di Carlo Loiodice
Il 12 aprile scorso Jenner Meletti su Repubblica fa un piccolo grande scoop: “Bella ciao”, l’inno della Resistenza, viene dalla Russia: In particolare ha origini klezmer ed è così vecchia che ne esiste una registrazione del 1919.
– Sai che novità! — Avrà pensato qualcuno abituato a sentirla in versione marziale cantata da un coro di omoni o suonata da una banda militare con piatti e grancassa. Invece, chi l’ha sentita in versione mondina da Giovanna Daffini o da uno dei canzonieri che proliferavano negli anni ’70, avrà fatto 2 e 2 4, concludendo che l’anonimo autore del testo resistenziale si fosse rifatto a un precedente canto di lavoro. Prova, in entrambi i casi, che la filologia non è roba per il primo dilettante che passa.
Dilettante è, senza dubbio, Fausto Giovannardi, presentato nell’articolo come “ingegnere a Borgo San Lorenzo e turista per caso a Parigi”, entrambe qualità rispettabilissime. Ciò di cui dubito è la sua capacità di ricavare dall’ascolto note sul pentagramma. Se lo avesse fatto, si sarebbe reso conto dell’insensatezza di tutto il meccanismo che ha messo in moto.
Che quella dei giornali sia oramai una capacità dimidiata d’informare lo sappiamo da quando Internet ci ha messo in mano strumenti nuovi di ricerca personale. Il che dovrebbe indurre i giornalisti della carta stampata a differenti e nuove modalità di comportamento. Qui la notizia era di quelle che richiedevano una prova provata, e sarebbe stato sufficiente rendere scaricabile o solo ascoltabile un file audio in margine all’articolo.
A quella notizia io ho creduto. Non per dabbenaggine, ma perché so da sempre che nella musica popolare transiti, prestiti e contaminazioni sono all’ordine del giorno.
“Amor dammi quel fazzolettino” è piuttosto conosciuta. Meno nota al grande pubblico è una canzone calabrese, “Riturnella”, in cui è presente il tema del fazzoletto dell’innamorata, con lavatura e stiratura. Ora, se può essere fonte di appagamento di curiosità il sapere chi ha avuto per primo quell’idea, bisogna poi trovare le tracce della avvenuta comunicazione, qualora s’intenda dimostrare che c’è stato prestito o plagio.
Ma perché voler dimostrare ciò a tutti i costi? Il tarlo che ci rode sta, a mio avviso, nel “diritto d’autore”. Questo non esiste da sempre, ma da quando c’è, ha provocato un esito contrario allo scopo originario di proteggere moralmente ed economicamente gli autori. Omero, Dante e Shakespeare non sono tutelati dalla SIAE, ma copiarli è praticamente impossibile. Li si cita. Il che ne mantiene la gloria, assegnando un credito al citante. Per contro, fra gli iscritti alle varie SIAE, il gioco è a copiare il più possibile, inserendo quel minimo di variazioni formali che consentano poi all’avvocato una plausibile strategia difensiva in caso di controversia.
Molti ricordano un caso di oltre una quindicina di anni fa. Phil Collins ottiene un grande successo internazionale con “A groovy kind of love”, ma si becca un’accusa di plagio. Quella melodia l’aveva scritta prima il nostro Ivan Graziani: “Agnese dolce Agnese”. “Precisa ‘ntifica!” Avrebbe detto un personaggio di Camilleri. Possibile che il globale Collins avesse freddamente deciso di depredare il locale Graziani? Possibile. E che dire allora se veniamo a sapere che “A groovy kind of love” era uscita nel 1965 e che nel 1966 i Camaleonti, secondo l’uso dell’epoca, ne avevano pubblicato una cover in italiano? Allora è stato Graziani a copiare! Può essere. Ma in caso affermativo, da chi? Muzio Clementi nacque a Roma nel 1752 e morì in Inghilterra nel 1832. La sua fama è dovuta al fatto che tutti coloro che studiano pianoforte si esercitano con le sue “sonatine”. Ed è appunto la sonatina op. 35 n. 5 all’origine della trafila. Senza che per questo vada a Clementi alcun merito di originalità: si tratta di note che salgono e scendono lungo la scala, a beneficio di chi non ha ancora una mano ben sviluppata. Roba facile, insomma. Del resto, che Clementi si prestasse ad essere “ripreso”, lo aveva capito anche il grande Mozart, che gli scippò il tema della sonata in si bemolle maggiore per inserirlo nel “Flauto magico”.
Se plagiare nun sta bbene, il prestito può anche generare valore aggiunto. È il caso di quelle canzoni popolari che hanno usato arie d’opera o temi d’autore per inserirvi un testo d’occasione. Mi viene in mente la “Serenata de Pulecenella”, il cui testo fu inserito su una precedente aria di Domenico Cimarosa. Ma penso anche a prestiti interni alla stessa musica popolare: sull’aria di “Il feroce monarchico Bava” (fine Ottocento) nel 1969 furono scritte le strofe della “Ballata del Pinelli”… Per non parlare di “Maremma amara”, canzone popolare toscana sulla cui aria, in epoca napoleonica, Anton Francesco Menchi scrisse “Partire partirò, partir bisogna”, contro la coscrizione obbligatoria.
E torniamo a “Bella ciao”. Che non l’abbia scritta Stravinskij è evidente. Un chitarrista alle prime armi può accompagnarla usando soltanto tre accordi e la melodia non fa uso neppure di tutte e sette le note (manca il settimo grado della scala). Se ripensiamo alla “Biblioteca di Babele” di Borges, in cui possono esistere due libri che differiscono per un solo carattere, come non ritenere possibile che due canzoni, pur avendo ciascuna una propria identità emotiva, contengano quasi, sottolineo quasi, le stesse note? Normalmente, tra composizione originale e parodia, la distinzione è netta: è originale la composizione che non assomiglia ad altro; è parodia la composizione il cui modello originale si riconosce sin troppo bene. Affermo questo nella consapevolezza di dire quasi una scempiaggine. Vero è che la “Divina commedia” è opera originale. Ma la sua originalità non consiste nell’aver usato parole e frasi mai lette prima. Anzi, il livello di allusività è altissimo. Solo che allude semplicemente all’universo. Al contrario, in una parodia, l’universo non c’entra e c’entra solo l’opera originale a cui si fa riferimento. La stragrande maggioranza delle opere — segnatamente le canzoni — stanno sulla sterminata fascia che separa l’originalità dalla parodicità.
Ecco un esempio dalla tradizione letteraria.
Dante Alighieri:
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
(Inferno, canto V)
Ugo Foscolo:
Piango la patria mia che mi fu tolta, e il modo ancor m’offende.
(Ultime lettere di Jacopo Ortis).
Non parodia ma allusione, rimando semantico, relazioni tra significanti. Come in questo caso più recente e meno impegnativo.
Ah che bello ‘o café / sulo a Napule ‘o sanno fa’. (Domenico Modugno).
Ah che bbello ‘o café / pure ‘n carcere ‘o sanno fa’. (Fabrizio De André).
Una mattina mi son svegliata [alzata].
Può essere l’inizio di qualunque cosa. E non è affatto detto che chi ha scritto “Bella ciao” volesse assolutamente evocare una vera o presunta canzone delle mondine. Così non è detto che — se accettiamo la versione di Vasco Scansani, il quale ne rivendica la paternità — l’eventuale falso d’autore spacciato come autentico popolare dalla Daffini voglia intenzionalmente richiamare un legame politico-affettivo tra Resistenza e lavoro. Siamo ancora nella biblioteca di Babele. Le lettere dell’alfabeto sono ventisei, le note musicali sono sette (allarghiamo con qualche fonema in più nel primo caso e con qualche alterazione in più nel secondo); le parole sono molte ma non infinite; le lingue sono molte ma non infinite; i dialetti sono tanti ma nemmeno essi infiniti. Dunque esiste, non frequente ma nemmeno così rara, la possibilità statistica di coincidenze. Storici e filologi si occuperanno poi di vedere se certe suggestioni richiamate dalle coincidenze hanno una base materiale verificabile.
E tutto questo finché le coincidenze sono macroscopiche o almeno intriganti. Ma… Una mattina mi son svegliato e ho… acceso la radio. Alla fine del GR delle 8 su Radio1, c’è il magazine “Inviato speciale”. Fra i titoli sento annunciare un servizio sulle presunte origini yiddish di “Bella ciao” e mi metto in ascolto. La notizia non è nuova. Siamo al giorno 26 aprile e su Repubblica l’avevamo letta il 12. Ma tant’è… Questa volta però possiamo giovarci del sonoro. E per quanto i montatori del servizio abbiano fatto di tutto per disturbare la percezione della musica, mi sono impuntato e, a scopo di verifica, ho cercato di riascoltare la trasmissione sul web. Si trova da qui. Si preme il pulsante ‘ascolta’ e ci si porta a circa dieci minuti dall’inizio.
E qual non fu il mio stupore nel verificare… Forse ci siamo capiti… Chi non ama o non conosce il blues dice che tutti i blues si somigliano. Chi non conosce o non ama il liscio, ritiene che valzer e mazurka siano la stessa cosa perché entrambi in 3/4. Ed è quello che è capitato al nostro ingegnere viaggiatore, che ha scambiato un cocomero per un melone, mettendosi poi in giro a scomodare testimoni ed esperti; i quali, per non rischiare la brutta figura o subito o più tardi, hanno risposto con mani avanti e piaggeria. Il giornalista ha fatto il resto.
Registrazione e trascrizione alla mano, è facile dimostrare che “Il sacchetto di carbone”, ossia il brano inciso da Misha Tziganov nel 1919 non è, né ha a che vedere con “Bella ciao”. Mi piacerebbe simulare una procedura legale come quelle che si attivano per l’accusa di plagio, per vedere chi risulterebbe condannato e chi assolto. Provo a spiegarmi a un tanto al chilo. Consideriamo le parole: “Una mattina mi son svegliata / o bella ciao* bella ciao bella ciao ciao ciao / una mattina… ecc. Dopo l’asterisco le sillabe non coincidono più con le note. I tre ‘ciao’ di fila andrebbero cantati su tre mi, dei quali non c’è traccia; e andrebbero armonizzati con un accordo di mi — la7 nelle esecuzioni più raffinate -, entrambi gli acccordi incompatibili con il do naturale su cui appoggia la melodia klezmer in quel punto. Quel che segue, ancorché ascoltato confusamente, non mi pare nemmeno degno di esser preso in esame.
Eppure tutti gridano al prodigio e si fanno in quattro per cercare ragioni e motivi per provare qualcosa che non è avvenuto. Certo i migranti migrano e portano con sé anche le loro musiche. Ed è interessante ricostruire certi percorsi. Ad esempio, sarebbe interessante approfondire il fenomeno del successo di “Bella ciao” nella versione celtica e “sparata” dei Modena City Ramblers. Forse testimonianza vivente di una frase che il protagonista Mario dice al poeta Neruda nel film “Il postino” di Massimo Troisi: “La poesia non è di chi la scrive, ma è di chi gli serve”.
L’articolo di Jenner Meletti è qui.