di Girolamo De Michele
• A Sbancor
• Su “l’Unità”: Ciao Sbancor, maestro profetico di controinformazione
• Su “Liberazione”: Sbancor, la nostra “talpa” che aveva previsto l’11 settembre
• Tutti gli interventi di e su Sbancor apparsi su Carmilla.
• Su Rekombinant: Bifo su Sbancor
• Il “Diario di guerra” di Sbancor on line su DeriveApprodi
• American Nightmare di Sbancor on line su Information Guerrilla
Nell’agosto 2001 alcuni compagni del movimento di Genova e Seattle ricevono un documento messo in circolazione da un militante dal nome allora poco noto e dall’oscuro significato: Sbancor. Il documento si intitola: “La fine del pensiero unico. Dalla crisi del neoliberismo ai nuovi scenari politici”. È un’analisi sulla recessione già in atto (attenzione alle date: qualcuno avrebbe poi raccontato che la recessione economica è stata causata dall’11/9), una recessione destinata ad essere sempre più dura.
L’analisi mette in evidenza come il Welfare sia incapace non solo estemporaneamente, ma strutturalmente di reggere il peso di un’economia globalizzata, al cui centro c’è la perenne minaccia di una crisi di sovrapproduzione; come quindi il Welfare necessiti, periodicamente, di una domanda indotta dall’esterno del sistema attraverso una guerra: il Warfare come chiave per uscire dalla recessione, come insostituibile stampella del Welfare. E conclude (di nuovo, occhio alle date: le Torri Gemelle sono ancora in piedi, nell’agosto newyorkese): «L’America, almeno dal tempo di Bush senior, sta cercando di superare un ostacolo psicologico: la sindrome del Viet-Nam che gli impedisce di far funzionare sul serio il Warfare. Ci è quasi riuscita con la guerra del Golfo e con il Kossovo. Dove potrà provare una prossima “guerra”?
La Palestina è la miccia. Sempre accesa. Chi ha provato a spegnerla ha fatto una brutta fine, come Rabin. Quanto è lunga la miccia e fino a dove può bruciare? La polveriera non è in Medioriente.
Il Medioriente al massimo è la seconda parte della miccia. La polveriera è in un punto imprecisato delle frontiere della cosiddetta area “turanica” (Iran, Afghanistan, Tagikistan, Khirghisistan, Azerbaijan, Uzsbekistan, Pakistan.) Da secoli è il ventre molle della Russia, ma (attenzione) è il ventre molle anche della Cina. Dalle etnie Uigure (turche) si risale verso lo Xin Xiang : il più grande bacino minerario e petrolifero del mondo. Da li si controlla tutta l’Eurasia. Si controllano le “pipe lines” del III° millennio. Da lì passano le vie della droga. Da li passano i mercanti di schiavi che riforniscono le industrie e i commerci di tutto il mondo.
“La via della Seta”. La “Via della Seta” però incomincia a Gerusalemme. È qui che i “fondamentalisti” di tutte le religioni da millenni hanno segnato il luogo della battaglia fra le “civilizzazioni”: la piana di Armageddon. Sì lo so: può sembrare follia. Che c’entrano gli interessi economici con le antiche leggende? C’entrano. Il denaro è il terreno del simbolico. Quando non può nutrirsi di numeri deve nutrirsi di sangue. Oggi il dibattito alla corte imperiale è se consentire Armageddon e accendere la miccia che brucierà fino al centro dell’Eurasia, oppure no. A favore ci sono fondamentalisti ebraici e gli ultraprotestanti millenaristi. C’è Richard Armitage e i vecchi delinquenti della CIA, gli ultimi di “Phoenix”, quelli dello scandalo Watergate e Iran-Contras, quelli che hanno armato i “talebani”». Il mese dopo la profezia s’invera: l’attentato alle Due Torri, la guerra in Afghanistan, l’invasione dell’Iraq.
Quel compagno, Sbancor, non c’è più. Per anni le sue analisi sono state il motore primo delle inchieste, della controinformazione, del lavoro di rete del movimento, almeno nella sua fase “alta”. Da vecchio sessantottino, si sentiva una specie di papà che osservava divertito e ironico i “ragazzini” di Rekombinant, Indymedia, Carmilla: a volte bastava un semplice post («un uccellino mi ha detto») per scatenare i segugi in una caccia alla notizia. Anche nella redazione di Report hanno avuto modo di apprezzare questo vecchio saggio che svelava i segreti della finanza: e qualche volta, oscurato nel volto e distorto nella voce, è comparso lui stesso a far luce su qualche piccolo mistero.
Sbancor non amava farsi chiamare per nome, e non solo perché (non è un mistero) lavorava come analista in un importante gruppo finanziario italiano. Il suo nickname ha un senso, e una ragione. Sbancor, ovvero S/Bancor: col fittizio nome di “Bancor” l’Espresso pubblicava negli anni Sessanta articoli scritti da Eugenio Scalfari e Guido Carli, il governatore della Banca d’Italia. Ma anche, Bancor era il nome della fittizia moneta europea che Keynes aveva proposto di coniare in luogo delle monete nazionali. C’era tutto un programma di contro-finanza, in questo nick. Che nacque quando, alla vigilia delle guerre nell’ex Yugoslavia, Sbancor redasse un documento che ottenne firme autorevoli nel campo economico e finanziario. Un documento che diceva, in sintesi: sta per esplodere una polveriera nei Balcani, possiamo evitarlo utilizzando l’oro delle banche nazionali, ormai inutile perché l’euro non è vincolato al cambio aureo, per un gigantesco piano Marshall.
La guerra scoppia, e Sbancor, vestito in abito blu («la mia tuta da lavoro», diceva) o di felponi neri, diventa un’infaticabile talpa nel campo nemico della grande finanza. Nel 1999 scrive Diario di guerra (DeriveApprodi), sulla “guerra umanitaria” del Kosovo; nel 2003 American Nightmare (Nuovi Mondi Media), un romanzo-pretesto che, facendo l’occhiolino ad “American Tabloid” di Ellroy, fa il punto sui misteri dell’11/9 alla luce di cinquant’anni di storia nascosta. E poi una serie di pezzi che, sul web, analizzano scenari nazionali ed internazionali, cortocircuitando documenti finanziari ed analisi geopolitiche, romanzi e statistiche.
Aveva, Sbancor, il dono raro di vedere relazioni e connessioni dove altri vedevano sparse membra senza nesso: e a queste reti di connessione dava senso, con un gusto narrativo che lo stava portando a scrivere un nuovo romanzo, del quale parlava da anni, su uno dei maggiori misteri della storia italiana. Non gli è bastato il tempo. Lascia un vuoto enorme, ma anche un’eredità preziosa nel metodo di lavoro. Mai come ora forse, in tempi in cui è dubbio che la terra possa essere lieve, si attaglia al suo cuore generoso il motto: “ben scavato, vecchia talpa”!
[da Liberazione, giovedì 1 maggio 2008]