di Danilo Arona
Pare quasi un esperimento di scrittura automatica di gruppo. Un puzzle intarsiato di idee individuali, concepite in solitudine che, quando raggiungono la collettiva Infosfera, si dispongono ognuna per suo conto al servizio di una visione che le racchiude e se ne fa specchio.
Complicato? Nel dominio della luce oscura non esistono complicazioni. Bensì i paradossi, gli ossimori, le convinzioni che non si osano confessare. Una di queste recita, come in un racconto di Lovecraft, che diversi e disomogenei scrittori nel mondo (che all’inizio della loro insania letteraria non si conoscono ma forse riusciranno a incontrarsi, o quantomeno a collidere) possano iniziare a un certo punto a pensare, o a sognare, le identiche cose. Trame, contenuti, soluzioni finali. A volte persino lo stesso numero.
Il sospetto ce l’ho da tempo. Ma si è acuito negli ultimi mentre leggevo Le invenzioni della notte di Thomas Glavinic (Longanesi) e si è fatto quasi certezza come ho attaccato La strada di Cormac McCarthy (Einaudi). Poi non ho potuto, va da sè, fare a meno d’infilarmi al cinema per vedermi la quarta versione filmica di I am legend, un ricco e per un po’ piacevole blockbuster con Will Smith che mi ha fatto rimpiangere l’angosciante filmetto, troppo avanti per la sua epoca, girato da Ubaldo Ragona in bianco e nero all’Eur nell’anno 1964. E, da quasi sessantenne superstressato e con poca memoria, mi sono chiesto: “Ma quanti anni fa l’ha scritta Richard Matheson ‘sta roba?”.
Nel ’54, boys. Così dichiara la mia consunta copia de I vampiri (a me piace ricordarlo con quel titolo). Era fuori dal tempo, Matheson. Aveva visioni durante le trance produttive di cui certo si rendeva conto. Come lui ce n’erano – ma ci sono ancora – un altro paio: Ray Bradbury e James Ballard, gente con i marroni talmente quadri da non essere presi molto sul serio nelle loro epoche di riferimento esistenziale, ma da conoscere un po’ più in là importanti e profonde riletture scaturite dal saccheggio culturale operato nei loro confronti dai “re dell’horror” contemporanei.
Servono nomi? Ma figuriamoci. A me basta confermare che questi tre hanno inventato un fantastico – quello goth, horror, apocalittico – su cui tutti quanti ancora stanno campando. Ma questa è una divagazione che mi concedo e provo a tornare sul discorso iniziale.
Glavinic e McCarthy. Nulla di più diverso si può pensare. Il secondo è un grande americano (nato nel Rhode Island ma cresciuto nel Tennessee) che conosciamo da tempo, il primo è un giovane mitteleuropeo di cui, sino a Le invenzioni della notte, nulla ho mai saputo. Ah, particolare non di poco conto: il critico militante non si sognerebbe mai di dichiarare la loro appartenenza al genere. Questi, come si dice all’anglosassone, sono scrittori mainstream.
E che hanno fatto questi due narratori? Risposta semplice all’apparenza: hanno riscritto, sempre all’apparenza, I am legend di Matheson. Leggere per credere. Senza vampiri, va precisato.
Non vorrei che vi sfiorasse il malsano sospetto che io stia accusando un gigante come McCarthy di plagio. Peraltro da un punto di vista puramente immaginifico, ha ragione Umberto Rossi che, nel suo imperdibile saggio Il poeta della devastazione (Pulp Libri 69, settembre-ottobre 2007), puntualizza che “la tradizione della letteratura fantascientifica catastrofica, in cui McCarthy entra a diritto con La strada, probabilmente discende da una delle opere meno note di Daniel Defoe, Il diario dell’anno della peste (1722), che tratta di un disastro tutt’altro che fantastico, la micidiale peste bubbonica del 1665″, che sarà d’ispirazione per il Wells della Guerra dei mondi e per le apocalissi ballardiane degli anni ’60.
Però, pur se in bilico talvolta con l’esercizio della critica letteraria, nella “Luce oscura” parliamo d’altro. Oggi, di visioni sempre più condivise da un sempre più crescente numero di scrittori (grandi e piccoli, famosi e sconosciuti), che stanno tutti quanti pencolando sul baratro degli Ultimi Giorni e che ce lo stanno raccontando, ognuno a suo modo ma ognuno sempre più minacciosamente simile all’altro. Con un valore aggiunto che colpisce: la sincronicità.
Jonas, il giovane protagonista de Le invenzioni della notte, si sveglia il 4 luglio come tutte le altre mattine precedenti e, dopo il caffè (indispensabile anche in piena apocalisse), scopre che a Vienna non esiste più alcuna forma di vita e che sono rimasti solo più “gli oggetti”. Da lì a poco si renderà conto che il problema non è solo austriaco, ma riguarda tutto il vecchio continente e, per logica estensione, l’intero pianeta. Alla ricerca della fidanzata, Marie, intraprenderà una “strada” con destinazione Londra, trovando ovunque l’identico spettrale riscontro.
Ne La strada ci tuffiamo in un’analoga situazione, con qualche variante meno metafisica e più realisticamente definita. Un uomo e un bambino, un padre e un figlio, percorrono un pezzo d’America alla volta, creduta salvifica, dell’oceano: un paesaggio incenerito dove tutto, dagli alberi ai cadaveri, è ridotto a tronconi anneriti e che lascia fiocamente trapelare una minima ipotesi sugli eventi distruttivi. Attorno a loro pochissimi brandelli di un’umanità cannibale, residuali bestie feroci a tempo determinato. Senza futuro, anche se nelle ultime pagine McCarthy non chiude definitivamente la porta alla speranza.
Letti l’uno di seguito all’altro, potrebbero proprio essere l’uno il seguito dell’altro: un “post giorno finale”, filmato da due diverse soggettive, complete di coordinate geografiche. Neppure si fossero telefonati (non divago di nuovo, entrando nel merito del diversissimo valore dei due libri…), né va comunque dimenticato il brodo cultural-primordiale nel quale si agitano profezie vere o di mercato che è non possibile non includere, vedi La nube purpurea di M. P.Shiel (1901!), il Morselli di Dissipatio HG, John Wyndham, John Christopher, McCammon, David Selzter, King e persino l’italico Giacomo Gardumi con la sua Notte eterna del coniglio. E non citiamo le numerosissime derive cinematografiche.
Ma torniamo alla sincronicità, perché proprio questa negli ultimi mesi ci racconta di un ulteriore progresso “collettivo” della condivisione visionaria.
Più d’uno scrittore anche qui in Italia – qualcuno ne conosco, tre o quatto me l’hanno anche telefonato… – sembra alla lettera ossessionato dal numero 9. Al punto tale che il toto-Armageddon prevede come anni plausibili: 2009, 2016 o 2034, senza volerci complicare di più la vita con il 2012 del calendario Maya. Se ne sta parlando e se ne sta scrivendo, ma nessuno sa bene perché. Lo dichiaro con un certo anticipo perché gli esempi che si potrebbero fare al riguardo non sono ancora molti, anche se il “666” invocato da tanti scrittori horror, a partire da David Seltzer, fornisce come risultato della somma delle tre cifre il numero nove.
Quando è iniziata questa stramba ossessione telepatica? E’ colpa forse di J.J. Abrams e del suo Lost, dove la famosa equazione del matematico Valenzetti dà 9 come risultato finale e dove un enigmatico computer segna a ritroso 108 minuti (8+1=9) alla fine del mondo? Il calcolo, pare esatto, delle malattie che affliggono l’uomo (999)? Il simbolo dello spirito del Male (9) per i pagani? La previsione numerologica che affligge, mi si racconta, numerosi internauti e che promette h. 16, 23 minuti, 42 secondi dell’8 aprile 2015 (somma finale, 9) come appuntamento con l’eternità? La data utile suggerita da Ramtha ai propri adepti – ho informazioni di prima mano al riguardo – per “salire più in alto possibile”?
Ridiamone, artigliamoci le pudende e continuiamo pure a baloccarci, con qualche brivido sul fondo schiena, con le apocalissi letterarie. Ma, quando fra qualche mese inizierete a inciampare nel “number nine“, pensate a quegli scrittori che “lo vedono” da tempo e non possono fare altro che scriverne.
Proprio come in qualche racconto di Lovecraft: ci stanno poche ed elette orecchie a percepire il richiamo di Chtulhu.