di Sandro Mezzadra
1. Non v’è dubbio che abbia ragione Giacomo Marramao (“il Manifesto”, 17 marzo): “è impossibile afferrare il cuore del presente senza sottrarlo al rumore dell’attualità”. E tuttavia, mi si consenta il gioco di parole, il presente resta il cuore del problema. Il presente: ovverosia le tensioni che lo segnano, i rapporti di dominio che lo organizzano, il “rumore sordo della battaglia”, per citare Michel Foucault, che si combatte in una dimensione diversa da quella da cui proviene il “rumore dell’attualità”. Il presente: ovverosia i salari che non consentono di arrivare alla fine del mese, la precarietà e l’attacco alla 194, ma anche le pratiche con cui i soggetti dominati e sfruttati conquistano quotidianamente spazi di libertà e di uguaglianza.
Ecco: a me pare che di questo presente si senta parlare davvero pochissimo nel “dibattito” che sta svolgendosi a “sinistra”, e in particolare sulle pagine del “Manifesto”. Il “rumore dell’attualità” lo ha dominato in una prima fase, quando ad appassionare il ceto politico dei quattro partiti (partiti? È un “partito” la “Sinistra democratica”? Mah…) che hanno dato vita alla Sinistra arcobaleno è stato il tema della composizione delle liste. Nessun moralismo al riguardo, sia chiaro: la politica è fatta anche di queste cose, ci mancherebbe. Ma quando è fatta solo di queste cose, c’è da preoccuparsi. E chiunque abbia avuto la ventura di ascoltare anche solo un paio di aneddoti sulle riunioni da cui sono emerse le liste della Sinistra arcobaleno sa bene che la preoccupazione è più che giustificata.
Ma ora le liste ci sono. Ed è cominciato il “dibattito”. Vi ha fatto capolino il “cuore del presente”? Non direi. Al suo posto sono subentrati un paio di fantasmi: il fantasma della Politica e il fantasma della Sinistra, con le iniziali rigorosamente maiuscole come ai fantasmi si conviene. Altre volte, nella storia moderna, attraverso figure fantasmatiche e spettrali si è cercato di nominare (perfino di “afferrare”) il cuore del presente: mi vengono in mente, per fare qualche esempio, alcune tragedie di Shakespeare, il Manifesto del partito comunista e un paio di scritti di Freud. Non mi pare che questo stia avvenendo oggi nel “dibattito” in questione. Dal presente i fantasmi ci strappano per ricondurci verso passati più o meno lontani, verso quelle che sempre più appaiono come mitiche “età dell’oro”. Dai due fantasmi dominanti (quello della Politica e quello della Sinistra) si genera allora tutto un corteo di spiritelli, tra loro ora in competizione, ora solidali: la Costituente, i “partiti di massa” (anche la DC, per carità), la “programmazione economica” durante il primo centrosinistra, l’FLM (sarà bene specificare: è la sigla con cui all’inizio degli anni Settanta si unirono i sindacati metalmeccanici di CGIL, CISL e UIL) e via fantasticando. Diceva Goethe, citato in esergo da Freud nella Psicopatologia della vita quotidiana: l’aria è così piena di spettri che nessuno sa più come evitarli.
2. La Politica e la Sinistra hanno con ogni evidenza una comune matrice (fantasmatica, naturalmente): il PCI e il lutto mai elaborato per la “svolta della Bolognina”. Lo si può capire, quando a scrivere e a parlare sono persone che quella vicenda hanno vissuto e sofferto in prima persona. Molto meno in altri casi. Ma lasciamo da parte questioni di psicologia individuale, ed evitiamo pure ogni ragionamento sul PCI e sulla sua storia. Qualcuno si ricorda del fatto che dalla Bolognina sono passati quasi vent’anni? Che il PCI non lo hanno mai conosciuto non solo gli elettori e le elettrici che andranno per la prima volta alle urne il 13 e il 14 aprile ma neppure i e le trentacinquenni? Una domanda banale: perché mai dovrebbero costoro essere convinti a votare a “sinistra” da retoriche di tipo ecologista, da quell’appello alla mobilitazione generale per salvare la Sinistra (e naturalmente la Politica) che ricorda l’appello a salvare il panda?
La cosa mi risulta misteriosa: ci saranno senz’altro alcune decine (o centinaia) di migliaia di persone in Italia sensibili a queste retoriche (per carità, in qualche modo mi iscrivo anch’io tra di esse). Ma gli altri e le altre, coloro che quotidianamente vivono senza la mediazione di un’esperienza politica precedente la realtà materiale (la durezza o il carattere suadente) dei rapporti di dominio e di sfruttamento su cui si fonda il capitalismo contemporaneo? Che cosa ha da dire loro il lamento preventivo per la possibile scomparsa della Sinistra e della Politica? Uno che di fantasmi se ne intendeva, un compagno tedesco della cui morte si è celebrato qualche giorno fa il centoventicinquesimo anniversario, ha scritto che “la tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sui cervelli dei viventi”. Non starà avvenendo proprio questo? Non varrà la pena, anche per poterci riappropriare di quanto nella loro storia ancora vi è di vivo, di seguire il suo invito e “lasciare che i morti seppelliscano i loro morti”?
3. Tra l’alzarsi delle sopracciglia, l’aggrottarsi delle fronti e lo spremersi delle meningi che si sprecano nei forum e nei dibattiti elettorali a “sinistra”, quel che va completamente perduto è la dimensione affatto materiale, corporea, dei conflitti e delle tensioni che vivono “al cuore del presente”. Lo ha sommessamente fatto notare soltanto qualche voce proveniente dal femminismo, e non è certo un caso. Facciamo un paio di esempi, del tutto diversi tra loro.
Primo esempio. La situazione mondiale è caratterizzata da sconvolgimenti che non è fuori luogo definire senza precedenti: la crisi statunitense e le sue ripercussioni — attuali e potenziali — ben al di là degli USA, la sempre più evidente incapacità del dollaro ad assolvere alla funzione di “moneta sovrana”, la sconfitta (che non cessa di provocare quotidianamente morte e disperazione) degli stessi Stati uniti in Iraq e in Afghanistan, l’ascesa tumultuosa della Cina e dell’India, inediti esperimenti politici in America latina. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Si sente parlare di tutto questo nel “dibattito” all’interno della “sinistra”? Se ne sente parlare pochissimo, e in modo affatto stereotipato: qualcuno vede nella situazione mondiale di oggi l’occasione per riesumare i discorsi sul “crollo” imminente del capitalismo (l’ultima volta che se ne era parlato, non era andata benissimo: c’era stato Hitler, c’era stata la catastrofe della guerra, c’erano state la Shoah e Hiroshima, ma il capitalismo non era crollato); qualcun altro vi trova conferma della futilità dei discorsi sulla “globalizzazione” e del persistente ruolo degli Stati nazionali. E alla fine il discorso cade sempre sulla “mano pubblica” e sulla necessità di una nuova programmazione economica. Ok, parliamone. Ma abbiamo un’idea di come qualificare questo discorso in modo diverso da come lo qualificano, in modi tra loro opposti, Scalfari e Tremonti? Ci rendiamo conto che questo non è possibile senza una lettura diversa della crisi attuale, senza vedere dietro di essa la spinta possente (e, occorre dirlo?, profondamente contraddittoria) di masse enormi di donne e uomini che tentano di uscire dalla miseria, dalla fame e dall’analfabetismo? Come collochiamo dentro questo scenario l’immaginata nuova programmazione economica in questo angolo di mondo? Dato per scontato, ma mica poi tanto, che il problema non sia la difesa degli interessi dell’italico proletariato, che idea c’è — a “sinistra” — di una politica che, pur radicata nel “locale” o nel “nazionale”, sappia guardare al “mondo grande e terribile” di cui scriveva Gramsci? L’Europa è brutta e cattiva, questo lo sappiamo: ma è necessaria o no una politica europea all’altezza dei tempi? Su tutto questo, a “sinistra”, il silenzio è assordante.
Secondo esempio, visto che siamo in tema di “mano pubblica”: la questione dell’Alitalia. Leggendo gli articoli di Valentino Parlato, ascoltando le dichiarazioni di Bertinotti, di Diliberto (nonché di D’Angeli e Ferrando), la soluzione davvero auspicata dalla “sinistra” pare chiara (e mi si perdoni se brutalmente semplifico posizioni che sono spesso tra loro ben diversamente argomentate): (ri)nazionalizzazione. Bon. Pare una bella idea. Che poi non tenga minimamente conto del modo in cui i trasporti aerei sono cambiati negli ultimi anni in Europa e nel mondo non preoccupa. E perché mai dovrebbe preoccupare? In Europa e nel mondo, negli ultimi anni, le cose sono andate sempre peggio, quindi bisogna cambiare rotta. Sarà anche vero. Ma proviamo a porre le cose da un altro punto di vista: qualcuno si è reso conto del fatto che, tra low cost e deregolamentazione, milioni di donne e di uomini che solo vent’anni fa non avrebbero mai messo piede in vita loro su un aereo hanno potuto viaggiare, ampliare i loro orizzonti, vedere un po’ di mondo? Lo si può ricordare senza che questo significhi dimenticare la precarizzazione dei rapporti di lavoro all’interno delle compagnie aeree e degli aeroporti? È o no da tenere presente, nel ragionare di Alitalia, questa nuova esperienza di mobilità che si è affermata negli ultimi anni? È un’esperienza, diciamolo chiaramente, che è entrata nei comportamenti e negli immaginari di un certo numero di “operai e proletari” (nonché di “precari”) in Italia come in un sacco di altri posti. È un’esperienza del tutto contraddittoria: mettiamoci pure il contributo che da essa viene quotidianamente all’incremento dell’effetto serra e del turismo sessuale. Ma dobbiamo avere nostalgia per i tempi in cui il trasporto aereo era appannaggio di “lorsignori” e gli operai viaggiavano rigorosamente in treno con le valigie di cartone? Dobbiamo spiegare agli operai e ai proletari che anziché andare in giro per l’Eruopa con i voli della Ryanair devono dedicare il loro tempo libero a ricostituire l’FLM? Sarebbe il caso di chiedere loro che cosa ne pensano.
Terzo esempio, suggerito dal riferimento all’FLM. Nel governo uscente c’è un ministro che si chiama Paolo Ferrero. Si è spesso lamentato, questo ministro (della “solidarietà sociale”), del fatto che durante il suo impegno di governo non vi è mai stata una manifestazione sui temi dell’immigrazione. È vero: non c’è stata negli ultimi due anni una grande manifestazione romana, con la partecipazione dell’ARCI, della CGIL, di Rifondazione comunista e della “galassia di associazioni” a cui ormai si è deciso di ridurre il significato del termine “movimento”. Non c’è stata una di quelle manifestazioni che offrono un sacco di scatti ai fotografi della Benetton, in modo che poi ci si possa lamentare dell’uso che viene fatto delle loro foto. C’è stata tuttavia una mobilitazione costante, almeno a partire dal mese di giugno dello scorso anno, con cui migliaia di migranti hanno chiesto al governo un paio di cose. Tra queste, l’abolizione del protocollo con le Poste, di quel protocollo in base al quale un immigrato/a, per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, deve prima di tutto recarsi in posta. E deve pagare 72 euro per avviare la procedura. Si pensi a una famiglia di quattro persone e si moltiplichi per quattro la cifra. Si parla molto di salari con cui non si arriva alla fine del mese: ci si rende conto di che cosa significa per una famiglia immigrata pagare 288 euro per ottenere il permesso di soggiorno? Giuliano Amato, a questo riguardo, ha parlato di una “rapina”. Ora: per quale ragione questo protocollo non è stato abolito? Mi è capitato di chiederlo recentemente (e pubblicamente) al ministro Ferrero. Mi ha risposto che devo domandarlo al suo collega Amato. Vi pare seria, una simile risposta? Va bene che ci sono i “poteri forti” (che, sia detto per inciso, assomigliano sempre più a quello che in altre retoriche politiche erano e sono le logge ebraico-massoniche), ma insomma: se un ministro del governo uscente si fosse posto come obiettivo quello di abolire il protocollo in questione, se avesse telefonato lui (non certo io) tutti i giorni per un paio di settimane al collega Amato, se avesse posto la questione con l’urgenza avvertita da centinaia di migliaia di migranti in questo Paese, probabilmente ce l’avrebbe fatta (e se non ce l’avesse fatta avrebbe potuto fare della questione un “caso” nazionale). Perché questo non è avvenuto? Certo, magari ha pesato il fatto che i migranti non votano, ma resta il dubbio — più grave — che il ministro, perso a fantasticare di una rinascita della FLM, non si sia proprio accorto di quello che migliaia di operai e proletari in carne e ossa domandavano al “suo” governo. Il fantasma di una classe operaia che non c’è più giocato contro gli operai che ci sono, verrebbe da chiosare.
4. Sono solo tre esempi, molto diversi tra loro come si era promesso. E va da sé che si potrebbe continuare a lungo. Ma non è il caso. Il punto è sempre quello proposto da Marramao: afferrare il cuore del presente. E a me pare che il “dibattito” apertosi a “sinistra” si tenga rigorosamente a distanza da questo punto cruciale. Anzi: mi pare che riproduca un abito di pensiero, uno “sguardo” sui conflitti contemporanei, un immaginario che militano rigorosamente contro la possibilità di afferrare il cuore del presente; che popolano quest’ultimo di fantasmi da cui chi li prende sul serio, come si è detto, è costretto a rivolgere il proprio sguardo a un passato più o meno mitizzato, finendo per risultarne ipnotizzato e paralizzato. Poi magari una ragazza ventenne che ha sentito parlare dei fantastici anni del primo centrosinistra va al cinema, vede sfilare nello splendido film di Alina Marazzi, Vogliamo anche le rose, le icone patriarcali di quegli anni, e si sveglia. Facevano proprio così schifo quegli anni? Sì, facevano schifo. E ci sono volute la rabbia, l’indignazione e la violenza (ripeto: la violenza) di operai e studenti, di donne che non ne potevano più, perché si cominciasse a respirare un’aria diversa. Il Sessantotto di cui tanto si parla oggi è stato questo, un diverso sguardo sul presente nato dalle lotte e dalle tensioni di quel presente, divenuto di massa e capace di produrre nuova libertà e nuova uguaglianza: si consenta di dirlo a uno che in quell’anno aveva appena cominciato le elementari, e che ha sempre avuto una coscienza precisa del debito enorme contratto con quegli operai, con quegli studenti, con quelle donne.
Non abbiamo bisogno di miti, neppure di quello del Sessantotto così riletto. Ma abbiamo bisogno di nuove parole, di nuovi sguardi, di nuovi immaginari. Abbiamo bisogno di leggere la domanda di massa (che c’è) di una politica (con la p minuscola) nuova, abbiamo bisogno di individuare obiettivi per cui mobilitarsi davvero, che parlino ai comportamenti, ai desideri di liberazione, alle lotte che sono il cuore del nostro presente. E che cosa ci dice l’ineffabile Fausto Bertinotti dalle pagine del “Manifesto” (forum del 9 marzo)? Tra le altre cose, che dopo le elezioni la sinistra “avrà una scelta quasi obbligata”: quella di lottare per “la centralità dei partiti in una repubblica parlamentare e proporzionale”. Mi scusi, Presidente, ho capito bene? La “centralità dei partiti”? È questo il suo modo, doloroso e tormentato come è nel suo stile, di “uscire dal Novecento”? Wow… Sul Novecento si sono dette un sacco di sciocchezze negli ultimi anni: ma la “centralità dei partiti”, così come l’abbiamo conosciuta nell’ultimo secolo, quella sì è finita per sempre. Lo pensano Obama e Veltroni, ma se ne sono ben resi conto Chávez e Morales, caro Bertinotti.
Votate pure per chi vi pare, il 13 e il 14 aprile. Ma i problemi sono altri. E come sempre abbiamo fretta, il tempo è una risorsa scarsa per chi vuole cambiare il mondo (permettete anche a me di dire un’enormità, tanto in giro si sprecano…). Ecco, il “dibattito” che si è aperto da un paio di settimane a “sinistra” in questo Paese mi pare una colossale perdita di tempo. When the earth moves again, cantavano i Jefferson Airplane un sacco di anni fa: quella, la terra, non ha mai smesso di muoversi. Basta saper guardare.