di Dimitri Chimenti*

Caro Wu Ming 1,

probabilmente avresti potuto sviluppare le tue riflessioni in un lungo saggio teorico, ma preferisci parlarne in modo concreto, piĂą vicino alla tua esperienza di narratore. Ed è forse questo che ti permette di riscoprire una delle funzioni piĂą importanti della critica letteraria, quella che parte dall’idea che tra opera e pubblico sussista un dĂ©calage, ossia che si possa interporre un po’ di scrittura tra letteratura e lettore ogni qualvolta essi non si trovano l’una di faccia all’altro.
E’ ormai piuttosto chiaro come il termine “postmoderno” sia divenuto una sorta di valigia concettuale dentro cui stipare, forzatamente, un po’ di tutto. Tu parti da questa evidenza, non hai neppure bisogno di spiegarla. Se rivolgi un’accusa al postmodernismo è di aver considerato una specifica forma di capitalismo non un prodotto storico, passibile di critica e superamento, ma superamento stesso della storia, sostituto molle di quella vecchia struttura ontologica che era la metafisica.
Ma, ed è qui che la tua critica acquista forza, se la perdita del “riferimento cartesiano” non ci ha traghettato in un mondo piĂą libero e felice, non ha neppure compromesso la possibilitĂ  di stabilire un rapporto critico con la realtĂ . A te non basta enunciarlo lo vuoi dimostrare, vuoi provare che la capacitĂ  della letteratura di produrre significati socialmente condivisi non è stata completamente erosa.

Certo, anche a te deve essere parso un rischio reale che tutto il lavoro di scrittura operato dalla modernitĂ  potesse improvvisamente precipitare nell’illeggibilitĂ  ed essere cancellato. Dinanzi ad una Storia ridotta a teatrino ridicolo molti narratori hanno reagito, forse per salvare la funzione estetica e poetica della letteratura, ripiegando sul linguaggio e contraendo la rappresentazione in universi narrativi dai quali l’orizzonte degli eventi storici pareva definitivamente sottratto. Tu la chiami deresponsabilizzazione autoriale, io meontologia, od ontologia del nulla.
Letteratura dell’artificialitĂ  in ogni caso, che rigetta ogni traccia di realismo ricorrendo ad immagini letterarie stratificate dietro alle quali non si nasconde piĂą un universo sociale o un qualsiasi mondo in cui credere, ma solo altre immagini o altra letteratura che la nostra percezione è chiamata a riconoscere. Un paradigma letterario ben riassunto dal paradosso di Umberto Eco: “Come direbbe Liala, ti amo disperatamente.”
Arte che si mette a rivaleggiare con la natura, avrebbe detto Deleuze, ma tu sostieni che oggi bisogna uscire da questa premessa e ripensare in altri termini il conflitto tra finzionale e reale. Un’esigenza etica, la tua, che nasce da una domanda fondamentale: “Come ritrovare fiducia nella parola e nella possibilitĂ  di riattivarla?”
ezln_guitar.gifChi, sulla scia di Fredric Jameson, indica un “ritorno alla modernitĂ ” tiene in scarsa considerazione che i processi di soggettivazione/desoggettivazione della nostra epoca ed i dispositivi che li mettono in atto non possono semplicemente essere fermati e fatti girare al contrario. Questo tu ed i tuoi colleghi lo avevate capito giĂ  ai tempi del Luther Blissett Project. Nessuna rivoluzione può realisticamente fondarsi su mezzi di produzione, siano essi materiali o politici, diversi da quelli disponibili; può forse temerli, guardare ad essi con sospetto, sconvolgere il loro significato originario, ma non può esimersi dall’usarli. C’è da chiedersi se non sia proprio questo l’insegnamento fondamentale che Wu Ming ha ricevuto dallo zapatismo.
Parli spesso di accento e del suo spostamento. Forse questi termini ti vengono da una profonda conoscenza della musica jazz, ma potrebbe anche trattarsi di qualcos’altro. Era Lyotard a sostenere che una comunitĂ  che si fonda sulla narrazione non ha bisogno di ricordare il proprio passato perchĂ© la sostanza del rapporto sociale risiede meno nel significato dei racconti che nei modi di raccontarli. Ma se per Lyotard è il battito a prevalere sempre sulla differenza d’accento tu ne rovesci l’assunto, individuando tempi dispari che sembrano pari, osservando come il processo di sovraccaricamento di uno sguardo in Saviano o di una parola in Genna arrivi “… a smuoverla dal proprio alveo semantico e investirla di nuove connotazioni.”
Ed è questo un primo modo di ritrovare fiducia nella parola. E’ lo spostamento d’accento ad impedire, alle opere di cui parli, ogni automatismo simbolico ed a ricordarci che la letteratura non è solo uno strumento della rappresentazione, ma anche un modo di rientrare nel mondo, di assumerci la responsabilitĂ  di dare un significato a ciò che viene rappresentato. ResponsabilitĂ  dello scrittore, ma anche di chi legge.
andy-warhol-knives.jpgLetteratura aberrante che non è piĂą romanzo, ma non è ancora qualcos’altro. Li definisci “oggetti narrativi” e citi spesso Gomorra. Molti critici hanno creduto di vedere in questo libro una contrapposizione tra il ripiegamento linguistico postmodernista ed una forma di letteratura diretta, come se i documenti presi sul vivo annullassero di fatto l’apparato finzionale costruito da Saviano. Lo dici chiaramente, si tratta di un’opposizione truccata perchĂ© il contrario di una “messa in scena” non è un reportage, ma un’altra messa in scena. Gomorra è un’azione narrativa che ci fa conoscere un mondo che non abbiamo mai conosciuto e che rischiamo, presi nella sua evidenza, di non conoscere mai.
Minimalismo, ripiegamento linguistico, autoreferenzialitĂ , nichilismo, insensibilitĂ  alle questioni storiche e sociali sono accuse difficilmente riferibili all’opera di autori come Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo e Valerio Evangelisti. Eppure giĂ  autori come James Ellroy, William Gibson, Bruce Sterling o Jean Patrick Manchette dimostravano che la letteratura di genere è stata la prima ad aver preso possesso degli automatismi della postmodernitĂ  piegandoli al servizio di una potente volontĂ  d’arte. VolontĂ  d’arte che, per quanto possa apparire oscura ed articolata da movimenti involontari, non è affatto concepibile come pura tecnica al servizio del potere, ma anzi instaura un sistema conoscitivo, un “allegoritmo” dici tu, che permette di collegare, attraverso ponti concettuali, il fascismo all’Italia repubblicana e democratica, il nazismo ad Hollywood, la propaganda alla pubblicitĂ , il trionfalismo alla pornografia, tramite l’effettiva constatazione della comunanza di mezzi, tecniche ed intenzioni.
Nel momento in cui l’insieme delle informazioni in nostro possesso sui significanti culturali dell’epoca presente e passata sembrano limitarsi ad una sommatoria di elementi e di eventi disgregati, nell’attimo in cui le figure dell’immaginario non appaiono riconducibili ad un corpo comune, ridare un corpo semantico all’immaginario è compito del narratore. Un processo che non può avvenire partendo da una Storia ipercodificata, ma attraverso l’eterogeneitĂ  delle deposizioni, delle registrazioni, attraverso l’evocazione di corpi parlati, di punti di vista inassegnabili.
Un esorcismo, per espellere il demonio dalle parole.
Si tratta di rivendicare l’extraterritorialitĂ  della letteratura, così come uno Stato si contrappone ad un altro Stato, istituendo un processo contro le parole e l’immaginario, contro un “tempo devastato e vile” che si è impadronito dell’irrazionale creando una mitologia da sfruttare politicamente e reso una quantitĂ  di termini impronunciabili ed il nostro modo di praticarli ossessionale.
Parole-marionetta, da adoperare con attenzione.

Come tornare ad usare parole quali “fascismo”, “rivoluzione”, “irrazionale”, “comunismo”? Come togliere loro le virgolette?
In qualsiasi modo o, come dici tu , “Nonostante Liala, ti amo disperatamente.”

* Ricercatore all’universitĂ  di Siena, scuola di dottorato multidisciplinare “Logos e rappresentazione”. Nel biennio 2004-2005 è stato Assistant professor nel dipartimento di italianistica del Vassar College di New York. Come film-maker ha realizzato diverse opere, tra cui un documentario girato in India nel 2003, My own bizarre experience.

Clicky