀ.
Ricordate? Il dollaro-finzione. Tutto quanto che viene comprato a credito secondo le regole uagualmente finzione della Golden Age inventata dalla Clintonomics.
Già dal 1993, eminenti economisti – sia repubblicani che democratici – avevano lanciato l’allarme sulla MASSA CRITICA PER GLI ESBORSI DEGLI ISTITUTI DI CREDITO.
Un esempio:
– la signora Smith, casalinga disperata di Oshkosh, Wisconsin, spende mille dollari al mese caricandoli su carta di credito;
– l’istituto di credito erogante la carta medesima (che sia Master Card o Visa) non fa una piega, basta che la signora Smith continui a pagare la rata minima mensile, aumentata ovviamente del tasso d’interesse tra il 14% e il 17%;
– il problema comincia a porsi quando mille altre signore & signori Smith – da Blyth, California, ad Akron, Ohio, a New York, New York – fanno lo stessa identica cosa della signora Smith di Oshkosh, Wisconsin;
– l’istituto di credito si trova quindi a erogare mensilmente mille volte mille, con un rientro di esborso del pagamento minimo più il 14/17%;
– moltiplichiamo questo andamento sulla scala delle centinaia di migliaia di signori e signore Smith, poi sulla scala delle decine di milioni di signore e signore Smith;
– per pagare negozi e fornitori, gli istituti di credito si trovano sottoposti a una emorragia di liquidità sempre più grossa, sempre più inarrestabile;
– è la ricetta per un autentico lemming verso l’orlo dell’abisso creditizio e bancario. Adesso, nel tetro indomani del 18 marzo 2001, l’abisso è arrivato.
Un sempre maggiore numero di cittadini americani si trova pesantemente leveraged (indebitato). E un sempre maggiore numero di istituti di credito si trova di fronte a una CRISI DI LIQUIDITÀ.
A dispetto di ripetuti e reiterati tentativi di cambiare la legislazione, gli Stati Uniti (a differenza dell’itaGLia) rimangono tuttora un paese in cui è possibile dichiarare “bancarotta personale”.
Mr. e/o Ms. Smith possono legalmente andare da un giudice di pace e dimostrare, documenti alla mano, di NON essere più in grado di fare fronte alle spese di sopravvivenza. Può dimostrare di non potere più pagare mutuo della casa, bollette, carte di credito, rette della scuola dei figli, alla ex-moglie/ex-marito. Tutto questo aggravato dall’aumento della disoccupazione. Ricordate? Maquiladorsa & outsourcing.
Il giudice medesimo può quindi dichiarare insolvente il cittadino e procedere a tutta una serie di misure restrittive. Eccone alcune:
– nessun tipo di credito per sette anni;
– nessun tipo di prestito, mutuo, rateo, etc. etc. etc. per sette anni;
– obbligo di pagare tutto in contati;
– introiti garnished (guarniti) all’origine in modo da ripagare ai creditori (persone fisiche e/o giuridiche) quanto meno un’aliquota del dovuto su base proporzionale.
Eppure, quando il conto in banca è prosciugato, il portfolio azionario è sottozero e il salvadanaio è vuoto non c’è scelta. Il quadro collegato a questo link fornisce dati sull’impennata delle bancarotte personali negli Stati Uniti fino al 2004. In taluni casi, si tratta di incrementi fino al 350%.
Il problema dell’incremento delle “bancarotte personali” spinge il contagio della crisi di liquidità degli istituti di credito verso l’essenza stessa della struttura commerciale. Produttori, distributori, grossisti e dettaglianti di beni di consumo – costretti a vendere sempre meno perché il consumatore compra meno – si trovano a loro volta in una crisi di liquidità.
E così via, in una spirale sempre più stretta. E sempre meno controllabile.
Dice un vecchio proverbio americano: When the carpetbaggers are at the door, love goes out of the window. Carpetbagger è un termine che proviene dalla Grande Depressione. I carpetbaggers (letteralmente: raccatta tappeti) erano i pignoratori che si presentavano nelle case dei debitori ad arraffare tutto, inclusi i tappeti sdruciti. In sostanza: “Quando i pignoratori sono alla porta, l’amore se ne va fuori dalla finestra.”
Bene, non c’è certamente love lost (amore perduto) tra le casalinghe disperate (e i loro equivalenti maschili) d’America e il “presidente di tutti”, il quale – alla faccia di tutto questo – si fa allegramente filmare mentre taglia arbusti con la sega a nastro nella brughiera del suo ranch/castello di Crawford, Texas. Da marzo ad agosto 2001, la popolarità di Bush II crolla attorno al 40%.
Tanto in basso resterà fino a quando – orribilmente e paradossalmente – un altro giorno maledetto viene da dargli una mano. Il giorno maledetto in questione ha un nome riassunto da una ormai globalizzata sigla numerica: 9/11.
In questa sede non vorrà esaminato nessuno dei molti, troppi aspetti contraddittori e controversi di ciò che, nella data maledetta del 11 Settembre 2001, è già passato alla storia come “il più feroce attacco terroristico mai condotto al cuore degli Stati Uniti.”
L’effetto economico più immediato e più macroscopico del 9/11 – tra paralisi dell’intero traffico aereo del Nord America, blocco di Wall Street “per ragioni di sicurezza”, panico diffuso da una costa all’altra, etc. etc. etc. – porta sostanzialmente, in un’unica settimana, alla seguente PERDITA USA: 9,6 MILIARDI DI DOLLARI.
Nessun dubbio: il 9/11 È un punto d’inversione politico, militare ed economico. Per gli Stati Uniti e anche per tutti quelli che restano, dopo quel giorno, nulla è più lo stesso. Gli Stati Uniti, e anche tutti quelli che restano, scendono in una guerra della quale è impossibile vedere una fine. Una guerra potenzialmente eterna. È chiamata GUERRA CONTRO IL “TERRORE GLOBALE”.
Nel novembre 2001, hanno inizio le operazioni belliche in Afghanistan, le quali abbatteranno (si fa per dire) il regime dei taliban. Alla data del 25 aprile 2008, sette anni più tardi, le operazioni belliche in questione sono tuttora in corso.
Nel marzo 2003, con il colossale bombardamento missilistico di Baghdad, ha inizio la Seconda Guerra dell’Iraq, la quale abbatterà (letteralmente) il regime di Saddam Hussein. Alla data del 25 aprile 2008, la guerra in questione – nonché la “democratizzazione” dell’Iraq – è ancora in corso. Bilancio (temporaneo e continuamente aggiornato):
– tra centomila e duecentocinquantamila caduti/vittime irachene (dati ufficiosi, dati ufficiali contraddittori);
– quattromila caduti e trentamila feriti americani.
Sotto la voce “feriti”, sono computabili ciechi, grandi ustionati, invalidi parziali, invalidi permanenti, uomini e/o donne psichicamente instabili e/o comunque inabili al combattimento. Per tutti costoro, il governo degli Stati Uniti è comunque tenuto a pagare indennità di combattimento vita natural durante.
Nel marzo 2008, con gli Stati Uniti ancora pienamente impegnati in queste due guerre simultanee ormai più lunghe della Seconda Guerra Mondiale, tale Joseph Stiglitz, Premio Nobel per l’Economia, compie e diffonde (Los Angeles Times) alcune stime:
COSTO USA DELLA GUERRA AL TERRORE GLOBALE: 2 TRILIARDI DI DOLLARI.
Questo a livello di bilanci interni americani. Riguardo a valutazioni economiche più ampie:
– ammesso e non concesso che uno degli obbiettivi della guerra afghana fosse interrompere il flusso di eroina verso l’Occidente, questo obbiettivo NON è stato raggiunto. Nel nuovo, democratico Afghanistan, la produzione del papavero da oppio, stime DEA (Drug Enforcement Agency) è aumentata dell’80%;
– ammesso e non concesso che uno degli obbiettivi della seconda guerra irachena fosse portare stabilità non solo politica ma soprattutto economica alla regione dalla quale proviene la metà del petrolio planetario, questo obbiettivo NON è stato raggiunto.
Il che ci porta AL problema cardine del mondo industrializzato: PETROLIO.
Nel marzo 2003, inizio della seconda guerra irachena, il costo del petrolio del quadrante medio-orientale era 35 dollari al barile. Alla data del 26 aprile 2008, il costo di quel medesimo petrolio si e’ gonfiato di un fattore 3.42, doppiando quota 120 dollari al barile.
In termini tecnici, questo viene definito un oil shock, choc petrolifero. Il mondo industrializzato e non ne ha già attraversati molti. I due oil shocks più gravosi restano i seguenti:
– 1973, guerra dello Yom Kippur;
– 1980, guerra Iran/Iraq.
In termini di contraccolpi su consumi, aumento prezzi, inflazione, etc. etc. etc. nessuno di questi due oil shocks è comunque paragonabile all’attuale. A tutti gli effetti, le casse di intere nazioni stanno svuotandosi per pagare la nafta per le centrali termo-elettriche, il gasolio per autotrazione commerciale e la benzina per consumi individuali.
Mentre l’utente paga e paga e paga, l’OPEC (l’associazione dei paesi produttori) e i grossi consorzi petroliferi (BP, Chevron, Exxon, etc. etc. etc.) vedono i propri bilanci schizzare fuori scala in positivo. Quella che appare come una inarrestabile corsa al rialzo è trainata da due fattori primari:
FATTORE #1: PROFITTI.
Per OPEC e multinazionali, come giro di giostra, questo del prezzo del petrolio al barile fuori controllo è troppo bello sia per rallentare che per scendere dalla giostra medesima.
Ricordate? Siamo nell’orgiastico mondo della globalizzazione. Stati Uniti ed Europa non sono più in grado di pagare? No problem: là fuori c’è un nuovo formidabile mercato in continua espansione che continuerà a pagare qualsiasi prezzo per tutto il tempo necessario. Questo mercato è l’Impero di Cindia. A tassi di crescita del PIL oscillanti tra il 7,5% e il 9,5%, Cina e India SONO i mega-acquirenti petroliferi del futuro. Ecco perché, secondo quotati analisti economici, un prezzo di 200 dollari al barile entro la fine del 2008 non è affatto da escludersi. C’è però un piccolo scarafaggio in questa nera, viscida ma anche dorata brodaglia:
FATTORE #2: “PICCO DI ESTRAZIONE”.
Nel senso che il massimo estraibile dai giacimenti fin qui scoperti potrebbe essere già stato raggiunto e/o superato. A valle del “picco di estrazione” la quantità di petrolio disponibile ed estraibile non farà altro che scendere. E i costi di estrazione non faranno altro che aumentare. Per dirla in parole brutali: di petrolio ce ne sarà sempre meno e costerà sempre di più.
Non è assodato che “il picco di estrazione” sia stato raggiunto. I dati su quanto ancora resta da estrarre sono decisamente contraddittori. Sia l’OPEC che le multinazionali petrolifere hanno tutto l’interesse a che questo dato rimanga avvolto nell’incertezza. Ammettere il raggiungimento – o peggio, il superamento – del “picco di estrazione” significherebbe ammettere che in futuro molto, troppo prossimo questa putrefatta quanto cruciale materia prima sarà esaurita. E a quel punto, Los Angeles, Napoli e Kuala Lumpur (più tutto il resto) potrebbero assomigliare a… Kabul, oggi: polvere gialla trascinata dal vento su rovine calcinate. Oh, man!.
In ogni caso, Mr. Bush II – comandante in capo della “guerra al terrore globale” – ha (e avrà) le spalle ampiamente coperte.
In tema di coperture, la sera del 13 Settembre 2001, con il Pantagono ancora fumante dopo essere stato colpito da… qualcosa, Mr. Bush II stava comodamente fumando sigari cubani (sui quali c’era e c’è embargo federale) assieme ad uno dei suoi migliori e più fidati amici: il Principe Bandar al-Sultan al-Saud, influente membro della famiglia regnante di Ryhad e ambasciatore dell’Arabia Saudita negli Stati Uniti. È opportuno osservare che – valutazione statistica ONU sulla trasparenza politica mondiale – il governo dell’Arabia Saudita è il secondo governo più corrotto del mondo. Il primo governo più corrotto del mondo è il governo della Nigeria.
All’epoca e anche dopo quell’epoca, furono in parecchi a bollare la fumatina Mr. Bush II con il Principe al-Sultan al-Saud come una caduta di stile di pessimo gusto. Dopo tutto, diciotto dei diciannove attentatori suicidi del 9/11 erano sauditi. Per contro, va anche rilevato che – in termini di consumi di idrocarburi aromatici – gli Stati Uniti bruciano in un solo giorno quanto l’Arabia Saudita estrae in un solo giorno: 2 milioni di barili. Dov’è quindi il problema se il “presidente di tutti” rimane ancorato ai problemi di locomozione su gomma della sua gggente?
Le cadute di stile sono solo risibili quisquilie per Mr. Bush II, la cui popolarità – per il modo deciso & determinato in cui ha affrontato la crisi del 9/11 – è schizzata al record del 93%.
Dopo le debacle dei primi sei mesi del suo primo mandato, adesso Mr. Bush II è davvero “il presidente di tutti”.
Non rimane tale per molto. Anzi.
Nel corso dei sei anni successivi (2001-2007) – conquistato un secondo mandato presidenziale (Novembre 2004) di nuovo per una manciata di voti contro il Senatore John Kerry, evanescente candidato Democratico – quella popolarità del 93% si erode inesorabilmente.
Alla data del 25 aprile 2008, il gradimento di Mr. Bush II si aggira attorno al 27%, minimo storico assoluto di qualsiasi presidente dalla costituzione americana in avanti. A tutti gli effetti, da tre americani su quattro Mr. Bush II è considerato un “presidente delegittimato”.
Eppure è ancora questo personaggio – reiterando: ex-alcolizzato redento (dicono), ex-imprenditore petrolifero bancarottiero (accertato), dislessico a tempo pieno (per ammissione della First Lady Laura), spesso impegnato in “serrati dialoghi con dio” (citazione testuale) – a gestire (si fa per dire) i più recenti tre blackholes (buchi neri) dell’economia degli Stati Uniti.
BLACKHOLE #1: COLLASSO POST-URAGANO KATRINA
Uno dei cinque più distruttivi uragani della storia degli Stati Uniti. Il terzo più distruttivo uragano a raggiungere la terra emersa americana.
L’occhio depressionario di Katrina origina nel quadrante delle Isole Bahamas alla data del 23 agosto 2005. Da Categoria 1, Katrina cresce rapidamente Categoria 5, massimo della scala di distruttività degli uragani. Katrina raggiunge la costa americana del Golfo del Messico quattro giorni dopo, devastando pressoché tutte le città costiere dello stato del Mississippi: Waveland, Bay St. Louis, Pass Christian, Long Beach, Gulfport, Biloxi, D’Iberville, Ocean Springs, Gautier, Moss Point, Pascagoula.
Ma il disastro vero e proprio è quello che colpisce LA perla storica del sud degli Stati Uniti: New Orleans, Louisiana. Costruite dal corpo dei genieri dell’esercito (su rilevamenti geologici risalenti al 1946), tutte le dighe di protezione cedono. New Orleans finisce sotto cinque metri di acqua, fango, detriti, morchia.
Sono (siamo) in molti a ricordare le immagini aeree dei disastrati (98% afro-americani) ammassati nello stadio coperto, in bilico sui tetti o a galleggiare a faccia in sotto nelle acque inquinate percorse da alligatori.
Bilancio (ufficiale) di Katrina: 1.836 vittime. Si consideri che le vittime del terremoto di Los Angeles del gennaio 2004 (6.8 Scala Richter) furono 62.
Costo (ufficiale) di Katrina: 81,2 miliardi di dollari, valore del dollaro nel 2005.
Mentre tutto questo accade e continua ad accadere, Mr. Bush II è in visita alla base navale di Coronado, California. Verosimilmente dopo avere appena parlato con dio, è molto intento a parlare alle reclute di rinnovata determinazione del soldato americano nella “guerra globale al terrore”.
Proiezione (ufficiosa) di quanto in governo federale (leggi: contribuente americano) dovrà investire nell’arco dei prossimi cinque anni per “rimettere almeno metà delle cose a posto”: 200 miliardi di dollari.
BLACKHOLE #2: COLLASSO PRESTITI SUB-PRIME
Grandi saggi del passato ci hanno insegnato che sono due i demoni primari dell’essere umano: avidità & paura. Non necessariamente in quest’ordine. Nel mondo delle maquiladoras, felice mondo de-regolato e globalizzato, poche categorie professionali si fanno possedere da questi due demoni come finanzieri d’assalto e agenti di borsa.
Partendo dell’autunno 2006, in una rivisitazione nichilisticamente grottesca dell’universo-finzione delle dot.com companies, le due categorie professionali di cui sopra hanno una nuova alzata d’ingegno: concessione di prestiti immobiliari agevolati anche a individui monetariamente e lavorativamente ad alto rischio.
Individui tecnicamente chiamati: sub-prime customers (clienti al di sotto del meglio).
Il geniale concetto è permettere di comprare casa anche al facchino guatemalteco immigrato clandestino che carica le valige sui nastri trasportatori degli aeroporti e/o alla cameriera della Costa d’Avorio che ti serve il caffè al diner all’angolo.
D’accordo, molto politically correct, ma dove sta il profitto in questo?
Sta nella susseguente quotazione azionaria del debito sul concetto che il mercato immobiliare potrà solo crescere in valore. Questa la teoria. Nella sostanza, andiamo a vendere il debito in borsa. In fondo, ci sarà sempre qualche avventuroso demente prono all’avidità e ben disposto a comprare perfino il debito.
Alla data del 20 Ottobre 2007, l’articolo principale di The Economist, influente testata finanziaria mondiale, analizza precisamente questa nuova, globale demenza. Essendo i possessori dei prestiti sub-prime ben poco solvibili (ricordate l’indebitamento personale?), ed essendo gli istituti di credito ben poco liquidi (ricordate la massa critica agli esborsi creditizi?), mettere ulteriori ipoteche sulla propria casa diventa molto difficile. Se non addirittura impossibile.
Nel corso dell’anno 2007, 1,3 milioni di case americane vengono sottoposte e sequestro bancario a causa della bancarotta personale dei proprietari. Il 79% in più rispetto al 2006. Alla data del 27 dicembre 2007, ultimo giorno utile di contrattazioni per l’anno in questione, The Economist proiettava per il collasso dei prestiti sub-prime una perdita da 200 a 300 miliardi di dollari. Alla data del 25 aprile 2008, la perdita dei sub-prime ha (ufficialmente) raggiunto quota 240 miliardi di dollari.
Uno degli istituti di credito più colpiti dal collasso dei sub-prime è (era) anche uno dei più rispettati: Bear-Stearns Financing, Corp., di base a New York. Proiettato pressochè all’improvviso sull’orlo del fallimento, negoziati per l’assorbimento di Bear-Stearns da parte della gigantesca banca finanziaria JP Morgan sono tuttora in corso.
Intanto però, Mr. Bush II, geniale economista, è corso al salvataggio: nel marzo 2008 ha concesso a Bear-Stearns un prestito federale (leggi: soldi del contribuente americano) pari 140 miliardi di dollari.
Alla data del 25 Aprile 2008, il collasso dei prestiti sub-prime è quindi costato alle finanze americane – private e federali – una somma cumulativa di 380 miliardi di dollari.
BLACKHOLE #3: DEFICIT FEDERALE USA
Chiudendo il ciclo sull’inizio di questo intervento, l’attuale deficit federale (debito pubblico) degli Stati Uniti d’America accumulato in sette anni e tre mesi di Era Bush II è 10 TRILIARDI DI DOLLARI.
Per tentare – solamente tentare – di visualizzare la cifra di cui sopra, il lettore può tentare – solamente tentare – di azzardare proporzioni riguardo agli esempi riportati sulle “perdite equivalenti” del 18 Marzo 2001.
Questa cifra ultraterrena è il risultato di tutte le perdite elencate in precedenza:
– Savings & Loans, 1989/1991;
– dot.com companies, 1998/2001;
– Wall Street, 03/2001;
– 9/11/2001;
– Uragano Katrina, 08/2005;
– oil shock, 2003/(?);
– “guerra al terrore globale”, 2001/(?);
– sub-prime, 2007/(?).
Da che venne inventata la carta moneta, una legge base non tanto dell’economia quanto dell’umano è la seguente: “se sei a corto di soldi, accetti i soldi di chiunque sia disposto a darteli.” Alla data del 25 Aprile 2008, il 40% del deficit federale degli Stati Uniti d’America – 4 triliardi di dollari – è in mano a quattro nazioni: CINA, GIAPPONE, INDIA, ARABIA SAUDITA.
Se quanto sopra vi ricorda un po’ la storiella del tizio che si sparò in mezzo alle gambe con una doppietta a canne mozze, per poi domandarsi come mai le sue prestazioni erotiche non fossero più quelle di una volta, beh, avete ragione in pieno. Due ragioni primarie:
1. gli Stati Uniti sono oggi un paese (economicamente) colonizzato;
2. le strutture economiche sono oggi un’unica meta-struttura planetaria.
Ogni parte della meta-struttura di cui sopra è strettamente interconnessa a ogni altra parte. E ogni parte risente delle perturbazioni originate da ogni altra parte.
Come la maggior parte dei sistemi dinamici, l’economia NON-È un sistema matematico lineare. È per contro un sistema logaritmico-esponenziale composto da impennate, cuspidi, amplificazioni, singolarità, anelli di retro-azione.
Nella “Teoria del Caos”, evolutasi successivamente in “Teoria della Complessità” — equazioni differenziali a molte varibili che cercano di descrivere gli andamenti dei grandi sistemi dinamici della Natura stessa — questo concetto è riassunto, nemmeno tanto metaforicamente, dal cosiddetto Effetto Farfalla:
SE UNA FARFALLA BATTE LE ALI A RIO DE JANEIRO AVRAI IL COLLASSO DEL MARCATO DELL’ACCIAIO A TOKYO.
La parola è brinkmanship.
Venne coniata e usata nel periodo più nero della Guerra Fredda – fine ‘Anni ’50 – da Mr. Allan Dulles, allora Direttore della CIA. Brink significa “orlo”. In una traduzione piuttosto libera, una brinkmanship è una “danza sull’orlo dell’abisso”. Era l’idea di Mr. Dulles sull’atteggiamento politico/strategico che gli Stati Uniti dovevano tenere nei riguardi della minaccia rappresentata dall’Unione Sovietica.
Sessant’anni più tardi, sulla base di quanto esposto nel presente intervento, gli Stati Uniti sono nel pieno di una nuova brinkmanship.
Di natura squisitamente economica.
Molti sono gli scenari “ipotetici” riguardo al superamento dell’orlo e al susseguente meltdown (collasso completo, caduta nell’abisso) dell’economia americana e di conseguenza dell’economia planetaria. Per ovvie ragioni di spazio – ma soprattutto di pazienza del lettore – vale la pena di citarne solamente tre:
MELTDOWN #1: MEGA OIL-SHOCK
Una situazione nella quale le forniture di petrolio dal Medio-Oriente venissero o drasticamente ridotte o – al limite estremo – interrotte.
Detta situazione potrebbe verificarsi in caso di una nuova guerra tra Israele e i paesi circumvicini o – scenario ancora peggiore – nel caso di una guerra USA-Iran.
Nella Seconda Guerra dell’Iraq (1990), Saddam Hussein diede fuoco a migliaia di pozzi di petrolio. Nulla impedisce di ipotizzare che, sotto una pioggia di bombe e missili americani, il Presidente iraniano Ahmadinejad non abbia progetti simili sui terminali petroliferi degli stati sulla sponda ovest del Golfo Persico: Kuwait, Dubai, Emirati, etc. etc. etc. Progetti allargati anche alla chiusura del cruciale Stretto di Hormuz.
In un simile scenario, il prezzo del petrolio al barile non avrebbe più limite superiore. Strettamente connesso a una implosione del mercato petrolifero c’è il:
MELTDOWN #2: CROLLO DEL DOLLARO-FINZIONE
Qualora i paesi dell’OPEC dovessero cominciare ad accettare pagamenti del petrolio in Euro, il dollaro-finzione potrebbe subire una svalutazione catastrofica. Nelle progressioni logaritmico/esponenziali della meta-struttura economica planetaria, detta svalutazione porterebbe – scenario ancora peggiore – a un collasso del sistema bancario americano e, susseguentemente, a un collasso anche di larga parte del sistema bancario mondiale.
Infine, allargando il campo a uno scenario “biologico”:
MELTDOWN #3: CRISI VIRALE PANDEMICA
Apparizione e diffusione di un nuovo virus ad alta infettività. A puro scopo esemplificativo, ipotizziamo una variante della SARS (Severe Ascute Respiratory Syndrome, Sindrome Respiratoria Acuta Grave).
Apparsa in Cina e Vietnam tra l’autunno 2002 e la primavera 2003, questa patologia respiratoria portò pressoché all’isolamento della città di Hong-Kong, diffondendosi anche in vaste aree rurali della Cina. Per quanto il governo cinese non abbia mai reso noto alcun valido dato ufficiali sulla SARS, le ricerche virologiche hanno stabilito un fattore di infettività del 15% e un fattore di letalità del 7%. Ipotizziamo quindi di raddoppiare questi dati: SARS-2, infettività 30%, letalità 15%.
In termini strettamente aritmetici – e sempre a puro scopo esemplificativo – degli otto milioni di abitanti dell’area metropolitana di Los Angeles, 2,3 milioni sarebbero infetti, con 1.15 milioni di decessi. Rapportando quanto sopra ai circa quattro milioni di abitanti dell’area metropolitana di Napoli, si avrebbero 1,3 milioni infetti, 680.000 decessi. Al lettore eventuali conteggi successivi per altre città e/o altre aree.
L’effetto immediato della diffusione di una simile patologia sarebbe la chiusura immediata di tutte le frontiere. Per la meta-struttura economica globalizzata significherebbe il collasso.
Degli Stati Uniti.
E anche di tutto il resto.
Note
(*) meltdown: liquefazione metallurgica del nucleo di un reattore nucleare. Per traslato, collasso completo di un qualsiasi sistema complesso.
Note dell’autore
1. Ogni singolo dato numerico contenuto in questo intervento è reperibile su Internet, motore di ricerca primario google.com;
2. Dati politico-economici riguardo agli stretti, strettissimi rapporti tra la Famiglia Bush e la l’Arabia Saudita possono essere reperiti in House of Bush, House of Saud, libro- inchiesta di Craig Unger, inedito in itaGLia ma comunque disponibile su amazon.com;
3. ringrazio il lettore che abbia voluto seguire le speculazioni di cui sopra fino a questo punto; questo trittico di interventi si chiuderà prossimamente con AmeriKa dämmerung? (III): la guerra.