di Claudio Albertani
Il Messico è ferito. È vero che nella sfortunata geografia della sofferenza ci sono paesi che stanno molto peggio, ad esempio l’Iraq o la Palestina. Tuttavia, in Medio Oriente e altrove ciò che predomina è il fragore delle armi. Ricordo l’inutile sforzo che feci alcuni anni fa per spiegare la ribellione indigena del Chiapas a dei rifugiati pachistani che avevo conosciuto in Europa. Io parlavo di quanto innovatore fosse il messaggio zapatista, del ruolo delle donne insorte, dei progetti di autonomia territoriale… Nulla di tutto ciò pareva loro importante. Le domande erano: “Quanti kalashnikov hanno? Quante granate di frammentazione? Mine antiuomo?” Secondo i miei interlocutori, l’unica cosa importante era la capacità offensiva che potevano esibire gli insorti.
L’aneddoto aiuta a capire la tragedia del Messico e, al tempo stesso, la forza della sua gente. Qui, nonostante condizioni assai difficili e preoccupanti livelli di repressione, i movimenti sociali sono, in gran parte, pacifici. La violenza si trova da una sola parte — quella del governo — e, come ebbe a dire Gandhi, la violenza è la risorsa dei deboli.
Ecco il primo dato. È difficile afferrare il perché dell’enorme sproporzione tra violenza ufficiale e domande sociali. A Oaxaca, i 23 morti confermati tra giugno e dicembre 2006 (più un numero ancora imprecisato di desaparecidos) sono da una sola parte, quella dei cittadini che protestano. I 45 martiri di Acteal (dicembre 1997) non erano pericolosi terroristi, bensì gente pacifica, in maggioranza donne (di cui alcune incinte), bambini e anziani intenti a pregare.
Le donne violentate, gli adolescenti picchiati e le due giovani vite stroncate a San Salvador Atenco (maggio 2006) non rappresentavano una minaccia per la sicurezza nazionale. Tuttavia, è stato applicato loro lo stesso trattamento sadico che abbiamo visto nei documentari su Abu Grahib.
Il dottor Guillermo Selvas e sua figlia Mariana, rilasciati qualche giorno fa dal carcere statale Molino de Flores, non sono pericolosi fanatici disposti a uccidere, bensì persone che prestavano aiuto medico ad Atenco e per questa tremenda colpa hanno passato un anno, otto mesi e quindici giorni in prigione. Con che accusa? Nessuna, visto che sono usciti scagionati da ogni colpa.
“In Messico non vi é uno stato di diritto, bensì due”, dice Mariana. “Uno è per i poveri, l’altro per i ricchi. Le carceri sono piene di persone che lottano per dare da mangiare alle loro famiglie”.
Héctor Galindo Ochoa è un giovane avvocato, consulente giuridico del Fronte dei Popoli in Difesa della Terra (FPDT), organizzazione contadina che nel 2002 vinse una battaglia per impedire l’espropriazione di terre fertili e irrigate al prezzo di 7 pesos al metro quadro per costruire un aeroporto. Insieme con Ignacio del Valle Medina e Felipe Álvarez Hernández, Héctor sconta una condanna a sessantasette anni e sei mesi in una prigione federale di massima sicurezza con l’accusa (fabbricata) di sequestro equiparato, il che equivale a una sentenza di morte.
Fa male il reclamo di Magdalena García Durán, una rispettabile signora dell’etnia mazahua, che è rimasta detenuta un anno, sei mesi e cinque giorni, solo per essersi trovata al momento sbagliato nel luogo sbagliato. “Dov’è il diritto? È giusto che mi abbiano incarcerata senza che io sappia di che cosa mi si accusa?”.
Parole terribili nella loro schiettezza. Parole che riassumono la condizione dei popoli autoctoni, la cui sensibilità e creatività furono ammirate da scrittori del calibro di Benjamín Peret, il grande poeta surrealista: “In Messico — scrisse molti anni fa — chiunque, per quanto umile, possiede un senso artistico che ha solo bisogno di condizioni favorevoli per svilupparsi. L’amore per i fiori che si può osservare sulle porte e finestre delle abitazioni più umili ne è la manifestazione elementare ed evidente. Se il senso artistico non fosse così diffuso, non si spiegherebbe l’inaudita ricchezza e varietà di un’arte popolare che meraviglia anche il visitatore più distratto di qualsiasi mercato messicano”.
Nel Messico di inizio millennio, a quanto pare, l’amore per i fiori è un delitto imperdonabile. Infatti, la strage di Atenco si deve alla solidarietà che alcuni militanti del FPDT espressero precisamente ad alcuni venditori di fiori ingiustamente sgomberati a Texcoco.
“La legge più che garantire diritti serve per negoziare privilegi”, spiega Frnacisco López Bárcenas, avvocato mixteco, difensore giuridico di San Pedro Yosotato (Oaxaca), una comunità che da anni lotta per la conservazione dei propri diritti agrari e in cui su tutti i capifamiglia (così come sullo stesso López Bárcenas) pendono mandati di cattura. A Yosotato l’ultimo omicidio risale a poco più di un mese fa. Il 24 dicembre 2007, Plácido López Castro, leader indigeno e figlio del signor Marcial Salvador López Castro, assessore ai lavori pubblici, è stato giustiziato da tre persone armate.
Chiapas, Atenco, Oaxaca: tre ferite aperte. Però non è tutto. Ci sono anche i 155 desaparecidos degli ultimi quindici anni; le centinaia di donne massacrate a Juárez (e in altre zone) per il delitto di essere povere lavoratrici. C’è il ritorno della guerra sporca con il sequestro (da parte delle forze dell’ordine) e la successiva scomparsa di due militanti dell’EPR. Ci sono gli arresti illegali che — secondo il Forum Detenute politiche e sistema di giustizia penale, organizzato il 24 gennaio da studenti dell’Università statale (UNAM) e della Scuola Nazionale di Antropologia e Storia (ENAH) — dagli inizi degli anni ’90 alla fine dell’anno scorso, sono stati secondo calcoli conservatori almeno 1.718. 1.480 imprigionati sono stati già rilasciati e 238 sono ancora in prigione. E ci sono i 267 attivisti sociali detenuti dall’inizio del governo di Calderón (in quello di Vicente Fox ve ne furono 614).
Questa è la realtà che analizza la Commissione Civile Internazionale per l’Osservazione dei Diritti Umani (CCIODH) durante la sua sesta visita al paese. Nata in Europa poco dopo la strage di Acteal, quest’organizzazione lotta da dieci anni contro l’impunità e la violenza ufficiale. È composta da specialisti di diverse discipline e si è guadagnata un solido prestigio che il governo non si azzarda più a mettere in discussione.
“Una visita molto opportuna”, spiega padre Miguel Concha, veterano difensore dei diritti umani e presidente del Centro dei Diritti Umani Fray Francisco de Vitoria. “Una visita — continua — che ha luogo in un momento cruciale. L’esercito pattuglia le strade, i gruppi paramilitari continuano a essere attivi in Chiapas e in altre parti. Il governo induce la violenza intercomunitaria, insabbiando conflitti agrari. Abbiamo alle porte una riforma giudiziaria che, se sarà approvata, criminalizzerà ulteriormente la protesta sociale, legalizzando le perquisizioni senza autorizzazioni giudiziarie e calpestando la libertà d’espressione e di associazione”.
Sì, il Messico è ferito. “La violenza governativa è così comune che non viene più nemmeno registrata. L’apatia e il mal governo sono formule magiche perché tutto continui a essere uguale”, afferma il dottor Selvas. Speriamo che la visita della CCIODH aiuti a rompere il circolo vizioso.