di Alberto Prunetti
Kark-Markus Gauss, I mangiacani di Svinia. Un’epopea rom, Roma, L’ancora del Mediterraneo, 2008, p. 160, 13,50 euro (traduzione di Vincenzo Gallico)
I mangiacani di Svinia è un bel reportage narrativo frutto della penna e della curiosità di Karl-Markus Gauss, scrittore e viaggiatore austriaco che ha passato almeno quattro mesi, in diversi anni, peregrinando tra gli slum dell’Europa dell’Est (principalmente Romania e Slovacchia).
Ho letto il libro di Gauss e mi è piaciuto. Sono anche andato a una presentazione de I Mangiacani di Svinia con l’autore, e quella sensazione positiva è stata confermata.
Il libro è sostanzialmente un resoconto di viaggio. Una riflessione su quei luoghi (gli slum nell’Europa dell’est, comparabili ai campi nomadi del bel paese ) condannati all’invisibilità. Tra i pregi di questo libro, va citata l’assenza di pietismo. Gauss combatte sia gli stereotipi negativi sui rom (e ce n’è bisogno, visto che sono rinfocolati ad arte da un basso giornalismo sprezzante che soffia sul fuoco dell’antiziganismo), sia gli stereotipi positivi (i rom figli del vento, tutti grandi musicisti, etc) che sono così lontani da una realtà che è tragica.
Gauss non nasconde i problemi. Il fatto che anche la loro società, come la nostra, sia divisa in classi. Che ci sono differenze brutali di genere. Che anche tra gli ultimi, ci sono dei paria, degli intoccabili. I mangiacani, appunto: un sottogruppo di rom slovacchi, i degesi, che abitano in uno slam di Svinia. Nessuno li ha mai visti mangiare un cane, ma l’espressione è utilizzata da quegli stessi rom che li stigmatizzano per la loro alterità….
Nella conferenza in cui Gauss ha presentato il suo libro, ha lasciato anche trapelare la propria preoccupazione per quanto sta succedendo in Europa. La situazione è tragica, perché i rom — in Italia come nell’Europa dell’est — sono un gruppo sociale (neanche minoritario: diciamo la più grande minoranza europea) che è condannato all’esclusione sociale. In altre parole: all’apartheid sistematico.
I rom non sono mai stati così male come adesso (a parte, forse, sotto il nazionalsocialismo). Negli anni del socialismo reale le istituzioni di quei paesi avevano provato a integrare in senso autoritario i rom. Erano determinate a cancellare gran parte dell’ essenza culturale rom, offrendo però in cambio almeno la possibilità di avere una vita normale: una casa, un lavoro, la possibilità per i loro figli di studiare. Entrando in Europa, i burocratici e i politici del libero mercato hanno visto nei rom un nemico per le loro politiche neoliberali: uomini del terzo mondo, nel pieno del primo mondo. Nessuno ha più bisogno di loro: né per portare i messaggi, come facevano un tempo, quando erano veramente nomadi; né per i loro servigi come calderai o straordinari lavoratori del ferro; non servono neanche come rigattieri, perché ci sono delle aziende di recupero della spazzatura, e neanche come cavallai. E allora? Il neoliberismo è un sistema che non conosce né la solidarietà né l’apertura verso il diverso. Se non servi a qualcosa, se non ti fai sfruttare ai fini della produzione del prodotto interno lordo, sei, come tanti altri, un eccedente. Devi dimostrare che “servi” a qualcosa, che hai un reddito, devi allegare sufficienti ragioni per sopravvivere.
Bisognerà allora capire se l’Europa è un sistema di allocazione di ricchezza e di risorse umane (tra l’altro un sistema piuttosto inefficiente, perché sembra proprio che il capitalismo passi da una crisi a un’altra) o se può essere qualcos’altro. Perché mentre penso all’intolleranza che regna contro i rom, all’odio e ai tanti pregiudizi nei loro confronti, alla paura che è stata costruita con un lavoro paziente di giornalismo disonesto, quando penso al fatto che non ci sia più posto per chi è diverso da “noi”, allora mi viene da credere che la società in decomposizione non sia quella rom, ma la nostra.