[Questo intervento di Valerio Evangelisti compare su L’Unità di oggi, martedì 6 maggio 2008, accompagnato a una recensione del romanzo di Massimo Carlotto Cristiani di Allah scritta da Michele De Mieri, in cui si fa esplicito riferimento alla poetica di cui stiamo discutendo. In calce a questo post riportiamo anche l’articolo di Carlo Lucarelli apparso su Repubblica di sabato 3 maggio.]
Wu Ming 1, prima con una serie di conferenze tenute al MIT di Boston e in altre università americane, poi con un saggio che sta avendo ampia circolazione in rete (“New Italian Epic”), sta contribuendo a dare forma e identità a scrittori che avevano un’oscura percezione di qualcosa che li legava, senza peraltro sapere cosa fosse esattamente. Scrittori di generazioni diverse, apparsi a partire dalla metà degli anni Novanta, spesso gratificati da un successo di pubblico (e, talora, di critica) apparentemente inspiegabile, nell’epoca in cui si teorizzava la fine del romanzo e in cui il post-moderno, nel riesumarne il cadavere, lo faceva per coprirlo d’ironia – dunque, in sostanza, per affrettarne il seppellimento.
Qualche nome e qualche titolo fatti da Wu Ming 1? Giancarlo De Cataldo con Romanzo criminale e Nelle mani giuste, Giuseppe Genna con Grande Madre Rossa, Dies Irae e Hitler, Antonio Scurati con Una storia romantica, chi scrive con il suo “ciclo del metallo”, gli stessi Wu Ming / Luther Blissett con Q, 54, Manituana, Roberto Saviano con Gomorra (oggetto narrativo di collocazione incerta, nelle sue forme di reportage iperrealista, da troppi ascritto per abbaglio al filone giornalistico), Carlo Lucarelli con L’ottava vibrazione, Girolamo De Michele con Scirocco, ecc. E poi Zaccuri, Philopat, Babsi Jones, Helena Janeczek, il Camilleri de La presa di Macallè, il Carlotto di Cristiani di Allah, e decine d’altri.
Gli elementi unificatori, tra costoro che certo non costituiscono una “scuola”, e spesso nemmeno si conoscono reciprocamente? Una certa avversione alla post-modernità e alla sua sistematica presa di distanze, l’amore per narrazioni partecipate e pulsanti, l’empatia narratore/lettore tipica del romanzo classico, l’indifferenza alle barriere tra i generi (e tra i generi e la letteratura “alta”), la predilezione per “grandi storie” — epiche, appunto — capaci di proiettarsi fuori del contesto e, nei toni del dramma, della tragedia, della metafora, riflettere su temi salienti della contemporaneità, dei suoi antecedenti, dei suoi sviluppi.
L’esempio di ciò è proprio nel testo meno facilmente identificabile, Gomorra, che pare assimilato al New Epic solo per conferirgli nobiltà, sull’onda di un successo di massa. In realtà Gomorra, che tutto è salvo che un piatto reportage di strada, fa un discorso che sarebbe piaciuto molto a Jean-Patrick Manchette: la criminalità non è un elemento sussidiario del capitalismo, una sua perversione. Al contrario, ne rappresenta il cuore, un pilastro strutturale. Osando paradossi, senza criminalità l’intero sistema crollerebbe, la finanza affonderebbe per il cedimento di una delle sue colonne (da cui si vede quanto sia fuori strada Nanni Balestrini che, in una sua intervista recente su “La Stampa”, vede in molti romanzi recenti un’attenzione monomaniacale e gratuita per il delitto).
Tesi da discutere, certo, però l’oggetto sconosciuto — reportage o romanzo? — nella sua coralità si riallaccia all’epica, priva in questo caso di eroi e tuttavia capace di inglobare un mondo intero. Manchette, nel commentare l’opera del suo maestro Hammett, aveva già raccomandato narrazioni del genere.
In casi meglio decifrabili, Hitler, Manituana e altri, la portata epica dell’assunto è evidente. Ci si aggrappa alla storia, la si prolunga, la si estende a problematiche attuali. Il procedimento è totalmente diverso da quello di Gomorra o di Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones. Tuttavia l’esito è lo stesso, quello che in passato definii “massimalista”. Parlare per sistemi, quadri storico-geografici, visioni di società intere, empiti cosmici. Si può ricorrere alle forme della narrativa avventurosa, purché l’esito sia raggiunto: fare riflettere, in via realistica o metaforica, sulla percezione collettiva di una quotidianità alienata. E’ ciò che gli autori del New Italian Epic cercano di fare, sebbene spesso inconsapevoli dei reciproci vincoli. In fondo, le loro opere narrative suppliscono al venire meno, in Italia, della saggistica economico-politica radicale degli anni Settanta. Ciò che i teorici delle scienze sociali, ormai appiattiti per paura sul giornalismo d’occasione, non fanno più, lo farà il racconto (non è un caso se una recensione su “Pulp”, quando uscì Q di Luther Blissett, lo paragonò per importanza a un classico dei Settanta, Proletariato di fabbrica e capitalismo industriale di Stefano Merli). E sarà popolare, per raggiungere chiunque come un pamphlet. Noir, horror, fantascienza, romanzo d’avventura, thriller. Ma più spesso tutto questo assieme, e altro ancora. La base comune è la forza delle storie, il loro dilatarsi su dimensioni epocali.
Quando questo tipo di letteratura prende corpo, a metà degli anni Novanta, sta per esplodere il fenomeno del genere “pulp”, poi denominato, grazie a una fortunata antologia, dei “cannibali”. E’ creazione di un piccolo gruppo di critici letterari che vede, in alcuni giovani narratori, un prolungamento delle esperienze del Gruppo ’63. Sono scrittori caratterizzati dalla fusione di materiali “nobili” con materiali “vili”, e compongono storie in cui, assieme alla “mescolanza di generi”, pulsano le istanze del quotidiano: onnipresenza della televisione e dei suoi più squallidi programmi, manga, pubblicità, prodotti da supermercato, televendite; il tutto al servizio di storie horror o anche solo drammatiche. E’ un passo molto importante per la nostra narrativa, solo che la compagine non regge. Divenuta persino oggetto di satire televisive, scoppierà tra le mani di chi l’ha creata e sovrarappresentata. Se ne libereranno individualità distinte, che il gruppetto dei critici aveva cercato a forza di tenere assieme: Niccolò Ammaniti, Tiziano Scarpa, Isabella Santacroce, Aldo Nove ecc. Ognuno proiettato verso destini individuali, spesso gloriosi. Altri consegnati all’oblio o alla marginalità. Erano comunque loro, illustri o meno, i veri post-moderni, allievi di Arbasino e di Tondelli.
Coeva a questa esperienza, quello che Wu Ming 1 chiama New Italian Epic non ha, quando nasce, ancora un nome. Sforna romanzi a lunga gittata, bada alla solidità, scommette sul lungo periodo. Mattone su mattone, si conquista lettori fedeli: non solo in Italia, ma un po’ in tutto il mondo. Usa sistematicamente un mezzo di cui i “pulp”, malgrado la loro apparente modernità, sono poco pratici: Internet. Non a fini meramente pubblicitari, ma per amplificare la valenza dei loro temi, e farne discutere. E per prolungare la narrativa in ambiti mediatici che normalmente un letterato schifava. Gli apologeti del “libro-che-nessuno-conosce-e-pertanto-è-bello”, i fondatori di mode letterarie dei supplementi ai grandi quotidiani, sono serviti. Un giornale tra i maggiori può vendere 700.000 copie, un sito web può eguagliarlo e, in sinergia con altri, essere molto più letto.
Chiaramente non è questo ciò che conta. Conta molto di più intercettare un pubblico insoddisfatto dal racconto intimista, dai piccoli problemi di piccola gente, dai bozzetti senza significato, da storie di tradimenti in provincia o tra artisti romantici e melensi. L’equivalente letterario delle peggiori canzonette di Sanremo.
Con il New Italian Epic è l’opera lirica che, silenziosamente, fa ritorno, e travolge canzoni, operette e musica da camera. Senza pretendere di annullare altri stili, né desiderosa di competere con loro, però conscia della propria identità e finalmente decisa a non lasciarsi prendere sottogamba.
CARLO LUCARELLI SUL NEW ITALIAN EPIC
Un giorno ho visto una fotografia d’epoca coloniale che raffigurava insieme soldati italiani e abissini e mi sono accorto che dovevo tenere a freno il mio immaginario perché non li trasfigurasse e reinterpretasse istintivamente in Apache di Toro Seduto e giacche blu del 7º Cavalleria. Poi mi sono accorto che ne sapevo molto di più della battaglia di Little Big Horn che di quella di Adua e che avrei saputo declinare tutte le trasformazioni del generale Custer — dall’eroe con i capelli biondi di quando ero piccolo all’assassino di bambini di Piccolo Grande Uomo — ma che Vittorio Bottego — con una biografia degna di un Kurtz conradiano — restava solo una statua che dominava il piazzale in cui sono nato, a Parma. E allora mi sono chiesto perché rinunciare a tutto questo, ad un patrimonio di narrazione proiettato nel passato, nel futuro e anche in un presente da perforare con un carotaggio narrativo da pozzo petrolifero.
Per questo raccolgo con entusiasmo ed enorme interesse le riflessioni dei Wu Ming sulla Nuova Epica Italiana, riconoscendomi praticamente in molte delle loro considerazioni. Praticamente, dico, nel senso di una prassi letteraria, di una ricerca fatta di libri e di romanzi che da parte mia e da quella di altri colleghi cerca di raccogliere il fascino della frontiera, della sfida con un nuovo far west.
Una nuova frontiera che non è soltanto fisica (nuove ambientazioni, nuovi mondi da creare ed esplorare), e non è soltanto narrativa (nuove trame, nuove avventure, diverse tecniche di montaggio, temi ed emozioni estreme) ma è anche stilistica (parole nuove, nuove costruzioni, nuove costruzioni in quelli che i Wu Ming chiamano i romanzi mutanti).
Una narrativa di ampio respiro per raccontare e interpretare il mondo, con un linguaggio nuovo e concreto, come a suo tempo fecero gli scrittori del Grande Romanzo Americano per raccontare le contraddizioni e le trasformazioni del loro paese.
Anche attraverso la storia, che per noi italiani non essendo mai passata è sempre attuale e presente (mi autocito anche io con falsa modestia con la mia Ottava Vibrazione), anche attraverso la narrazione della quotidianità nascosta della camorra di Saviano, o degli italian tabloid di De Cataldo, o l’epica mutante di Wu Ming, solo per citare qualcuno.
La cosa bella è che, come dice Wu Ming, tutto questo sta già accadendo da un pezzo, con tanti autori e con tanti libri che tutto questo già lo fanno in una ricerca che non si ferma a contemplarsi l’ombelico dei risultati raggiunti ma si mette in gioco ogni volta in un modo più alto e più impegnativo. Per questo, anche se le definizioni critiche non sono così importanti, quella di New Italian Epic non è un´etichetta inventata a tavolino.
E’ una sfida che personalmente ho raccolto con passione. Una corsa nella prateria di un nuovo far west che si apre con possibilità entusiasmanti ed infinite. Chiamatela Nuova Epica Italiana, narrativa di ampio respiro, grande romanzo italiano, chiamatela come volete, i nomi — ripeto — non sono importanti. L’importante è proprio la sfida, il desiderio, per chi se la sente e ne ha voglia, di mettersi a correre verso una nuova frontiera.
Concludo con una considerazione di cui magari non c’è affatto bisogno ma che io faccio lo stesso.
In ogni caso chiunque è libero di scrivere quello che gli pare. Sembra una cosa ovvia, ma dal punto di vista letterario noi siamo il paese dei manifesti, del romanzo è morto, delle etichette programmatiche che spesso nascono sul nulla dalla fantasia delle redazioni culturali dei giornali o degli uffici stampa delle case editrici. Le etichette si conquistano sul campo, arrivano dopo a spiegare quello che già esiste e diventano parte integrante del suo movimento. E chiunque, dal più intimo minimalista al giallista più classico, se scrive con sincerità, è altrettanto utile e importante.