di Girolamo De Michele
La scoperta dell’esistenza di trappole logiche è uno dei risultati più importanti della Scuola di Palo Alto, una corrente della psicologia che, partendo dalle analisi di Gregory Bateson, studiava le patologie della psiche puntando l’attenzione sulle relazioni distorte. Cos’è una trappola logica? Una struttura relazionale che non consente alcuna possibilità di sfuggire ad una relazione malformata. Ad esempio, la madre che regala due camicie al figlio, gli chiede quale delle due preferisce e, avuta risposta, commenta: l’altra proprio non ti piace, vero?
Questa struttura può essere applicata alle relazioni interpersonali, ma anche a quelle tra gruppi o macro-gruppi: la psicologia del giocatore d’azzardo incapace di smettere di giocare, l’autopercezione dell’alcolista, le dinamiche della corsa agli armamenti sono tipiche situazioni nelle quali i soggetti, presi all’interno di doppi vincoli, non sono in grado di uscire dal contesto e reiterano la trappola qualunque decisione prendano. Questa struttura ci è utile per uscire dalle secche della questione dei “temi eticamente sensibili”, brandita dal partito trasversale dalla reazione catto-integralista, braccio secolare di Joseph Ratzinger oggi come ieri (absit iniuria verbis) i gesuiti di Paolo IV. Il tema sembra neutrale: da Binetti a Casini, chi se ne fa portatore afferma la rilevanza etica di alcuni temi sui quali la politica è chiamata a deliberare, o alternativamente a non deliberare per principio, giacché “sulla vita non si vota”. Sono definiti “eticamente sensibili” temi che afferiscono in via prioritaria alla vita: l’Associazione Scienza & Vita elenca «legge 194, linee guida legge 40, pillola del giorno dopo, pillola RU486, disabilità, testamento biologico, trattamento sociale e sanitario del fine vita, identità e genere». Questi temi vengono fatti discendere da una comprensione antropologica della vita e della persona presentata come autoevidente («la centralità acquisita dalla questione antropologica e dai temi eticamente sensibili nel dibattito pubblico italiano»), laddove si tratta dell’antropologia cattolica. La trappola logica scatta nel momento in cui il contraddittore è preso da un’apparente alternativa. Se rifiuta i temi elencati, viene accusato di mancanza di senso etico, di edonismo, di relativismo. Se invece li accetta, magari criticamente, implicitamente legittima l’esclusione, o la minore rilevanza etica, di altri temi dal campo dell’“eticamente sensibile”. Un campo che secondo il pensiero catto-integralista va perimetrato in modo autorevole, distinguendo tra ciò che è fuori dal perimetro (ed è quindi negoziabile), ciò che è interno e non è negoziabile, e ciò che sta sul confine, in «una zona di chiaro-scuro che le sfide della tecnica oggi ci propongono in un modo che mai era stato preso in considerazione prima» (Paola Binetti). Da qui, complice quell’equivoco di origine heideggeriana che consiste nel confondere la tecnica in quanto tale con la scienza, ed ambedue con la riflessione sulla scienza (epistemologia), si dà per scontato che «la tecnica non pensa» e si esclude per principio l’autorevolezza di qualsivoglia pensiero inficiato o compromesso col «modo di pensare tecnico», non importa se proveniente da medici, biologi, epistemologi, o anche filosofi che si relazionino con i nefasti esiti del vaso di Pandora scoperchiato da Galilei (Ratzinger: per approfondire clicca qui). E si conclude, brachilogicamente (cioè omettendo di tematizzare la discutibilità del secondo passaggio) che l’unica autorità non può che essere quella del dottor Ratzinger, il quale (ancora Binetti) «da un lato pone la vita, la famiglia e l’educazione. Dall’altro le lotte di contrasto alla povertà, la solidarietà e la pace. Quello che emerge è un panorama amplissimo perché ciò che è eticamente sensibile è anche il modo con cui lo si affronta. Dobbiamo stare molto attenti, c’è tanto margine su cui la nostra ragione può trovare la spazio di condivisioni, poi c’è il valore soglia. Dobbiamo cercare di restare lontani da quel valore soglia». Degno di nota è l’uso di quella fallacia logica per la quale il rinvenimento di UNA autorità equivale all’identificazione dell’UNICA autorità: perché, su quali basi l’autorità dev’essere unica? Chi dice che non debbano misurarsi, anche conflittualmente, diverse istanze normative (una metafisica, una utilitaristica, una contrattuale, poniamo), tale per cui prevalga quella che esprime la maggiore potenza di essere?
Se si accetta questa delimitazione del campo della negoziabilità politica in ciò che è etico e ciò che non lo è, pare un’affermazione di senso comune dire che «le questioni etiche sono anche propriamente politiche e pertanto oggetto delle scelte partitiche e parlamentari e in quanto tali non sottraibili, in virtù del semplice ricorso alla libertà di coscienza, al confronto democratico che è costitutivamente pubblico». Ma ragioniamo per assurdo. Chi potrebbe negare la rilevanza di temi quali la definizione di cosa è o non è vita o persona, o di quale sia l’essenza costitutiva dell’essere umano (se cioè la distinzione biologica di genere sia prevalente sulle aree di confine e sulle violazione dei confini tra generi)? Chi negherebbe che questioni meramente tecniche o amministrative, quali la facoltà di un Comune di concedere la licenza a un outlet, la destinazione del TFR nei fondi pensione o le leggi contro le sevizie sugli animali siano temi “secondari” rispetto a quello sopra citati: talmente secondari da lasciarli al “libero gioco del mercato” (cioè a quel modo tecnico di pensare che sui temi etici si intende scongiurare)? Una decisione sulla RU486 o sulla legge 40 comporta la definizione di un centro — il tema in sé — e di una serie progressivamente ampliantesi di cerchi concentrici che si estendono fino a toccare domande quali: cos’è la vita?, cos’è una persona?; ed anche (con buona pace dell’asse teo-dem-com): cosa accade quando due vite esistono in un unico corpo? Può una persona pienamente formata essere privata dell’arbitrio sul proprio corpo in favore di un corpo ospite? Ancora più ampio: la vita è un concetto univoco, o esistono gradi e differenze? L’embrione è già in tutto e per tutto vita compiuta, o è vita di grado e dignità diversa dal corpo senziente e ben organizzato della madre (come sostenevano quei pericolosi laicisti di Tommaso d’Aquino, il cui pensiero è interamente dottrina della Chiesa, Maritain, maestro spirituale di Paolo VI, e papa Luciani)? In ogni caso, il carattere etico di questi interrogativi sembra risiedere nel fatto che a partire da esso non può darsi risposta che non implichi una risposta su che cos’è la vita nel più ampio senso biologico, e quali sono i rapporti tra i diversi viventi (esseri umani, embrioni, animali, ambiente, natura inorganica). Nulla a che vedere col semplice gesto di andare a fare shopping nell’outlet: qui, al massimo, si può tirare in ballo la vanità del vestire griffato, o eventualmente il bisogno, che colpisce anche i ceti cosiddetti medi, di una maggiore oculatezza nel bilancio familiare.
E invece Roberto Saviano ci ha mostrato come il circuito degli outlet si integra nell’economia “legale” gestita dal sistema-camorra; che questo sistema è intrecciato con quello dello sviluppo urbanistico e del circolo virtuoso/vizioso tra sviluppo, controllo camorristico dell’edilizia nazionale, produzione di profitti in nero e devastazione dell’ecosistema (ecomafia, devastazione del letto dei fiumi per il prelievo di sabbia, utilizzo di materiale contaminato nelle costruzioni, smaltimento al sud delle scorie radioattive delle virtuose regioni del nord); che tutto questo si intreccia con una rete di relazioni conflittuali che produce un deprezzamento del valore e della dignità dell’esistenza umana: nei termini di Habermas, una colonizzazione del mondo della vita da parte di enti quali denaro, potere, carisma. Ed ecco che un mero atto amministrativo quale la licenza di avvio di un’attività commerciale si allarga sino a richiedere una comprensione dell’intero ecosistema naturale e sociale, nei termini evocati a suo tempo da Bateson con la sua “ecologia della mente”. È possibile una tale comprensione senza un radicamento nella dimensione etica?
Veniamo a un atto amministrativo “negoziabile” quale la composizione economica delle pensioni. Qui il cerchio si allarga non solo verso il diritto alla pari dignità della vita finalmente sottratta alla servitù del lavoro rispetto allo scambio tra salario e mercificazione della pienezza dell’essere umano (temi che svaporano nell’estatico “patto tra produttori”, per criticare il quale basta rileggersi la critica di Gobetti all’interclassismo mazziniano), ma verso la costituzione stessa dell’essere sociale. Il lavoratore attirato all’interno della dinamica finanziaria del fondo pensione è infatti sottoposto ad un crescendo di apprensione, speranza, timore indotto dalle oscillazioni dei mercati, da cui intuisce dipendere il proprio futuro; e dalla deresponsabilizzazione etica, cioè dall’indifferenza verso il depauperamento di una parte del mondo causato dall’andamento delle borse dai quali dipende il proprio futuro. La finanziarizzazione dell’esistenza si prolunga sino alla società delle passioni tristi, all’interno della quale la percezione dell’altro in quanto straniero, migrante, diverso avviene secondo le modalità della paura e dell’aggressività: questioni sulle quali farebbe bene a riflettere quel centro veltroniano che ha in tempi recenti cercato di scavalcare la destra sul terreno della xenofobia e del razzismo. La stessa ontologia dell’essere sociale, cioè la risposta alla domanda “che cosa esiste?” (chi è quella figura sulla panchina del mio quartiere? un migrante abbruttito dalla stanchezza del lavoro? un feroce clandestino assetato di stupri? un essere umano portatore di inviolabili diritti e dignità?) si rivela non essere né la conseguenza né la causa, ma l’altra faccia della dimensione etica.
E che dire di leggi che vietano di infliggere sevizie agli animali? Una riflessione che parte dall’interrogativo “cos’è un animale?”, ci insegna Deleuze riflettendo sui dipinti di Bacon (ma anche gli studi etologici) si allarga fino a comprendere il “divenire animale” come potenza di essere dentro di noi, fino a ridefinire il diritto umano come diritto che deve insistere sull’intero vivente, compreso quello non-umano (Martha Nussbaum): fino a comprendere il corpo che soffre come il luogo della dignità di questa potenza, dunque come luogo inviolabile, a fronte delle pretese di potestà sul corpo altrui che accomunano nella loro essenza gli anti-abortisti e i torturatori di Guantanamo
Un’etica fondata sulla dignità del vivente in quanto tale è dunque implicita in una apparentemente banale interrogazione sulla liceità di tagliare le unghie ai gatti, di organizzare combattimenti tra animali, di cacciare indiscriminatamente per il proprio piacere. E la sua pratica sembra produrre abitudini e costumi che favoriscono una pre-comprensione etica non solo dell’altro, ma anche del mondo: estendere i diritti oltre la persona umana prelude all’istituzione di diritti privi di soggetto personale, diritti il cui soggetto sono enti quali i mari, l’aria, l’ambiente. Cioè quella “conoscenza che illumina” tanto le relazioni umane quanto la natura, tanto spesso richiamata oggi da Roberta De Monticelli, di cui parlava Francesco d’Assisi. La stessa De Monticelli [a sinistra] ci ricorda che anche la costruzione logica di un argomento è un fatto etico, perché etico, ancor più che logico o sintattico, è il fatto che ogni asserzione deve mostrare le condizioni della propria costruibilità ed eventualmente della propria confutabilità. Che, insomma, la corettezza logica è un fatto etico.
Eravamo partiti dall’ambigua definizione di “temi eticamente sensibili”, e siamo arrivati a scoprire che probabilmente non ci sono temi più sensibili di altri, o valori più negoziabili di altri, perché nulla è fuori dal campo dell’etica. Ogni possibile ontologia al tempo stesso richiede e fonda una comprensione etica del mondo come luogo delle relazioni, delle azioni, delle continue deliberazioni tra mezzi e fini, tra intenzioni e risultati, tra azione e responsabilità. La tradizione del materialismo critico ha sempre frequentato questo interscambio di etica e ontologia: dalla natura relazionale e amorosa dell’atomismo lucreziano al rapporto strettissimo tra moltitudine e virtù politica in Machiavelli, dove questo rapporto è filtrato e continuamente ricreato dagli ordinamenti che esprimono la natura positiva della moltitudine, e al tempo stesso la ricreano; dalla sempre effettiva possibilità di rinegoziazione dei patti e degli ordinamenti in Spinoza, che radicalizza la democrazia olandese in direzione di un diritto secondo potenza (tanti più diritti ha la moltitudine, quanta più è la potenza conoscitiva di cui dispone) che per un verso esprime sul piano sociale la potenza liberatoria del soggetto che assottiglia le passioni tristi con la pratica della gioia, e simultaneamente crea le condizioni reali entro le quali il singolo può praticare la gioia piuttosto che la tristezza (ma diceva forse altra cosa il Dante del “De Monarchia”, quando poneva all’interno della città virtuosa e pacificata la possibilità di realizzare pienamente la natura di “compagnevole animale” della comunità degli uomini?). E il discorso potrebbe continuare, prolungandosi almeno, attraverso Marx, verso la saldatura tra la liberazione dalla servitù del lavoro alienante nella concretizzazione di un Intelletto Comune (il Marx del Capitale e dei Grundrisse) e la natura dell’essere umano come essere indefinito che non è fine in sé, ma che crea il proprio fine e il proprio habitat nel porsi un obiettivo e trovare i mezzi per realizzarlo (il Marx dei Manoscritti del 1844); un Marx che apre già all’antropologia filosofica di Anders, dell’esistenzialismo, del post-strutturalismo francese.
In conclusione: perché dovremmo praticare questo terreno dove l’ontologia è fondata in quanto etica? Perché qui non vige quella distinzione tra temi etici e non etici che allude ad una politica come arte della negoziazione e del compromesso su ciò che è oltre il perimetro pre-definito: una distinzione che rimanda ad una naturale gerarchia di valori (l’etico, il non-etico, il quasi-etico sul limite) e che richiama, in modo presuntamente naturale, un’autorità che dall’alto del suo magistero si arroga il diritto di perimetrare l’agire umano in modo normativo e non più negoziabile. Su questo terreno, l’essere umano è corpo spiritualizzato e spirito fatto materia; il desiderio è potenza di essere, non pulsione negativa; l’agire è creazione continua, non obbedienza servile; l’esistenza precede e genera l’essenza; l’altro è differenza che continuamente altera la mia natura, non rispecchiamento e riduzione dell’Alter-ego nell’Ego.
O il pensiero della sinistra si pone, nelle pratiche prima ancora che nelle riflessioni, su questo terreno costituente, o non so cosa la parola “sinistra” possa significare.
[questo saggio è stato pubblicato su “Liberazione” del 8 marzo 2008]