di Chiara Cretella
[E’ uscita, alla fine dell’anno scorso, un’opera importante e singolare in tre volumi: AA. VV., Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna. I. La Poesia; II. La Narrativa; III. Scritture, arti, controculture, a cura di Piero Pieri, Chiara Cretella, CLUEB, Bologna, 2007, € 58. Si tratta di una mappatura completa di quanto prodotto nella regione tra 1968 e 2007 nell’ambito della letteratura, della comunicazione, delle culture sia ufficiali che antagoniste. Per presentare l’opera riproduciamo qui un estratto dell’introduzione di Chiara Cretella al vol. III, con particolare riguardo alle pagine dedicate all’attività dei writers, tanto detestati dai benpensanti sia di centrodestra che di centrosinistra.] (V.E.)
La stesura di un percorso storico sulle esperienze culturali non strettamente poetico-narrative dell’Emilia-Romagna — ed in particolare di Bologna — ha da subito manifestato sorprendenti correlazioni tra ambiti e discipline differenti. In tutti questi saggi, infatti, vi è un filo invisibile, si colgono rimandi ad universi tangenti e sfumati, che ci hanno convinto a delineare delle “escursioni letterarie” più che a compilare piatte cronologie di luoghi e date.
Queste passeggiate si sono spontaneamente intrecciate in percorsi che delineano alcune direttrici fortemente trafficate come il centro di Bologna, le principali città attraversate dalla Via Emilia, la bassa padana e la riviera romagnola.
Anche la lingua vive questa duplice consistenza, da quella dialettale usata dai comici, dai cantastorie, dalla musica popolare, allo slang urbano politicizzato, alla distorsione giovanilistica, fino alla dissonanza linguistica della musica demenziale.
Alla malinconia dei luoghi della pianura, con il suo orizzonte di bruma — inquadrato da molti fotografi di paesaggio —, con i suoi narratori e i suoi registi, si alterna l’affastellamento della realtà metropolitana, con una sua diversa poetica dello spazio.
Vi è però uno snodo fondamentale comune in molti degli studi qui presentati, un crocicchio di strade, ed insieme anche un bivio: quello dell’esplosione creativa del 1977. Il nostro atlante esce nel 2007: l’anniversario di un trentennale importante, un anno che vide Bologna al centro della scena politica, un anno che segnò l’inizio di un nuovo corso della comunicazione culturale, ed insieme la fine di quello precedente.
Questo terzo volume è dedicato a tutte quelle forme artistiche che fermentarono in quell’humus e che, successivamente, si svilupparono in percorsi fondativi, ancora oggi vitali e dinamici.
Tutto ciò che è underground scorre sotterraneo, ed è proprio per questo più difficile da analizzare. Gli studi fin’ora prodotti su questi fenomeni — data anche la loro natura in continuo divenire — erano insufficienti o parziali.
Ciò che nel ’77 andava sotto il nome di “trasversalismo bolognese” stava ad indicare la capacità dei giovani di ibridare discipline e gestualità estetiche, convogliando risorse e forze materiali in una cultura dell’azione. Per questo il concetto di performance ricorre in molti dei saggi qui presentati, quasi a indicare la possibilità di un approccio vivo, esperienziale, ma soprattutto collettivo all’atto creativo. È il caso di riviste come «Il cerchio di gesso», di collettivi di produzione indipendenti come la Traumfabrik o Harpo’s Bazar, di scuole di musicisti, cantautori e poeti che animavano le osterie bolognesi.
In pieno spirito carnevalesco, gli indiani metropolitani, i mimi di strada, i graffitari, i registi indipendenti, i teatranti, i musicisti e tanti altri hanno portato avanti percorsi sperimentali e innovativi, creando reti fittissime di relazioni anche per le espressioni considerate “marginali” […]. Questo “trasversalismo” è il principio dinamico che segna la struttura del nostro Atlante, poiché per mappare tali plurime realtà è stato imprescindibile dare la parola ad alcuni protagonisti di quelle esperienze.
Si attesta qui una lacuna del critico, di fronte a certi codici comunicativi come quelli dei writer, comunità “invisibili” con propri idioletti, migranti e inafferrabili come le espressioni che producono, destinate a essere performate e cancellate. Mescolarsi con tali comunità significa entrare in sintonia con l’azione, vivere quegli stessi luoghi e ascoltare la voce spesso clandestina degli appuntamenti segnalati sui muri, dei rave, degli happening.
Il principio di autorialità è messo in crisi dal fiorire di anonime — anche quando sono firmate — scritte o graffiti sui muri. Queste espressioni ci parlano di una comunicabilità che investe ogni passante, senza distinzione. Hanno qualcosa di arcaico e rupestre, ed insieme esprimono un criptico codice linguistico di appartenenza.
Ogni tanto la nettezza urbana scrosta le colonne di Via Zamboni. È una scena surreale e ridicola. Con i loro raschietti gli operai cercano di grattare via sedimentazioni di carta, colla e nastro adesivo. E per quanto? Il tempo di una notte. Questa editoria ambulante ed abusiva, articolata come una ragnatela, spunta il giorno dopo sugli alberi di mattoni, come foglie a primavera. A volte queste scritte urlano silenziosamente che i giovani “esistono”: e le loro sono parole cresciute rigogliose nella luce lunare, proprio sotto il vigile occhio meccanico di una telecamera. Gli stickers che intervengono a modificare con i loro segnali la viabilità del centro storico ci indicano che forse c’è ancora una strada per perdersi.
Ma Alice, disoccupate le strade dai sogni, anche se precaria continua a giocare a nascondino tra i portici: esce ed entra dalle ombre, dalle porte impreviste che si aprono sui muri: Bologna è una bambina che non rinuncia all’immaginazione.
Poiché vi è infatti un aspetto fondamentale in queste manifestazioni: la creatività è un atto di rottura, che può spesso sconfinare con ciò che è considerato “illegale” o “degrado”. Occupare un centro sociale, disegnare graffiti su un muro, prendere voce in una performance di strada significa rompere un patto sociale.
Il periodo della repressione post-’77 a Bologna non ha però coinciso con una totale rimozione. La persistenza della memoria dei movimenti ha da sempre tenuto viva la volontà di storicizzare — senza per questo museificarla — l’esperienza degli anni Settanta. […]