di Nuccio Ordine
«Una filosofia che non si traduce in maniera di vivere diventa un astratto edificio concettuale privo di qualsiasi rapporto con la vita e con l’esperienza umana». Pierre Hadot, uno dei più grandi esperti di filosofia antica, riprende con vigore e passione un tema che l’ha accompagnato nel corso della sua lunga carriera di studioso. A quasi ottantasei anni — coronati da un successo internazionale, da numerosi premi e dal suo insegnamento al Collège de France — Hadot non rinuncia a considerare inseparabili il discorso filosofico e la vita: «Nella filosofia antica si percepisce con chiarezza il fatto che il vero filosofo non è solo colui che parla ma anche colui che agisce. Il discorso filosofico (che si tiene nelle scuole attraverso l’insegnamento) e la vita filosofica (la maniera che maestro e discepolo hanno di comportarsi come cittadini nella loro comunità) costituiscono due poli che debbono interferire tra loro. Quando ciò non avviene è facile capire le critiche di chi sostiene che purtroppo “noi abbiamo professori di filosofia e non filosofi” (Henry David Thoreau) o di chi dice che spesso “la filosofia non si trova nelle classi dove si insegna filosofia” (Charles Péguy)».
Nella bella casa di Limours — al centro della periferia sud di Parigi, dove abitano diversi professori universitari — Pierre Hadot mi accoglie sorridente in un grande studio invaso dai libri. Sulla scrivania campeggiano le bozze del suo prossimo saggio che uscirà in aprile presso il prestigioso editore Albin Michel. Il titolo è un inno alla vita: Non dimenticare di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali.
E subito dopo un fugace accenno alla necessità di mettere in luce una tradizione lontana dal famoso memento mori (ricordati che si muore), lo studioso non nasconde il desiderio di raccontare il suo primo incontro con la filosofia: «Nella mia biografia mia madre ha giocato un ruolo importante. Aveva deciso lei stessa il destino dei miei due fratelli maggiori e il mio: i suoi tre figli dovevano essere preti. Così la mia formazione iniziale, dall’età di dieci anni, avvenne nei seminari di Reims, secondo le regole di un’educazione religiosa. Ma leggevo anche, per interesse personale, autori che poi hanno condizionato il mio pensiero: Montaigne, Bergson, Heidegger e, naturalmente, l’esistenzialismo di Sartre e Camus».
Lentamente, il giovane Hadot percepisce il suo distacco da un mondo chiuso che non permetteva nessun contatto concreto con la realtà esteriore. «Due circostanze, una ideologica e l’altra privata, mi costrinsero a prendere coscienza del mio allontanamento dalla Chiesa. Da una parte, la pubblicazione dell’enciclica Humani Generis, nel 1950, che prendeva posizione contro l’evoluzionismo dello scienziato-teologo Teilhard de Chardin (e ci sarebbe tanto da dire anche oggi sulle interferenze delle gerarchie ecclesiastiche in questioni relative alla ricerca scientifica!). Dall’altra, una storia d’amore, iniziata nel 1949, che mi legava a colei che sarebbe poi diventata la mia prima moglie. Non me la sentivo più di rinnegare le mie convinzioni legate alla libertà della ricerca filosofica e di costruire una doppia vita, come molti dei miei confratelli facevano, giustificando le loro scelte con il motto luterano Pecca fortiter et crede fortius, come se il credere con forza potesse cancellare ogni peccato».
Ma dove trovare il coraggio per abbandonare definitivamente la Chiesa? E, soprattutto, quali conseguenze avrebbe avuto questa scelta nei rapporti con la madre? Hadot decide di raccontare per la prima volta, con la discrezione che ogni intimo segreto richiede, una circostanza che finora aveva preferito nascondere. «La forza mi venne dall’esperienza di mio fratello, il secondo, che aveva dieci anni più di me. Per liberarsi dalla Chiesa e per non deludere mia madre, simulò una morte per annegamento. Un po’ di tempo dopo, mi venne a trovare la sua compagna e mi disse che mio fratello era vivo e che avrebbe voluto rivedermi. Nessuno seppe la verità, tranne io. Quel gesto estremo in nome della vita mi convinse che anch’io non avevo alternative. Scrissi a mia madre e abbracciai il mio nuovo percorso di studioso».
Per designare l’attività filosofica Hadot, pensando alla filosofia antica e anche ad autori come Foucault o Wittgenstein, usa volentieri la nozione di «esercizio spirituale»: «Io credo che, in un ambito filosofico, l'”esercizio spirituale” possa considerarsi come una pratica volontaria, tutta personale, destinata a provocare una profonda trasformazione dell’individuo, una profonda metamorfosi del sé. Per alcuni filosofi antichi, questa pratica potrebbe essere messa in relazione con il prepararsi ad affrontare le difficoltà della vita: la malattia, la povertà, la mancanza del necessario, la variazione improvvisa della fortuna impongono un esercizio interiore che ci aiuta nella quotidianità e, nello stesso tempo, ci insegna a ragionare e a interiorizzare il sapere. Sulla scia di Paul Rabbov, ho mostrato che gli esercizi spirituali cristiani erano un’eredità della filosofia antica».
Uno dei compiti principali della filosofia per Hadot non è tanto quello di costruire «discorsi nuovi» o «edifici concettuali fine se stessi»: «La filosofia — ci dice — deve soprattutto insegnarci ad andare al di là di noi stessi, a superare il perimetro limitato del nostro io, e a farci prendere coscienza del nostro appartenere alla grande comunità degli esseri umani. Solo così pensiero e azione possono aiutarci a cercare il bene comune, rinunciando a inseguire i piccoli egoismi e le miserie legate al nostro particulare». Questa coscienza permette di vedere con occhi diversi la realtà nella quale siamo immersi. «Si tratta di cercare una vita più razionale che ci consenta di aprirci agli altri e di sentirci parte integrante dell’immensità del mondo. Un processo che non prevede un punto di arrivo. Siamo di fronte a una sfida infinita che, pur non producendo sempre risultati di alto livello, ci aiuta comunque a misurarci con i grandi misteri dell’esistenza».
Ma prima di salutarci, Hadot ci tiene a ricordare che per poter assolvere a questa funzione di «formazione », la filosofia non può essere al servizio del mercato e del profitto. «La morale stoica insegna che il culto del profitto distrugge lentamente l’umanità. La vita filosofica impone invece che ogni uomo sia leale, sia trasparente, sia disinteressato. Socrate era un filosofo non perché insegnava filosofia. Lo era perché la sua maniera di vivere, e poi di morire, hanno testimoniato cosa fosse per lui la vera filosofia». Parole che dovrebbero far riflettere, in una «civiltà» in cui si perde sempre più l’idea di bene comune.
[dal Corriere della Sera del 27.2.08]