di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita
Pubblichiamo un estratto da Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista «Rosso» (1973-1979) (DeriveApprodi, pp. 108+DVD-ROM, 18 euro), che ripercorre la storia di una delle più sperimentali e innovative riviste dell’Autonomia operaia.
Il 7 dicembre del ’76, giorno di sant’Ambrogio, a Milano fa freddo. La colonnina di mercurio è inchiodata sullo zero. Gelo e nebbia. Tempo da lupi. Tempaccio buono per paltò e pellicce. Ma anche per tolette e smoking. Alla Scala, infatti, è fissato l’Otello di Verdi, che apre la stagione lirica e di balletto. È l’immancabile appuntamento dell’alta borghesia meneghina: la celebre “prima”, divenuta leggenda rossa dal giorno in cui Mario Capanna organizzò la contestazione del movimento studentesco ai signori di Milano. Correva l’anno 1968.
Lo stesso luogo. Un altro tempo.
Regia, scene e costumi portano la firma di Franco Zeffirelli. Placido Domingo interpreta Otello. Mirella Freni è Desdemona. A Piero Cappuccilli tocca l’infido Jago: «Credo che il giusto è un istrion beffardo»…
La televisione trasmette in bianco e nero. Ancora per poco. L’anno dopo finirà l’età di Carosello e il chiodo di Fonzie spunterà dal piccolo schermo. Happy Days… Non a dicembre, però. E non all’ombra della Madonnina.
Per l’occasione cultural-mondana, il primo canale ha sostituito i programmi ordinari con le riprese della struggente follia del condottiero moro. Il «Corsera» non ha perso tempo e ha rilanciato le rendez-vous très chic. Imperdibile. Eccezionalmente spettacolare. «Una schiera di telecamere mobili e fisse, sistemate nei punti più disparati secondo un preciso disegno strategico, entrerà in azione stasera alle 20.45 alla Scala, per riprendere a colori, in diretta, l’Otello di Verdi». Se la strategia televisiva pare impeccabile, qualcosa — in strada — difetta sul piano della tattica.
Piazza della Scala. Manca mezz’ora all’inizio della diretta. Un anziano milanese biascica una domanda: «Ma cosa l’è, tuta ‘ sta pulisia?». Triplice cordone in antisommossa. Elmetti. Scudi. Manganelli. In fondo a largo Santa Margherita, balugina — intermittente — il blu di “gazzelle” e “pantere”. Alle spalle del teatro, in via Filodrammatici, i carabinieri aspettano con le casse dei lacrimogeni aperte. Da via Cusani, corso Porta Nuova, piazza Cavour, arriva il lamento stridulo delle sirene. Brandelli di notizie volano di bocca in bocca. Nell’etere, Radio popolare è impegnata in una diretta tachicardica.
Domingo riscalda la voce. Crepitio sulle trasmittenti d’ordinanza. Do di petto e «Un bacio… un bacio ancora… un altro bacio…». Altrove, altre voci provano altri versi. Gli slogan raschiano la gola e svuotano i polmoni. Le parole — intinte nella rabbia di Baggio, Turbigo, Bollate, Abbiate Grasso — condensano nell’aria gelida: «Avete pagato 100mila lire per l’Otello / Ma noi ve lo roviniamo sul più bello». Dal pomeriggio fino a sera inoltrata, il centro di Milano è lo scenario di scontri violentissimi, che culminano — intorno alle 20.00 — in via Carducci.
Mattanza generale. Tonnara d’uomini. «Spettacolo terrificante», scrive Paolo Pozzi nelle pagine di Insurrezione. «Tra i lacrimogeni e lo scuro non c’è mica spazio per riflettere […] — un disastro […] — qualcuno ha pensato bene di fare una specie di barricata di fiamme con le molotov — un altro massacro — c’è gente che scivola sulla benzina infuocata — prendono fuoco come torce umane…» — racconta Andrea Bellini — il Pike Bishop del wild bunch — là su al Casoretto. La mattina dopo, i giornali parleranno di «clima d’assedio» e della città trasformata in un «bunker». In un «fortilizio medioevale».
Posti di blocco dappertutto tra via Verdi, via Manzoni e largo Santa Margherita. Tram fermati e ispezionati. Blindati proiettati a velocità folle nelle vie che videro morire Giannino Zibecchi. Cariche a oltranza. Inseguimenti nei palazzi. Pestaggi. Arresti. Spezzoni imbottigliati, e massacrati. Reazioni scomposte. Bottiglie lanciate male o — peggio — esplose addosso a chi le impugna. Un manifestante precipita nel lucernario del civico 11 di via Carducci. Otto metri di volo e frattura delle gambe.
Il bilancio è pesantissimo: duecentocinquanta fermi, undici feriti (tra cui una ragazza con ustioni gravi) e trentasette arrestati, prevalentemente giovani tra i diciotto e i ventiquattro anni.
Cos’è accaduto? La risposta langue sui muri di Milano. Misto d’inchiostro, carta e colla.
Il manifesto gioca un collage aggressivo. C’è l’interno della Scala con un’ascia conficcata, a mo’ di tomahawk, all’altezza dei palchi. Subito sotto, nove righe — caustiche come calce viva — chiamano alla mobilitazione:
UNO STIPENDIO PER UNA POLTRONA
Con la prima alla Scala la borghesia milanese inaugura un nuovo anno di sacrifici per i proletari l’incasso della prima agli organismi di base a chi ci nega il diritto alla vita noi negheremo la prima della Scala
I GIOVANI RIFIUTANO I SACRIFICI
L’appuntamento è per Martedì 7 dicembre alle ore 18.00. Firmano i Circoli proletari giovanili dell’hinterland, che nulla hanno in comune con gli studenti sessantottini. La contestazione è la medesima, ma stavolta non si tratta dei figli de les bourgeoises, preoccupati di rifiutare il proprio privilegio.
Sembrano vicini, finanche nei luoghi, quel ’68 e questo ’76. Eppure, l’immagine di un anno formidabile, “durato un decennio”, confonde. Non aiuta a capire. Tra i due eventi si sono consumate cesure epocali. La fase politica è profondamente diversa. Radicalmente differenti sono i bisogni che covano in periferie disintegrate dalla «pianificazione capitalistica» e dimentiche dell’omogeneità operaia dei quartieri torinesi. Anche il paradigma produttivo è mutato. Stanno emergendo nuovi strati sociali. Soggettività complesse, generate dalla crisi, che oscillano tra «ribellismo anarchicheggiante, ideologia controculturale» e capacità di generare ricomposizione. Precari, operai, donne, disoccupati, studenti… Hanno liberato spazi per farne Centri del proletariato giovanile. Traducono il “vogliamo tutto” della Fiat nel “prendiamo tutto”. Dove? Ovunque. Al cinematografo come ai concerti. Nel deserto dell’hinterland e nelle strade di lusso. Al supermercato o nei bei negozi.
Sulle colonne di Rosso del 12 dicembre ’76, in un numero quasi certamente preparato prima dei fatti del 7, la descrizione della conflittualità diffusa coglie i segnali, tanto preziosi quanto controversi, che vengono dal nuovo soggetto:
«Ronde operaie, autoriduzioni nei cinema, appropriazioni, contestazioni a divi e divetti, bottiglie a Cl, sabotaggio delle macchine “obliteratrici” dell’Atm, occupazioni di case, così è esploso il “proletariato giovanile” in soli quindici giorni, con tante contraddizioni, ma con enorme entusiasmo e ricchissime indicazioni d’organizzazione e di potere.»
In realtà, gli eventi della Scala segnano un vistoso arretramento e registrano una battuta d’arresto nello svolgimento d’un processo che — fino a quel punto — è risultato espansivo. Si tratta d’un momento drammatico, in grado d’ipotecare ciò che accadrà da lì in avanti. È addirittura lecito parlare di grave sconfitta politica, innesco di accelerazioni problematiche, fattore che disgrega livelli organizzativi costruiti con fatica nei mesi precedenti.
Comunque, in via Solferino — salotto buono, termometro nel culo della borghesia — hanno fiutato il pericolo e compreso le differenze. La temperatura sta salendo.
Mercoledì 8 dicembre. Il «Corriere della sera» pubblica in prima pagina un editoriale intitolato Jacquerie senza bandiere. Tra le pieghe di un’ostentata fermezza, nel rovescio di riferimenti allusivi a un qualche «cervello» capace di «coordinare e collegare» la rivolta, s’avverte l’acre odore della paura, mescolato a un certo rimpianto per le insolenti, ma ignifughe uova di otto anni prima:
«Milano sta conoscendo l’insorgenza di una forma di jacquerie urbana sterile, priva di obiettivi com’erano, nei secoli antichi, le jacqueries delle campagne. Più inconsapevolmente nostalgici di un passato senza ritorno che non desiderosi di conquiste civili, più primitivamente ostili, nell’euforia di sentirsi parte di bande o compartecipi di riti tribali, agli uomini, alle organizzazioni, alle manifestazioni che si trovano immediatamente di fronte che non alla società e alle sue istituzioni, i protagonisti della jacquerie sono cosa ben diversa e ben lontana dalla contestazione del ’68. Né la politica, né il sistema delle leggi, né gli obiettivi e la strategia dell’azione interessano loro. Come le minuscole bande di contadini delle campagne francesi incendiano il castello, essi gridano “prendiamoci la città”, che luccica, che ha i suoi splendori e le sue contraddizioni. Se anche l’istinto e la frustrazione spingono a qualcosa, sbagliano obiettivi e strategia: sono fuori da tutto, dai partiti, dai gruppuscoli, dalle stesse periferie da cui vengono.»
Descritta in questi termini, la giornata del 7 somiglia all’ennesimo tentativo di sacco, operato da bande di «lanzichenecchi» avvezze alle pratiche di un “irrazionale” e “incomprensibile” «diritto al lusso». Sembra l’ammutinamento metropolitano d’una torma corsara, premoderna e primitiva, priva di vessilli, ostile all’organizzazione in quanto tale e avversa a ogni dinamica rivendicativa.
E invece eccolo, il proletariato milanese, ghettizzato nella «metropoli del capitale e del lavoro», inciampato nella corsa alla radicalizzazione, ripetutamente evocato da «Rosso» e già protagonista dell’estate di Parco Lambro. Da periferie remote, dimenticati sobborghi, i giovani si sono rovesciati sul centro della “capitale morale”. Vengono da quartieri come Quarto Oggiaro, distesa di casermoni senza respiro, popolata — per oltre l’ottanta per cento — da immigrati meridionali. Suburbio che, in meno di dieci anni, ha visto crescere il numero degli abitanti da tremila a trentamila. I pochi milanesi che ci vivono portano, appiccicata in faccia, un’altra storia amara. Sono gli abitanti delle vecchie case dell’“Isola” di porta Garibaldi. Hanno lasciato il brutto per il meglio. Sono precipitati nel peggiore degli inferni. Quarto Oggiaro. Un pezzo di nulla in mezzo al niente, vomitato tra i muraglioni di un’industria petrolifera, il nastro autostradale e la massicciata della ferrovia. Edilizia popolare pianificata a metratura di cemento armato. Non ci sono alberi. Né campi da gioco. Nemmeno un cinema. Soltanto cupi casermoni, all’ombra dei quali chiudere gli occhi. Qualche ora prima del lavoro. Una manciata di secondi dopo l’iniezione d’eroina.
Eccolo, di nuovo, il proletariato giovanile, su cui il giornale di via Disciplini ha avanzato una rilevante puntata politica, nel quadro di un’offensiva generalizzata contro il «territorio metropolitano».
su Rosso vedi anche:
la scheda editoriale
gli interventi di Toni Negri, Benedetto Vecchi, Paolo Pozzi