di Blicero
Martedì 11 marzo 2008 i pubblici ministeri Petruzziello e Ranieri Miniati hanno letto le loro richieste di pena per i 45 imputati per i fatti di Bolzaneto: le condanne ammontano a qualcosa come 76 anni complessivi, ma solo per 15 degli imputati la pena supera la soglia della condizionale (ventiquattro mesi) e solo per 8 di questi quella dell’indulto (tre anni). Per i restanti trenta le condanne sono di circa un anno (o meno) a testa, anche considerata la peculiarità delle condizioni che si sono verificate a Bolzaneto – hanno detto i pm. Il problema è che non c’è nulla di straordinario in Bolzaneto, se non il fatto che ciò che è accaduto sia sostanzialmente di dominio pubblico.
La caserma del VI Reparto Mobile di Genova a Bolzaneto nel luglio 2001 era uno dei due luoghi adibiti a ricevere i fermati e gli arrestati per poi trasferirli alle carceri di destinazione (o rilasciarli nel caso dei primi). L’altro luogo era Forte San Giuliano, una caserma dei Carabinieri. A Bolzaneto per l’occasione si costruì una palazzina in cui le forze dell’ordine operanti in ordine pubblico dovevano portare i fermati, consegnarli agli uomini della Digos e della squadra mobile presenti, con i quali dovevano redigere gli atti relativi al fermo o all’arresto. Gli arrestati poi dovevano essere “passati” alla polizia penitenziaria, immatricolati, visitati e trasportati (o tradotti, come si dice in gergo) nei carceri di Alessandria, Pavia, Voghera, Vercelli.
In realtà – come ormai tutti sanno – a Bolzaneto sin dall’arrivo le persone venivano sottoposte a una sorta di contrappasso violento e umiliante, una specie di vendetta, in cui le forze dell’ordine si autoqualificavano di fatto come avversari dei manifestanti. Questa è la prima inversione che spesso si cerca di fomentare per sminuire i fatti della caserma: nessuna delle persone in stato di “ristretta libertà” ha dato luogo a episodi di resistenza o di violenza, e quindi la decisione vigliacca e vile di esercitare la violenza anziché di svolgere il proprio compito ha una sola origine ben definita. Le persone venivano accerchiate, insultate, minacciate e picchiate nel cortile, poi venivano minacciate e percosse negli uffici della Digos e della squadra mobile, al fine di far loro firmare dei verbali redatti in italiano anche per gli stranieri. Ogni volta che le persone venivano spostate dalle celle di sicurezza all’ufficio trattazione atti e viceversa, dovevano passare in mezzo a due ali di agenti che continuavano a menare calci, pugni, sgambetti, insulti, sputi. Nelle celle di sicurezza le persone non potevano stare sedute, ma dovevano stare in piedi con la faccia al muro, le braccia alzate e le gambe divaricate, tanto che molti hanno avuto malori e conseguenze anche a medio-lungo termine per la posizione imposta. Senza contare gli episodi di violenza fisica e verbale gratuiti. A questo punto i fermati venivano rilasciati, non prima di essere stati fotosegnalati dalla scientifica (dove però non avviene nessun episodio di violenza), mentre gli arrestati passavano nelle mani della Polizia Penitenziaria, dove il trattamento nelle celle continuava: divieto di andare in bagno o l’accompagnamento con pestaggi e umiliazioni; violenze gratuite; minacce e intimidazioni continue. Dalle celle gli arrestati venivano immatricolati senza consentire loro di avvisare i familiari o i propri consolati, poi venivano perquisiti e visitati nella stessa stanza, dove agenti e medici li trattavano con violenza e scherno. Poi tornavano alle celle e infine erano tradotti alle carceri, alcuni dopo oltre 30 ore di permanenza nella struttura temporanea senza cibo e acqua. Per molti l’arrivo in carcere era praticamente una liberazione.
Per tutto questo i pm avrebbero voluto usare il reato di tortura, che però in Italia non esiste, nonostante il nostro paese sia firmatario della convenzione delle Nazioni Unite sulla tortura del 1989, che impegna i paesi firmatari a tradurre in disposizioni di legge il contenuto della convenzione: a venti anni di distanza nessuna legislatura è stata in grado di portare a termine questo compito. Al di là di questa carenza i pm hanno deciso di individuare e punire con pene più severe il cosiddetto livello apicale, ovverosia i capi dell’ufficio trattazione atti, i capi del sito di Bolzaneto, dell’infermeria, del servizio di traduzione, dei servizi di vigilanza alle celle: in pratica hanno ritenuto che il loro ruolo di responsabilità e garanzia fosse più importante e quindi da punire con più fermezza. Da questo livello hanno deciso di escludere il responsabile formale del sito, il magistrato Alfonso Sabella che pure vi era passato e che aveva a maggior ragione un ruolo di garanzia nei confronti di chi transitava in quei siti. Ma la solidarietà di casta non conosce confini.
Viceversa hanno ritenuto che i livelli intermedi e gli agenti che effettivamente sono stati i protagonisti dei trattamenti fossero responsabili solo di episodi da inserire in un clima di impunità da attribuire ai loro dirigenti. Eccezioni sono ovviamente gli agenti individuati e riconosciuti con chiarezza come protagonisti di singoli atti di particolare crudeltà: ad esempio Pigozzi che prende a due a due le dita della mano di un arrestato, AG, e le divarica fino a provocargli lesioni. Il risultato finale sono una richiesta di pene (da notare che spesso i tribunali comminano pene inferiori a quelle richieste del pm) di circa 76 anni, una sola assoluzione, ventinove posizioni in vista di prescrizione e comunque entro i termini della condizionale, quindici posizioni con pene un po’ più cospicue.
Tutti soddisfatti? Direi di no, per almeno due motivi importanti (e una miriade di motivi più triviali): in primo luogo queste condanne equivalgono a meno della metà degli anni di carcere chiesti e ottenuti per le 25 persone accusate di aver partecipato agli scontri della giornata, e l’atteggiamento dei pm nei confronti degli imputati è stato improntato a un garantismo e una prudenza esasperati, tali che se non vi era prova certa del fatto e dell’identificazione di un imputato come autore di quel fatto, si sono pronunciati sempre e comunque per l’assoluzione (fermo restando l’ottimo lavoro svolto dai pm nel clima di difficoltà che un processo contro le forze dell’ordine rappresenta sempre). Non che nessuno sia interessato al fatto che queste persone passino mille anni in carcere, ma una condanna più dura in un caso come questo dove siamo alle porte della prescrizione sarebbe stata un segnale più forte da parte della procura rispetto a quanto è avvenuto e quanto avviene tutti i giorni (vedi sotto). E’ facile capire come chiunque sia passato da Bolzaneto e non abbia denunciato quello che vi avveniva lo faccia in malafede e si renda corresponsabile di ciò che è accaduto. Mettete nell’equazione i campi dove tenevano i desaparecidos in Argentina al posto di Bolzaneto e vedrete che i conti tornano. Ma la giustizia si fa garante dell’onere della prova della commissione di un reato solo quando questo reato è esercitato da chi sta tra i ranghi del potere: infatti, per le 25 persone accusate degli scontri di piazza, non vi è stato alcuno scrupolo né nell’individuare i singoli reati commessi, né nello scegliere un capo d’accusa che avesse senso: servivano pene esemplari, e si è usato il reato necessario, anche a dispetto della realtà. La conclusione amara a cui uno deve giungere è che è meglio torturare come sottoposto centinaia di persone, che non spaccare due vetrine o lanciare quattro sassi: nel primo caso prendi 10 mesi e sei libero, nel secondo prendi 10 anni di galera.
Il secondo punto problematico è la motivazione per le pene contenute richieste per gli esecutori materiali: secondo i pm le condizioni della caserma di Bolzaneto sono state eccezionali, nella commistione di diverse forze dell’ordine, nella poca chiarezza delle direttive, nella concitazione di quei giorni. Questa straordinarietà ha convinto i procuratori a non chiedere la recidività delle condotte e a chiedere in prima persona l’applicazione della sospensione con la condizionale della pena. Il problema è che quanto è avvenuto a Bolzaneto non è per nulla eccezionale, ma è la prova vivente di quanto avviene tutti i giorni in moltissimi luoghi del paese, nelle caserme, nei centri di permanenza temporanea, nelle carceri e alle volte (si vedano i casi recenti di Aldrovandri e di Sandri per citarne due) anche nelle strade. Bolzaneto è la rappresentazione dell’anima nera di una buona parte delle forze dell’ordine, della sensazione di chi veste una divisa di essere al di sopra della legge e di poter esercitare arbitrariamente il proprio potere su tutto e su tutti, in particolare su coloro che sono detenuti (o comunque “ristretti” nella loro libertà come i migranti in un CPT o i fermati in una cella di sicurezza della questura). L’arroganza e la prepotenza di moltissimi (non tutti, ci mancherebbe, non facciamo della facile demagogia) membri delle forze dell’ordine è un dato di fatto, e qualificare Bolzaneto come eccezione forse non rende un grande servizio alla possibilità che tutto questo cambi. Ma la strada perché le persone si interessino veramente di come funziona il mondo che le circonda e di come si esercitano il potere del controllo e della repressione è ancora molto lunga. Bolzaneto in questo senso è un’occasione persa, un tentativo di infilare tutto sotto il tappeto considerandolo come un episodio terribile ma isolato. Il male è molto più ordinario di quello che piace pensare.
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Comunicato di supportolegale, rassegna stampa, udienze.