di Alberto Prunetti
[Questo testo è debitore della lettura del saggio inedito di Silvio Antonini sull’avvento del fascismo a Viterbo, di prossima pubblicazione, e dello spettacolo teatrale “Sottoassedio” di Antonello Ricci] A.P.
Viterbo, 2 maggio 1921. Piazza Verdi ospita un comizio del fascista Giuseppe Bottai. L’oratore non riesce a prendere la parola: lo sfida un giovane scalpellino, il repubblicano Duilio Mainella. Alcuni socialisti intervengono, la tensione sale, i fascisti si ritirano scortati dalle forze dell’ordine verso la sede del Fascio. Per strada la folla tumultuante getta contro di loro dei sassi. La reazione degli “italianissimi” arriva attraverso dei colpi di pistola esplosi a casaccio. Ci sono feriti da entrambe le parti. A terra rimane il muratore Antonio Prosperoni, di 21 anni. Secondo alcune testimonianze, i reali carabinieri avrebbero assecondato la reazione dei nerocamiciati.
Viterbo, 9 luglio 1922. Viene accoltellato lo scalpellino anarchico Antonio Tavani, ardito del popolo noto per la forza fisica e il coraggio. Antonio è figlio del cavallaio Olindo, che si vanta di essere stato tra i butteri maremmani che il 4 marzo 1890 avevano sconfitto Buffalo Bill nella tappa del Wild West Show a Cisterna. Tavani è accoltellato fuori da un’osteria, nel corso di una colluttazione che scaturisce da motivazioni politiche, tradimenti e animosità personali.
Tra questi due microfatti violenti, l’omicidio Prosperoni e l’omicidio Tavani — tra le morti apparentemente “banali”, accidentali, di questi due popolani — ci sono eventi politici più grandangolari: la fine della spinta rivoluzionaria del biennio rosso, i moti contro il carovita del dopoguerra, le spinte decadentiste di alcune frange intellettuali, lo squadrismo nero, l’arditismo popolare, una guerra civile non dichiarata, la paura delle sinistre di incoraggiare l’autodifesa e l’insubordinazione popolare.
Tra il maggio 1921 e il luglio 1922 il fascismo, attraverso le squadre nere, lancia la sua offensiva nel viterbese e assalta con tecniche teppiste le organizzazioni della sinistra e del sovversivismo: sono prese di mira sedi di leghe e associazioni, luoghi di ritrovo come i caffè e i locali del mutuo soccorso, e poi ancora i municipi amministrati dalla sinistra, le redazioni dei giornali operai, le tipografie, i locali politici, spesso anche le abitazioni private. Si impone l’esposizione del tricolore italiano, assieme a bastonate, incendi, devastazioni di macchinari e omicidi. Poi la fuga sul camion, sotto lo sguardo distratto delle autorità di polizia. Una campagna intensa, quella dello squadrismo fascista, di cui i partiti politici della sinistra tarderanno a comprendere natura e finalità. Socialisti e repubblicani pensano che il fascismo sia un fenomeno teppistico transitorio. Nella base del sindacalismo rivoluzionario ci si organizza per difendere le proprie strutture e la vita dei propri compagni: non si può stare a guardare mentre la teppa nerocamiciata distrugge e vandalizza. Tra gli anarchici e i braccianti, tra cavatori e scalpellini inizia a organizzarsi la resistenza. A volte in maniera spontanea: si fronteggia l’arrivo dei vandali, ci si oppone al loro improvviso passaggio nelle campagne. Ecco allora tutta una serie di microfatti. Ad esempio, il 18 aprile del ’21 i carabinieri danno notizia alla Regia Procura di Viterbo che a Vallerano “per ragioni di partito avvenne grave rissa” tra socialisti e squadristi, con sette feriti con arma da fuoco e da taglio. Fenomeni come questi sono frequentissimi. Pochi giorni dopo le carte della procura danno nota che un gruppo di fascisti a Bagnorea ha intimato “sotto minaccia di rappresaglia il capolega dei contadini Paiolo Augusto di consegnar loro la bandiera rossa e di rilasciare una dichiarazione colla quale si obbliga a sciogliere la suddetta lega”.
In una situazione così drammatica la resistenza popolare comincia a organizzarsi in maniera autonoma, dal basso, mentre i vertici politici, anche quelli della sinistra, non riescono a comprendere la strategia dello squadrismo fascista, che sta conducendo una campagna militare, una guerra civile non dichiarata. I rappresentanti politici del proletariato vogliono dissuadere i propri militanti di base ad agire per conto proprio, a difendersi con le proprie mani. Ma anche a Viterbo, come altrove, reduci e militanti di sinistra iniziano a costruire squadre di autodifesa popolare sul modello di quelle organizzate dall’anarchico Argo Secondari a Roma. Nascono così gli arditi del popolo, che per divisa e organizzazione si richiamano all’esempio degli arditi di guerra. Appena in tempo: tra l’11 e il 12 luglio il nemico è alle porte di Viterbo. Gruppi di fascisti armati si approssimano alle mura. I carabinieri non fanno quasi nulla per fermarli. La gente lancia l’allarme. Rimbomba il campanone civico del comune. Le strade si riempiono di persone armate, gli arditi del popolo sequestrano armi ai borghesi e le danno agli operai, perché si lancino sulle mura. Le autorità sono scavalcate. I fascisti sono costretti ad arretrare. Chiedono aiuti ad altre unità squadriste, arrivano camion da Perugia e Orvieto. La città è messa sotto assedio. A questo punto l’esercito interviene per difendere le mura. Ma sono gli arditi del popolo quelli che nel mattino del 12 si danno più da fare per fronteggiare la minaccia fascista. Gli arditi si scaglionano in gruppi, hanno ciclisti che funzionano da staffette, tengono alta la tensione tra la popolazione civile. Dentro alle mura di Viterbo non si distingue più la massa popolare armata dai reparti di arditi. Secondo lo storico fascista Chiurco, a Viterbo le donne starebbero a presiedere le mura con “con le armi del medievo: olio bollente e pietre”. Tra i Viterbesi chi non impugna armi prepara pane e vino e lo porta sugli spalti, per sostenere i difensori della città.
Come a Sarzana, come a Parma, anche a Viterbo l’autogestione della lotta contro il fascismo risulta vincente: rifiutando di delegare alle forze armate istituzionali la difesa della propria incolumità fisica, le masse in rivolta riescono a respingere l’urto delle divise nera. Eppure l’esperienza degli Arditi del popolo verrà intralciata, più che dai fascisti, dagli stessi partiti ufficiali della sinistra. Il partito socialista e il nuovo PCd’I, per ragioni diverse, diffideranno ufficialmente i propri iscritti a prendere parte alle formazioni arditopopolari. Probabilmente il popolo in armi fa troppa paura ai rappresentanti e la preminenza di elementi anarchici tra gli arditi è vista con timore: delegare la difesa ai militari di professione sembra una soluzione più sicura in un’Italia che solo due anni prima sembrava a un passo dalla rivoluzione. Mentre i fascisti continuano a vandalizzare le province italiane il governo, senza che le istituzioni di sinistra si oppongano, dichiara fuorilegge gli arditi del popolo. Senza una forma di difesa popolare che gli si opponga adesso il fascismo ha carta bianca per travolgere il paese. A contrastarlo rimangono alcuni casi sporadici di autorganizzazione, alcune forme di ribellione personale: le grandi istituzioni della mobilitazione politica hanno già abbassato la guardia. Nei mesi che seguono si alternano omicidi politici e rappresaglie. Le strutture sovversive e quelle di sinistra sono annichilite. Anche il territorio di Viterbo, ormai ridotto a terra bruciata, sarà conquistato dalle camicie nere.