di Saverio Fattori
Tutti i capitoli di “Cattedrale”
Quindici mesi di catena di montaggio, dopo diciotto anni di Controllo Qualità hanno compromesso il mio equilibrio psichico. Sono debole e incattivito. E scriverne non servirà a curare o a lenire la malattia definitiva. Una vita tra cerebrolesi che alternano scatti d’ira a stati vegetativi. I ritmi lavorativi, i movimenti reiterati all’infinito, gli stimoli intellettuali mortificati delle esigenze pratiche della vita domestica, la televisione sedativa, i ristoranti pizzeria, il ricevimento dei professori, le vacanze estive trascorse nei paesi di origine del sud Italia. Bombardamenti quotidiani.
Le catene di assemblaggio sono piene di femmine, sembrano più dotate per eseguire lavori ripetitivi e non mettono mai in discussione le leadership, nessuna guerra al potere, piccole battaglie tra pari livello per le bucce di patate. Molte donne non sono sopravvissute al parto e conducono esistenze terrificanti. Sui quotidiani cercano immediatamente la pagina dell’oroscopo, ho visto circolare un settimanale pocket dedicato esclusivamente all’astrologia. Sembrano fuori gioco su tutto ciò che non è tangibile, riferibile a esigenze pratiche. Refrattarie a ogni impeto trasgressivo. Incapaci di sognare, hanno ammazzato a martellate tutti i grilli che nella testa dovevano pur avere avuto. Almeno nei primi anni della loro esistenza. Sembrano vomitate sul pianeta il giorno stesso, non hanno memoria storica, visione tridimensionale. Sulla competitività lavorativa sono spietate. Le mansioni sono elementari e nulla lasciano a creatività e iniziativa individuale, eppure riescono a ricavare un’ implacabile meritocrazia che nemmeno la dirigenza pretende esplicitamente. Sono efficienti in quanto attente ai dettagli, dotate di grande precisione e pragmaticità. Devono sempre dimostrare di essere migliore della collega che lavora accanto e che secondo la rotazione fa le stesse mansioni dettate dell’Instruction Plan nel medesimo tempo. Potrebbe apparire impresa impossibile. Un meccanismo inchiodato da secoli si è fatto patrimonio genetico e le induce a essere seducenti verso il potere, e sedotte dal potere stesso. Il potere è sempre e comunque maschio.
Gli operai maschi non hanno malizie di questo tipo, sono più dispersivi, lavorano per la busta paga, si dedicano alla cura dell’auto e ad altre inutili necessità quali le coppe europee di calcio e la formula uno. I più svegli frequentano le fiere dell’elettronica.
Maschi e femmine in Cattedrale vivono astrazioni, si accontentano di pezzi di vetro colorato. È sempre la non-coscienza a salvarli dalla depressione e dalla follia. Un delicato istinto di conservazione li sigilla e li rende impermeabili a dubbi e domande profonde, all’idea del suicidio. Non diventano pericolosi per sé e per gli altri, nessuno ha ancora acquistato un AK 47 su internet. Forse perché non si fidano ad usare la carta di credito per gli acquisti in rete. Forse perché non hanno accesso alle fiere delle armi da fuoco.
Nessuno è ancora entrato in mensa facendo fuoco all’impazzata.
…
Ma gli operai non sono forse belli?
La risposta al poeta Sandro Penna è NO. Non sono affatto belli. Se visti da vicino. Dicono cose che farebbero inorridire ogni poeta. Meglio scriverne tenendosene alla larga.
In fila con il vassoio in mano, non sanno se ridere o piangere batton le mani, far finta di essere sani. Si salutano come non si vedessero da anni e recitano la stessa formula a chi è già seduto e mangia, Come va? Tutto a posto? Dai che oggi è venerdì. Non hanno capito che abbiamo tot venerdì a disposizione, alcune migliaia di venerdì, ma è sempre un limite temporale che dovrebbe angosciarli dal momento che li sprecano in una fabbrica padana. In fila con un vassoio in mano. L’idea della morte non li tange, i loro pasti sono illimitati, il tempo è astrazione, ma hanno provveduto ad acquisire una fetta di immortalità generando prole. Questi bambini diventeranno adolescenti e assomiglieranno sempre di più ai genitori, poi sbrigheranno le pratiche burocratiche per la sepoltura dei loro vecchi.
Tutto è a posto perché nulla può esserlo e c’è solo rassegnazione, non c’è rinascita, non c’è vita, non è ancora morte. Il dialoghi sono testi del teatro dell’assurdo, pare che ogni giorno venga servito qualche contorno che provoca aerofagia. Polenta, fagioli, cipolle cotte, uno scherzo del destino o un piano delle cuoche. Risatine preoccupate per il pomeriggio nel ventre della catena di assemblaggio. Tutti i giorni la stessa constatazione. Nei secoli. Nelle generazioni. Se qualcuno sbuccia e mangia una banana il riferimento al cazzo è d’obbligo, qualcuno ricorderà sempre l’analogia alla fellatio. Da sempre, per sempre, dalle scuole medie. Ogni giorno. Ogni giorno qualcuno rimane a casa in maternità o si sposa.
– Si sposa Antonio.
– Si sposa Antonio?
– Quando si sposa Antonio?
– Non so. A primavera?
– Qualcuno sa quando si sposa Antonio?
– Non so, in autunno.
– Quello prossimo, mica questo. Siamo in autunno.
– Qualcuno sa se è autunno?
– Chiedi quando si sposa Antonio?
– Ale, sai quando si sposa Antonio?
– Chi è Antonio? Non me ne frega un cazzo di Antonio.
– Sai se è primavera?
– Porco dio.
Dal tavolo dei dirigenti niente di buono, niente di meglio. Anche loro parlano di liste di nozze, calcio, formula uno, aerofagia, case al mare. La politica è sfiorata, ci si limita a una indignazione fatalista e indefinita. Come gli operai. È questa l’unica rivoluzione praticabile, l’unica compiuta, una democrazia alla demenza, un livellamento al basso angosciante. Sto valutando di suonarla io la sinfonia pomposa allegra ma non troppo AK 47, rischiando la clonazione della carta di credito. . Tutti si macchiano di crimini. In Cattedrale tutti i delitti sono colposi, il delitto colposo, il più stupido e insopportabile, l’inutilità del dolore come redenzione. La banalità del male si compie ogni giorno, in ogni azione volta alla beata produzione.
Entrare in mensa e sparare a cazzo, perché l’assassinio strategico e mirato è fuori dalla storia. Impossibile oggi stabilire buoni&cattivi, decidere la trincea basandosi su codici etici sempre più labili. Il marxismo ha provato ad orientarsi stabilendo meritocrazie sulla base della classe sociale. Il nazismo ci ha provato con l’imbroglio della razza. Ci hanno provato con la forza. Io sono debole e confuso, figlio di una generazione impresentabile, pallida, cresciuta nelle tenebre.
In Cattedrale non ho trovato collocazione, sempre spiazzato tra vassalli e servi della gleba, e questo mi espone al fuoco incrociato. Cerco di essere un mercenario senza patria, fuori da ogni leccaculismo con chi detiene il potere, esterno al Sindacato Centrale. Dovrei eseguire le miserabili azioni richieste dalla mansione a cui mi hanno relegato nel modo più irreprensibile, per non prestare il fianco a richiami e azioni disciplinari. Devo essere a filo, perfetto, senza esibizionismi, devo stare silenzioso, aumentare le dosi di eroina, smettere di lavarmi, non togliermi l’mp3 nemmeno nelle pause, tenere Radiohead a volume altissimo e raggiungere l’estasi della beata produzione. In vent’anni di Cattedrale non ho mai isolato nessun responsabile per assicurarmi protezioni o per lamentarmi di pari grado, non ho mai elaborato strategie per emergere su altri infelici. Non ho mai fatto giorni di malattia per saltare qualche difficoltà. Negli anni al Controllo Qualità ho combattuto con miseri equipaggiamenti una guerra che non era la mia, ho fatto straordinario non pagato, mi sono svegliato alle sei del mattino con gli occhi crepati da pensieri molesti. Ho firmato carte false per test mai effettuati perché il tempo non me lo avrebbe concesso, a nulla sarebbero servite le mie giustificazioni con ufficiali che raccoglievano polvere con l’indice e mi guardavano interrogativi. Ho subito umiliazioni inflitte da creature elfiche, omuncoli dalle misere competenze e la coscienza torbida resi infidi dalla paura di cadere vittime di ridimensionamenti di personale.
Gli operai produttivi li vedevo privilegiati, prendevano più soldi per l’indennità di turno, erano completamente deresponsabilizzati, teste leggere, adepti felici del Dio Sirena che pone fine al loro supplizio quotidiano. Oggi, silurato, metto in scena il mio grottesco martirio. Credo per questo di essere mondato del peccato originale, credo di essere il migliore. Vedo ogni giorno esponenti della dirigenza e della middle class riuniti alla cerimonia del Gemba Tour delle 14. Loro sono i porci, i privilegiati, i mafiosetti che hanno saputo muoversi bene nelle segrete della Cattedrale. È consolatoria, in quanto parziale, questo livello di analisi. Ma dà un po’ di forza, la forza dell’odio cieco. Naturalmente non è la verità. Come detto, ho conosciuto la condizione della middle class, più schiavizzata perché ricattabile, ha mansioni che sovraccaricano d’ansia i centri nervosi e solo in rari casi il reddito giustifica l’impegno. Non è mai una questione economica pura. I soldi veri si fanno fuori dalle cattedrali, gestendo locali da aperitivo dove si servono cocktail a 8 euro o ristoranti pizzeria con materia prima molto scadente. È una questione di presunto prestigio. Le madri degli ingegnerini saranno liete di raccontare le gesta della loro genia a vicini e parenti, poca cosa, in vero. Operai e ingengerini frequentano le stesse discoteche, le stesse feste intercomunali, hanno gli stessi abiti e automobili. Ma ho bisogno di frizioni, di definire campi, di riesumare una coscienza di classe ridotta uno straccio. Loro difendono altre posizioni, interessi che non sono i miei, scrivono Standard Work ai quali io mi devo attenere, loro stazionano davanti a tabelle indicanti dati riferiti alle forniture, alla produzione, alle richieste del cliente, alla qualità del prodotto. Ognuno deve rispondere secondo le proprie responsabilità al direttore di stabilimento. Un tempo facevo parte del teatrino, commentavo i valori di FTQ (First Time Quality, qualità al primo colpo…) un rapporto tra la produzione e le difettosità di processo.
Ora sono a pochi metri dal capannello del Gemba Tour, i miei movimenti sono armonici e precisi. Posso fare un lavoro di merda. Posso fare tutto. I realtà questo lavoro da bestia a cui mi hanno relegato è la mia benedizione, non saprei fare di meglio, fuori dalla Cattedrale c’è un mondo ancora più feroce. Il mio siluramento ha una sua logica. La mia buona volontà, le mie capacità di recitazione non potevano ingannare gli assassini del nuovo management. Sono negato per tutto ciò che è pratico, non ho alcuna manualità, fatico a pelare un frutto. Ansia e crisi di panico mi assalgono con una certa frequenza, l’eroina cura i sintomi ma aggrava la malattia. Sono uno standard della malora, inadatto alla vita aziendale. La tipologia di essere umano capace di disquisire per ore sui nuovi registi tedeschi e che davanti al cofano aperto di un’auto non distingue alcuna parte meccanica. Il tipo refrattario a ogni incombenza burocratica, sempre impacciato e intimidito da banche, assicurazioni e altri ladri in associazione. Il mio rifiuto per i numeri esibito fin dalle scuole elementari, la mia incapacità nell’utilizzo di qualunque tipo di utensile. Quelli come me per qualche deviata ragione si sentono superiori agli altri esseri umani. Solo perché leggono libri, frequentano cinema, teatri, concerti o hanno qualche informazione che i telegiornali di regime ignorano. Troppo poco. Un cazzo di nulla. Si rivendicano sensibilità confuse, competenze non ben esplicitate nelle materie umanistiche. Difficilmente si sceglie di entrare in conflitto aperto con la razza avversa, ritenuta indegna di essere affrontata e riconosciuta. I malumori sbocciano a mezze frasi, spezzoni di ragionamento che si staccano dal cervello come iceberg in deriva. Silenzi rancorosi. Non ci sono punti fermi condivisi con gli altri abitanti della Cattedrale. Come faccio a dire che solo un ritardato mentale può guardare una puntata di Porta a Porta. Alcuni parlano di personaggi televisivi come parlassero di familiari o vicini di casa, li fisso cupo cercando di renderli partecipi del mio disprezzo. Ma senza tutto questo non so immaginarmi.