di Girolamo de Michele
[Pubblico qui, con qualche taglio, un lontano intervento benjaminiano, recuperato da un vecchio archivio che mi sembra abbia ancora qualcosa di attuale. Il testo fu letto in una giornata di studi benjaminiani a Bologna (9 nov. 1995), ed era dedicato ad Alex Langer: a distanza di tanti anni, non ho una sola ragione per non mantenere la dedica, che è sempre una forma di rammemorazione]
qui la seconda parte
1. Sotto l’ombra delle rovine
«C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi…»*
Voglio dimostrare innanzitutto che l’Angelus Novus, in quanto Angelo della storia, appare solo e soltanto in un momento ben preciso, storicamente determinato; che la sua apparizione a Benjamin introduce una questione che potremmo così intitolare: “cosa fare delle rovine?” E che, infine, quella questione ne contiene un’altra: chi deve prendersi cura delle rovine, posto che l’Angelo vorrebbe, ma non ne ha la possibilità?
Prima di entrare nel vivo della dimostrazione, qualche chiarimento. Parlerò di rovine intendendole, benjaminianamente, in senso allegorico. Ed intendendo l’allegoria come tratto d’unione fra le rovine intese come pura immagine letteraria e le rovine come oggetti materialmente presenti, come residui — come rifiuti. Francesco Orlando ha dimostrato quale sia il portato teorico necessario per mettere in questione le immagini delle rovine nella letteratura occidentale: per la sola loro classificazione è necessario niente di meno che un ripensamento dell’epistemologia freudiana (1). Guido Viale ha a sua volta dimostrato quale sia l’effettiva portata del prendersi materialmente cura delle rovine del sistema del consumo delle merci: basterà qui accennare ad uno dei luoghi di questa cura — la discarica — come suolo non soggetto alla legge di decrescimento della rendita fondiaria, e soprattutto a ciò che l’oggetto di questa cura — il rifiuto riciclato — implica: la ridifinizione del concetto di proprietà come proprietà dei servizi e delle funzioni, ma non della materialità del supporto, della cosa e l’affievolimento del concetto giuridico di res nullius (2). Di queste costellazioni non posso qui trattare, benché costituiscano lo sfondo su cui muovo la mia tesi.
Cerco di chiarire il senso di questo sfondo. La filosofia della storia di Benjamin è una filosofia eminentemente tragica. Come scrive Cesare Cases introducendo il Dramma barocco tedesco, il «vento gelato che soffia sul cimitero barocco» soffia, in realtà, sul «cimitero della storia»: «proprio per questo la lettura di questo libro è più che mai corroborante, poiché qui quel che è diventato moda è ancora bruciante esperienza e scoperta, la morte è morte e il destino è destino» (3). Ma Benjamin non si accontenta di questa constatazione: il suo pensiero cerca di interrompere il corso della storia, di aggrapparsi al freno d’emergenza per arrestare il treno della storia: «Secondo Marx, le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma le cose stanno forse in un altro modo: forse le rivoluzioni sono il freno d’emergenza cui l’umanità in viaggio su questo treno si aggrappa» (4). La sua teoria della storia vorrebbe disperatamente farla finita con la filosofia della storia, interrompere la forsennata accumulazione di tragedie per restituire alla molteplicità dell’esistente la sua dimensione più propria: quella dell’attualità redenta, dove l’esistente, finalmente citabile in ciascuna delle sue componenti, cessa di essere trasfigurato in maceria. In ciò l’attualità di Walter Benjamin: in un’epoca in cui è ormai palese che la guerra investe il pensiero come la verità stessa del reale — in cui, come perentoriamente afferma Lévinas, non è più necessaria l’esegesi di oscuri frammenti eraclitei per provare che l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra, vi è urgente necessità di un pensiero che, all’interno del riconoscimento dell’essenza tragica della storia, cerchi la via d’uscita da questa, ovvero la pensabilità e la possibilità della felicità. In ciò, anche, l’attualità del tema benjaminiano delle rovine. Cosa sono, infatti, le rovine, se non frammenti d’essere defunzionalizzati? E cosa significa prendersi cura delle rovine, se non operare una loro rifunzionalizzazione — culturale, pratica, economica che sia? Questa dialettica defunzionalizzazione-rifunzionalizzazione, che anima le ricerche di Orlando e Viale, si mostra oggi in tutta la sua quotidiana drammaticità. Basta pensare alla massa di macerie prodotte dal progresso che, invisibile ai nostri occhi come agli occhi dei cittadini dell’immaginaria città di Leonia narrata da Calvino nelle Città invisibili, si accumulano sino ad oscurare con la loro ombra la nostra esistenza ordinaria. Del loro smaltimento, altrimenti impossibile, si fa carico sempre più spesso la malavita organizzata (la cosiddetta ecomafia), nazionale e non, realizzando di fatto quell’accordo altrimenti ventilato fra impotenza delle istituzioni e capacità imprenditoriale ed organizzativa delle mafie: quale allegoria più evidente di ciò che la vita quotidiana e il corso della storia hanno in comune?
2. L’Angelo di Klee e l’Angelo di Benjamin
[Clicca sull’immagine per ingrandirla] Iniziamo dunque (non dal principio ma) dall’origine: dal dipinto di Klee, su cui in molti hanno scritto senza averlo visto (5). C’è effettivamente un angelo? Si, senza dubbio. Ha le spalle rivolte indietro? Si, le ha. C’è effettivamente una tempesta? Direi di si: se intendiamo la progressiva degradazione di giallo, dal quasi marrone del bordo esterno al quasi bianco del centro, possiamo dire di si. E le rovine? Ecco: le rovine proprio non ci sono. Le rovine le ha aggiunte Benjamin, le ha create con la sua interpretazione. Con un termine fenomenologico, le ha intenzionate. Abbiamo dunque un Angelo di Klee, e un Angelo di Benjamin — ed è quest’ultimo che vede le rovine là dove altri non le vedono, o addirittura dove ancora non ci sono rovine: leggiamo infatti nel Passagen-Werk che «è stato il surrealismo a gettare il primo sguardo sulle macerie che lo sviluppo capitalistico delle forze produttive gettava dietro di sé. Con la crisi dell’economia mercantile, cominciamo a scorgere i monumenti della borghesia come rovine prima ancora che siano caduti» (6). Apparentemente ho già svolto il primo quesito: le rovine di cui si tratta nella IX Tesi sono rovine storicamente determinate. Ma ciò che voglio mostrare è che anche lo sguardo dell’Angelo — anzi, degli angeli — è storicamente determinato.
L’Angelo guarda: è importante cosa guarda, lo è di più come. Guarda le rovine, che la versione francese (dello stesso Benjamin) rende come décombres, termine la cui origine è décombrer, rompere gli argini‘. Per quanto involontariamente, il testo francese ci chiarisce che le rovine guardate dall’Angelo sono ciò che resta quando gli argini vanno in pezzi e il fiume straripa. Ora, gli argini sono per lo più creati per durare, non per trasformarsi in rovine; più in generale, le rovine sono ciò che resta della cosa quando questa ha perduto la sua funzione originale e primaria. Leggere, prima ancora che interpretare, le rovine significa leggere ciò che non è stato tramandato per esser letto nella forma in cui ci è giunto. Con le parole di Blumenberg (7):
«Leggere del leggibile significa che il destinatario non si rifiuta a ciò che lo riguarda o che lo potrebbe riguardare, anche se non vuol più credere che proprio lui possa essere “inteso”. Questo leggere, lo si può senz’altro paragonare alle decifrazioni degli scritti di civiltà scomparse, perché non tutto ciò che venne mai messo per iscritto è stato “lasciato” ai posteri, destinato ad essi. Per lo più è un semplice “resto”. Ma giustamente lo storicismo ha livellato il concetto di “monumento”: memorabile è tutto ciò che uomini hanno pensato; leggerlo, dove può essere reso leggibile, è un atto di “solidarietà” oltre il tempo. Proiettare leggibilità là dove non c’è niente che sia stato lasciato, niente che sia stato inviato, non tradisce altro che la tristezza per non potervelo trovare e il tentativo di produrre ciò nonostante un rapporto di “come-se”».
In questa essenziale apologia dello storicismo sono presenti almeno quattro capisaldi della visione benjaminiana della storia: l’integrale leggibilità del passato, la tristezza dello storico che ricostruisce un passato privo di lasciti, il carattere intenzionale — non naturale né oggettivo — della ricostruzione dello storico, l’espressività delle rovine. L’anti-storicista integrale dovrebbe negare la leggibilità della storia, affermarne l’opacità e rifiutare la ricostruzione, e con essa il mestiere dello storico: non così Benjamin. La presenza di questi temi in Benjamin, e la loro derivazione dallo storicismo, fa sospettare che il suo anti-storicismo sia qualcosa di molto più complesso di quanto possa sembrare. Butto questo sasso, e per non ritirare repentinamente la mano dico senz’altro la mia su questo punto: l’oggetto della critica benjaminiana è un certo tipo di storico, dalla cui definizione trae la sua designazione lo ‘storicista’, come il grammatico, dice Aristotele in apertura delle Categorie, trae la sua designazione dalla grammatica. Storicista è, all’interno delle Tesi, un concetto che esprime una determinata flessione del termine “storico”, inteso in un senso particolare. Benjamin attua, più che un’esplicita negazione delle categorie storicistiche, un loro dislocamento che ne modifica radicalmente la valenza. Potete non essere d’accordo, ma ciò a cui più tengo è farvi notare come prima dello storicismo non fosse pensabile, in presenza del primato del monumento, l’espressività delle rovine.
Obietterà qualcuno: forse che non abbiamo già nel ‘700, ad esempio con Diderot, un’estetica delle rovine? Certamente. Niente di più obiettivo, allora, che lasciare la parola allo stesso Diderot (8):
«Percorriamo le devastazioni del tempo, e la nostra immaginazione disperde sulla terra gli edifici stessi che abitiamo. Sull’istante, la solitudine e il silenzio regnano intorno a noi. Restiamo soli di tutta una nazione che non c’è più: ecco l’abc della poetica delle rovine. Un torrente trascina le nazioni le une sulle altre in fondo a un abisso comune; io, io solo, pretendo di fermarmi sul bordo e fendere il flutto che mi scorre ai fianchi!».
Possiamo dire di trovarci in presenza di una lettura delle rovine? Non credo, e dubito fortemente che le rovine di Diderot siano espressive. Nel collocare l’estetica delle rovine all’interno di una più generale percezione del decorso temporale, Diderot intende questa percezione come espressione della caducità, della quale le rovine sono mute testimoni. Per mostrarvi quale immagine del tempo fosse correlata a questa percezione, vi sottopongo un testo, tratto dalla narrativa barocca napoletana. Si tratta di uno dei racconti del Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, per l’esattezza Li sette palommielle. Cianna, la protagonista, deve recarsi nientemeno che nella casa del Tempo, per costringerlo a rivelare il rimedio di un sortilegio di cui sono vittime i suoi sette fratelli (9):
«…devi sapere che proprio in cima a quella montagna troverai una casa così vecchia che non è possibile ricordare quando fu costruita: le mura sono incrinate, le fondamenta fradicie, le porte tarlate, i mobili ammuffiti e insomma qualsiasi cosa è consunta e a pezzi: da qua vedi colonne rotte, da là statue spezzate, non c’è nient’altro di intero se non uno stemma inquartato sulla porta, dove vedrai un serpente che si morde la coda, un cervo, un corvo e una fenice. Appena entrata vedrai a terra lime sorde, seghe, falci e falcetti e cento e cento paiolini di cenere, con sopra scritti i nomi, come alberelli da speziale, dove si legge: Corinto, Sagunto, Cartagine, Troia e mille altre città andate a male [iute all’acito], che conserva per ricordo delle sue imprese…»
Ecco i tre giuramenti, in ordine di progressiva approssimazione al vero, che la madre del tempo fa: «sull’acquaforte con cui mio figlio corrode tutte le cose, su quei denti che rosicchiano tutte le cose che muoiono, su quelle ali che volano dappertutto». Ed ecco come compare il Tempo: «…non farti sentire, perché lui è così ingordo che non risparmia neanche i figli e quando non c’è più niente mangia se stesso e poi ritorna a germogliare. E quando Cianna ebbe fatto come diceva la vecchia, ecco arrivare il Tempo, che presto presto, svelto e veloce rosicchiò quello che gli capitò fra le mani, perfino la calce dei muri». Il tempo è un vortice che trascina ogni cosa all’indietro: non accumula, disgrega. Persino un grande albero di quercia, «testimonio dell’antichità, […] boccone che il Tempo regala a questo secolo amaro per le dolcezze perdute» è ora ridotto «da nutrimento per i grandi uomini a cibo per porci»: le cose non sono trasformate in rovine, ma sono svuotate del loro valore, e lasciate a testimonianza della caducità.
Rimandando alla straordinaria ricerca di Francesco Orlando per un’esaustiva argomentazione, concludo questo punto sottolineando come solo dopo quella complessione di eventi che va dalla rivoluzione industriale alla rivoluzione francese, il decorso del tempo non è più percepito col tono “monitorio-solenne” della caducità e della disgregazione. Insomma c’è un momento storicamente determinato a partire dal quale il decorso temporale può essere percepito, in quanto storicità, come accumulazione — ed in questa lettura essere rovesciato come accumulazione di rovine.
[qui sotto: il certificato di morte di Walter Benjamin]
Torniamo all’Angelo, e al suo sguardo. Nella pagina benjaminiana vi leggiamo una percezione individualmente sentita, e pateticamente connotata, dell’accumulo di rovine: questa presentazione patetica del decorso soggettivamente sentito non era possibile, ci assicura ancora Orlando, né a Virgilio, né a Shakespeare. Essa nasce non con Rousseau, ma con la soluzione di un dilemma da Rousseau impostato nelle Confessioni — e qui devo doverosamente lasciare la parola direttamente ad Orlando (10):
«Il problema è la sopravvivenza degli oggetti di memoria fuori dalla memoria stessa: [Rousseau] lo risolve, consapevolmente o presuntivamente, ricusando l’interesse d’una perdurante realtà esteriore e riservando l’intenerimento al dato interiore spontaneo. Rimembranza a occhi chiusi contro pellegrinaggio sentimentale — o contro tesorizzazione di reliquie. Tali resteranno le due vie, e non sono di pari fecondità dal nostro punto di vista: in oggetti rammemorati senza mediazioni materiali, il decorso di tempo non può che azzerarsi. Un giorno Proust, che teorizzerà come memoria involontaria la prima via, condannerà come idolatria inefficace la seconda».
Riassumo e concludo: le modalità dello sguardo dell’Angelo della storia non sono pensabili anteriormente alla nascita del pensiero romantico e dello storicismo. E sono esprimibili iconicamente solo nel linguaggio delle avanguardie artistiche del Novecento.
1 – continua
Note al testo
* Walter Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Gesammelte Scriften [d’ora in poi GS], Bd. I-2, pp. 691-704. Tr. it. di R. Solmi: Tesi di filosofia della storia, in W.B., Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1962, 1995. Per il testo francese delle Tesi: GS, Bd. I-3, pp. 1260-66 [Ms. 452-465].
(1) Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini letterarie. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993.
(2) Guido Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Milano, Feltrinelli, 1994.
(3) Cesare Cases, Introduzione a Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. E. Filippini, Torino, Einaudi, 1971, 1980, pp. xiv-xv (Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS, Bd. I-1, pp. 203-430).
(4) Walter Benjamin, Ms 1100, in Gesammelte Scriften, Bd. I-3, p. 1232.
(5) L’acquerello Angelus Novus fu acquistato da Benjamin, e rimase per quasi vent’anni in sua compagnia. Dopo la sua morte è stato custodito da Gretel Adorno, per essere infine acquistato da tre mecenati israeliani che ne hanno fatto dono al Museo Ebraico di Gerusalemme, dove può essere oggi ammirato.
(6) Walter Benjamin, Das Passagen-Werk, in Gesammelte Scriften, Bd. V, hg. von Rolf Tiedemann. Ed. it. Parigi, capitale del XIX secolo. I «Passages» di Parigi, a cura di G. Agamben, tr. vari, Torino, Einaudi, 1986, pp. 50, 19.
(7) Hans Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1981. Ed. it. a cura di R. Bodei: La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, tr. B. Argenton, Bologna, il Mulino, 1984, p. 405.
(8) Diderot, uvres esthétiques, cit. in F. Orlando, Gli oggetti desueti… , pp. 108-9.
(9) Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, testo restaurato della prima edizione napoletana del 1634-1636, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti, 1986, pp. 788-811 (cito dalla traduzione in lingua di Michele Rak).
(10) F. Orlando, Gli oggetti desueti… , p. 338-9.