di Franco Pezzini
Chiunque ami il fantastico scopre, prima o poi, che qualche quartiere del proprio immaginario ha la forma fascinosa e un po’ sordida dei nebbiosi vicoli vittoriani. Che a distanza di più di un secolo l’impatto di quell’ambiente sia ancora tanto forte non stupisce nessuno: l’età vittoriana, specie degli ultimi decenni, ha rappresentato un’epoca d’oro della scrittura di genere, partorendo personaggi che per peso mitico sono in grado di rivaleggiare coi grandi eroi classici — Sherlock Holmes e Dracula, per citare solo un paio dei più noti. Su uno sfondo, oltretutto, in cui i grandi temi del nostro tempo sono già abbozzati in forma epica, dai conflitti sociali ai sogni di una paleoglobalizzazione, dai grandi dibattiti filosofici al profondo rinnovamento delle strutture istituzionali e dei media.
Si pensi solo alla varietà di manifestazioni religiose (dalle più alte alle più becere) che si confrontavano da un lato con lo scientismo positivista, e dall’altro coi sogni di teosofia, spiritismo e occulto — magari nella forma pittoresca della Golden Dawn di scrittori e artisti; alla nascita delle agenzie di stampa e del nuovo giornalismo; all’alba della criminologia e agli sviluppi di una pubblica sicurezza in senso moderno (con tanto di feroci conflitti tra i vertici); alla straordinaria epopea sociale che coinvolse masse di lavoratori o singoli attivisti in battaglie per la dignità umana i cui resoconti non lasciano indifferente neppure lo smaliziato lettore odierno. Tra le quali emerge quella contro la tratta di ragazzine inglesi verso bordelli del continente: una storia ignobile che coinvolgeva aristocratici britannici e teste coronate come Leopoldo del Belgio. E la campagna di denuncia, che pure ottenne risultati concreti, costò un’incriminazione al grande giornalista William Thomas Stead. A fronte di questo quadro, possiamo restare un po’ freddi verso una certa poesia dei bordelli: e con tali avvertenze rivedere L’ultima Salomè di Ken Russell (1988), ora apparso in dvd per Eagle Pictures.
Mettendo subito le mani avanti: rispetto alle grandi provocazioni delle opere migliori — si pensi a I diavoli — il regista si diverte con un film di minori pretese, assai meno trasgressivo di quanto voglia ostentare. E i siparietti erotici che lo costellano, le continue allusioni sessuali e le trovate cialtronesche, i piccoli paradossi del rapporto tra linguaggio teatrale e cinematografico — fin da quello iniziale, dove Wilde legge i titoli di testa sul volume illustrato da Beardsley — intessono anzitutto un godibile esercizio di stile.
In effetti Salome’s Last Dance (tale il titolo originale) costituisce la brillante trasposizione filmica — per certi versi, l’unica oggi possibile — della Salome di Wilde, scritta in francese nel 1891 per Sarah Bernhardt, rappresentata ufficialmente solo nel 1896 e musicata nel 1905 da Richard Strauss. Anzi, è essenzialmente la sua rappresentazione, con un’esile cornice che spiega come nel novembre 1892 lo scrittore (Nickolas Grace) venga invitato dal proprietario di un bordello di lusso a quella recita autogestita dell’opera appena censurata, interpretata per l’occasione da collaboratrici e clienti; e il tutto si chiude con uno sberleffo dal sapore di snuff movie. Enfatizzando l’ironia che brilla tra i languori simbolisti del testo di Wilde, Russell costruisce la sua profana rappresentazione coadiuvato da un cast di straordinaria bravura: l’insinuante Stratford Johns nei panni del tenutario Alfred Taylor e insieme di Erode; l’attrice-feticcio Glenda Jackson in quelli di Lady Alice e di Erodiade, paludata in stile Biancaneve; Imogen Millais-Scott che interpreta una giovanissima cameriera della casa e appunto Salomè — torbida e ingenua, acerba e provocante nella grottesca carnevalata della corte di Macheronte. Efficace risulta Douglas Hodge nei panni del geloso amante di Wilde, il belloccio Lord Alfred Douglas, a sua volta indotto al ruolo del Battista (via via in gabbia o su un elevatore per le vivande). E non manca una divertente comparsata del regista, nei panni di un fotografo di soggetti licenziosi improbabilmente inserito nella messa in scena.
Il pasticciaccio brutto che secondo il testo evangelico condusse alla morte del profeta aveva già conosciuto infinite ripercussioni nell’immaginario: letteratura devota e folklore ci avevano sguazzato per secoli, confinando i protagonisti con Giuda, Caifa e Pilato nella galleria teratologica dei vilain evangelici. A recare una sorta di certificazione DOC della nefandezza conducevano i legami onomastici e familiari di Erode (Antipa) ed Erodiade con l’arcicattivo Erode il Grande, l’appartenenza alla stessa Dallas palestinese a base di incesti e atrocità, la sua associazione (in negativo) alle singole tappe della vicenda evangelica dalla natività alla passione. Ed Erodiade, accreditata a morta inquieta da tutta una tradizione popolare, finirà persino confusa (Diana / Herodiana) tra le oniriche Signore del Gioco dei cortei stregheschi altomedioevali. Ma Salomè è persino più problematica, visto che il nome taciuto dai Vangeli emerge in pratica solo nell’Ottocento con Flaubert: questi lo ripesca dallo storico Giuseppe Flavio virando al nero il nome dell’amorosa Sulamita del Cantico dei cantici. Anche in questo caso, dunque, una figura storica — nata attorno al 14 d.C., morta in tarda età (per l’epoca) tra il 62 e il 71 — ma circonfusa di fantasie: come sul tipo di performance con cui avrebbe incantato il tetrarca, quella danza dei sette veli che raggiungerà gli orizzonti di stereotipi e barzellette quale emblema di sensualità esotica.
Della storiaccia poi l’arte si appropriò con entusiasmo: specie da quando, agli albori dell’età moderna, temi sacri di facciata spalancarono a un pubblico compiaciuto le cateratte del pruriginoso. Tiziano celebrò il paradosso della candida ragazzina con la testa mozza sul piatto; e più avanti, da quell’isola del pittor Moreau che furono gli atelier del tardo ottocento, donne-serpente tiarate dai corpi pallidi e dipinti sciamarono innanzi a platee di spettatori-voyeur, trasformati in altrettanti Erodi nell’evocazione delle più perverse agonie romantiche. Ma il pulp col boss in fregola, la concupita figlioccia e la dark lady incarognita risultò deliziosamente promettente anche per la letteratura e — ovviamente — per il teatro, che permetteva di richiamare in scena il fatale spettacolo.
Eppure il discorso è persino più complesso, e non si consuma in un superficiale titillamento gore: a emergere è infatti una dialettica mitica di forte impatto sull’immaginario occidentale, e con radici assai più antiche del balletto di Salomè. Il trittico di un re Portatore di morte, di una partner-sorella in conflitto e della desiderabile figlia di lei corre lungo i millenni: dalla triade Ade-Demetra-Kore a patrocinio di grandi misteri pagani, fino al gruppo di un anziano ammazzavampiri, una vampiresca contessa madre e la ragazza Carmilla nei misteri esistenziali della liturgia gotica.
In effetti l’episodio di Salomè costituisce una di quelle strutture-tipo (altro esempio, le tentazioni di sant’Antonio) che nutrirono per secoli un linguaggio eminente di spiegazione del mondo, esteriore e interiore, che oggi chiamiamo fantastico. E nutrirono l’horror prima che nascesse un genere con questo nome: anzi nella somma di repressione sessuale e furiose fantasticherie che condusse al successo la scena di Macheronte emerge perfettamente la caratteristica del mysterium indicibile del gotico, cioè una connessione più o meno evidente tra orrore ed erotismo.
Certo la struttura mitica adatta la propria ambiguità a contenuti diversi nel tempo, in riferimento a istanze forti della comunità e alla loro adeguata drammatizzazione: e tramontate in occidente con l’industrializzazione parecchie altre forme di percezione della natura, il mistero celebrato nell’horror coinvolge quelle residue, legate (soprattutto) a nascita/generazione, sessualità e morte. Anche se, è chiaro, la “macchina per pensare” del mito può svolgere funzione critica o invece indurre al pensiero uniforme, modaiolo: un rischio che, a prescindere da facili censure, interpella senz’altro la stagione della danzatrice-bambina. Che guarda ben oltre Moreau e la Madre Londra vittoriana: e anzi, varcato il Ballo Excelsior del nuovo secolo, conoscerà una trionfale tournée prebellica.
A fronte di questo quadro in sé piuttosto equivoco, anche il finale grottesco del film, con l’arresto di Wilde e dei teatranti, ha il sapore del politicamente scorretto: la povera cameriera-Salomè è stata accoppata davvero alla fine della recita, e il gruppo degli “spiriti liberi” liquida la faccenda come un dettaglio. Sarebbe suggestivo ravvisare nella trama e in quest’ultimo sberleffo nero una frecciata al cinema degli anni Ottanta, a un certo compiacimento patinato e ambiguo come la recita del ricco tenutario: ma molto più probabilmente si tratta di un gioco, a suo modo non meno compiaciuto.
Wilde muore nel 1900, per i postumi di un incidente occorsogli durante l’avvilente esperienza in carcere 1895-97: un de profundis di ben altra tragicità rispetto all’allegro arresto in L’ultima Salomè. Una dozzina d’anni più tardi, nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, l’eroe della battaglia contro la tratta nei bordelli, il giornalista Stead, si inabissa col Titanic; e a distanza di pochi giorni, il 20 aprile, muore anche il più emblematico cantore del gotico vittoriano, Bram Stoker, congedatosi con l’ultimo, febbricitante romanzo The Lair of the White Worm (1911) da cui lo stesso Russell trarrà l’omonima e folle trasposizione (lo stesso anno di Salome’s Last Dance, 1988). E infine nel 1917, a Vincennes, un perplesso plotone di esecuzione fucila di malavoglia Mata Hari, chiudendo idealmente la Belle Epoque di Salomè. Il mito passa al cinema.