di Girolamo De Michele
Sandro Mezzadra, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre corte, 2008, 172 pp., € 16.00
Il libro si apre con l’immagine del comandante Achab che, chino sulle carte nautiche dei quattro oceani, traccia le rotte «con l’intento di portare a compimento il pensiero monomaniaco della sua anima», quasi a voler suggerire un primo uso di questo testo: una cartografia critica degli studi postcoloniali, che con colpevole ritardo cominciano ad essere tradotti e studiati anche in Italia.
Si tratta di autori — Dipesh Chakrabarty, Partha Chatterjee, Achille Mbembe, Gayatri Chakravorty Spivak, Kalyan Sanyal, Naoki Sakai, Yann Moulier Boutang — che ridefiniscono «i processi di ibridazione, negoziazione e resistenza che l’intervento dei soggetti colonizzati ha iscritto fin dalle origini della modernità» nella trama del discorso coloniale. E che, attuando un radicale mutamento di paradigma nel rovesciare il rapporto centro-periferia (dall’occidente europeo al mondo globale), mostrano la maggiore ricchezza di un approccio orientato a «provincializzare l’Europa». Questa mappa degli studi postcoloniali, cartografata con perizia e competenza da Sandro Mezzadra (docente di “Studi coloniali e postcoloniali”), varrebbe da sola la fatica della lettura: ma chi intraprende questa lettura difficilmente riuscirà a fermarsi al livello della bibliografia ragionata, perché Mezzadra mostra una spiccata propensione — tipica di chi ha una lunga frequentazione con il pensiero radicale — a complicare, piuttosto che a ridurre, la complessità dell’argomento, mostrando come gli stessi studi postcoloniali non siano sottesi da un paradigma unitario, ma descrivono, nelle loro linee di fuga e di sviluppo, un campo di studi in continua frammentazione. E l’autore, piuttosto che cercare di ricondurre la teoria ad unità, prova a «cogliere le opportunità implicite in questa situazione, ponendo le basi per un uso più libero delle categorie e delle acquisizioni della critica postcoloniale». Un uso che continuamente rinvia alle pratiche, ai conflitti, alle lotte che ridisegnano ogni giorno lo stato dei rapporti di forza nel contesto globale. In altri termini, questo libro per un verso esiste in conseguenza dell’esistere e del confliggere di una condizione migrante globale; per altro verso, esso sa di essere non una esposizione teorica buona per quei talk show televisivi o quelle pagine dei grandi quotidiani dove i Sartori e i Panebianco ci annunciano che il latte è ricco di calcio e i neri hanno il ritmo nel sangue, ma uno strumento al servizio di quelle lotte e di quella critica allo stato di cose esistente — «nella fuga portarsi dietro un’arma», scriveva George Jackson (e ripeteva spesso Gilles Deleuze). Dalla critica postcoloniale, sostiene Mezzadra, si può estrapolare un’immagine del presente come «un tempo in cui l’insieme dei passati che il moderno capitalismo ha incontrato sulla sua strada riemerge disordinatamente in una sorta di “esposizione universale”, in cui “sussunzione formale” e “sussunzione reale del lavoro sotto il capitale”, lungi dal poter definire una tendenza lineare, si ibridano e coesistono fianco a fianco». Il presente, dal punto di vista a-centrico assunto da Mezzadra (qui è consistente la presenza di Benjamin) è un intreccio di forme vecchie e nuovissime di sfruttamento, di soggettività stratificate e in continuo mutamento: più che le carte di Achab, ci viene in mente quel Freud che nel mentre tracciava la mappa delle istanze che compongono l’Io, criticava i propri schemi perché fissavano sulla carta ciò che è in perpetuo movimento. Nondimeno, se questo libro è una bussola per orientarsi in questi mari, il merito è anche dell’autore e del metodo di lavoro: il recupero della lezione operaista (il metodo della tendenza, lo studio dei soggetti a partire dai conflitti che li generano) incrociata con quella «globalizzazione dell’eredità teorica dell’operaismo italiano» avviata da Negri e Hardt con Impero. A questo metodo Mezzadra aggiunge l’approccio meta-linguistico all’economia politica derivato da Marazzi, ma soprattutto dai lavori del giapponese Naoki Sakai [a sinistra] sui rapporti tra soggettività e traduzione come chiave di lettura della transizione senza fine nella quale siamo in situazione: se il domino del capitale significa traduzione della dimensione globale nell’unico linguaggio del valore – «l’indirizzo omolinguale», dice Sakai -, la moltitudine può essere ripensata come «comunità non aggregata di stranieri», una comunità «al cui interno ci rivolgiamo l’un l’altro attraverso l’attitudine dell’indirizzo eterolinguale».
Solo un folle si mette tra Achab e la sua balena, ha detto un filosofo contemporaneo. L’ambizione di Mezzadra è proprio questa follia che consiste nel mettersi nel mezzo, tra la “naturale” potenza distruttiva del mostro e la riduzione della pluralità dell’umano a monomania paranoica del baleniere: dalla parte di quella moltitudine umana e linguistica che brulica sulla tolda del Pequod – il «sogno di una cosa che dobbiamo finalmente tornare a sognare».
[questa recensione è uscita su “Liberazione” il 23 aprile 2008]